di Stefano Modeo e Antonio Francesco Perozzi

 

[Riprendiamo le pubblicazioni regolari con il resoconto della terza edizione di 7 poeti in uno spazio, tenutasi  lo scorso 15 giugno presso il CSO Django di Treviso].

 

L’esperienza della precarietà è forse uno degli elementi che più facilmente accomuna la generazione dei nati tra gli anni ’80 e ’90. E per questo, il tema è stato messo al centro della terza edizione di 7 poeti in uno spazio X, curata da Stefano Modeo, Antonio Francesco Perozzi e Stefano Bottero al CSO Django di Treviso. Oltre a leggere i propri testi, 7 poeti e poete di quella generazione – Riccardo Frolloni, June Scialpi, Diletta D’Angelo, Riccardo Innocenti, Valerio Massaroni, Francesco Brancati e Beatrice Magoga – sono stati infatti invitati a esprimersi su questo tema e sul rapporto che instaura con la loro scrittura.

 

Ad aprire il discorso è stato Riccardo Frolloni. Nel suo caso la precarietà si accorda in particolare alla frantumazione del nucleo famigliare: l’evento della morte del padre, in corpo striato (Industria&Letteratura, 2021), rifonda le coordinate del nucleo e costringe a riorganizzazioni e riassemblaggi, anche violenti. Il modo in cui questa esperienza si intreccia con la scrittura, però, è significativo: l’autore ha dovuto ragionare sullo strumento del verso per fare in modo di non rendere “patetico” il racconto e sulla necessità, quindi, di entrare in un’altra precarietà, quella di trasformare un padre in un personaggio, un dato biografico in qualcosa di distaccato. Tale distacco si è poi amplificato nel successivo Amigdala (Nino Aragno Editore, 2024), in cui il racconto di una vicenda – a sua volta problematica e disorientante – legata allo stesso personaggio, deve servirsi dell’onirismo e del verso lunghissimo per tenersi sempre in qualche modo fuori sincrono rispetto alla sua controparte reale.

 

Questa contraddizione di mimesi e distacco, funzionale a Frolloni, risuona nel lavoro di Beatrice Magoga. Nella sua scrittura, ancora inedita, la relativa stabilità sociale data dalla posizione di studentessa si scontra con un senso di precarietà esistenziale e identitaria. Magoga evidenzia come il trauma collettivo della pandemia, soprattutto, abbia prodotto uno scarto tra dimensione psichica e dimensione corporea. Il suo lavoro, in questi anni, ha puntato quindi a rinsaldare i due poli, oscillando tra una tendenza alla chiusura del sé e una opposta apertura al circostante. Il sottotesto di questa contraddizione, però, è anche per Magoga il background familiare: un Veneto che spinge sull’aspetto produttivo e arriva a mortificare il sé.

Ma la fase pandemica è stata decisiva anche per il progetto di Diletta D’Angelo. L’autrice la definisce una “precarietà nuova”, che l’ha portata a concentrarsi con maggiore attenzione sulla propria, generale e preesistente, condizione di precarietà. Questa presa di coscienza ha trovato spazio in Defrost (Interno Poesia, 2022) trasformandosi in un forte sentimento di paura, specie nei confronti della violenza del quotidiano e del timore di replicarla. E non solo le poesie in sé riflettono questa condizione; ma partecipa alla frammentazione anche il percorso editoriale dell’opera, che ha visto l’autrice costruire Defrost tramite un collage di frammenti sparsi. Il libro, in questo modo, offrendosi come orizzonte stabile e conchiuso, funziona come forma in grado di stare al di sopra della frammentazione, che tuttavia permane, tanto a livello identitario che socioeconomico, dietro la scrittura.

 

Un livello ulteriore è stata chiamato in causa da Francesco Brancati, che parla di precarietà geografica e senso di disappartenenza a qualsiasi luogo. Il linguaggio molto involuto de L’inesploso (in Hula Apocalisse, Prufrock spa, 2018), primo libro dell’autore, era proprio un tentativo di acquisto della realtà per porzioni di linguaggio. La lingua è percepita da Brancati come unico elemento non precario, spazio da abitare. A questa si contrappongono le fratture dell’ambito lavorativo e della militanza politica: la scrittura diventa occasione per esplicitare i presupposti da cui si scrive e l’essere narrati – dice l’autore – non esime dall’obbligo etico di dire la propria verità, né dalla possibilità di esplicitare la persona che parla dietro il testo. Per questa strada, si viene a patti con le proprie miserie e si mira a costruire un percorso condiviso.

 

Una prospettiva diversa, invece, ha proposto Valerio Massaroni, che riconosce il problema dell’identità come centrale nella nostra epoca, soprattutto nei termini di un senso di impotenza diffuso e schiacciante, ma non crede in una forma di scrittura unificante e capace di esorcizzarlo. Nel suo Startus (Edizioni del Centro Scritture, 2023), Massaroni pone il problema della forma in connessione con quello dell’ordine sociale, con la prima in grado di riflettere il secondo. Per questo motivo la sua scrittura, privata di intenti edificanti, rimane sul piano della frammentazione, rifiutando per di più anche l’approccio postmoderno dell’utilizzo dei materiali, ludico e appagante. Obiettivo primario è cercare di rimanere dentro la dialettica, fondamentale per il presente, tra la sensazione di poter essere qualsiasi cosa e l’estrema impotenza di riuscire a farlo.

 

A partire dalle sollecitazioni di Massaroni, poi, June Scialpi ha parlato di identità non solo come qualcosa che si è, ma, soprattutto, come qualcosa che si fa, un insieme di pratiche materiali. L’identità transgender, da questo punto di vista, è un’identità politicamente e socialmente precaria in sé, dal momento che la sua materialità prescinde l’autodeterminazione del singolo. Nella propria scrittura (ad esempio ne Il Golem. L’interruzione, Fallone Editore, 2022) Scialpi esprime questa cosa attraverso il linguaggio, un linguaggio che fallisce la sua rappresentazione e che si collega alle identità, a loro volta frammentate e non coincidenti con le proprie rappresentazioni. In questo continuo disciogliersi e ricomporsi non c’è mai un tentativo di ricerca dell’unità; più quello di accogliere questo conflitto e di provare a trasformarlo in una fluidità, in una collettività.

 

In chiusura, Riccardo Innocenti ha portato il discorso sul contrasto tra i fenomeni che ci agiscono e ciò che si può fare con la poesia e le arti. Il tentativo di comporre la frammentarietà attraverso la poesia, ribadisce, equivale a una specie di pensiero magico, a un palliativo. Del resto la precarietà comporta anche un distacco ironico e una difficoltà a pronunciarsi senza virgolette, disposizione che l’autore ha messo in campo nel suo Lacrime di babirussa (NEM, 2022). D’altro canto, la precarietà, incrinando un sistema di fissità e di attaccamento a radici che creavano colonizzati e colonizzatori, ha anche aperto nuove strade. Il problema, semmai, si dà nel fatto che, sia nel microcosmo della poesia sia a livello politico, sembra possibile proporre solo soluzioni individuali. Rimane difficile, insomma, trovare una forma o un’identità realmente necessarie, e aderirci.

 

Questa percezione di impotenza, dopo la discussione, appare forse l’elemento più chiaramente condiviso dagli autori coinvolti nel dibattito, al netto delle differenze di poetica e di scrittura. Una percezione che sembra caratterizzare specificamente i nati negli anni ’80-’90 e che segna anche un discrimine rispetto alle generazioni precedenti, come ha dimostrato la discussione intergenerazionale che subito dopo ha animato il dibattito nello spazio X. Anche sulla scia di questa differenza, Stefano Modeo, richiamando Fisher, ha parlato di impossibilità di immaginare il futuro e del ruolo attivo della nostalgia. Nel suo Partire da qui (Interno Poesia, 2024), la necessità di rispondere a una precarietà geografica ha portato l’autore a cercare un rapporto positivo col passato e a usare la nostalgia come relazione tra un mondo perduto ma fondativo e un futuro da costruire. Si tratta di una prospettiva che, per Antonio Francesco Perozzi, deve però fare i conti con l’incapacità di credere in senso assoluto a ciò che si scrive, determinata anche dalla dimestichezza dei giovani poeti con i linguaggi mediatici e memetici, che hanno l’effetto collaterale di opacizzare e sabotare il linguaggio dall’interno (aspetto che l’autore ha applicato ai testi di bottom text, nel XVI Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos Y Marcos, 2023).

 

L’elemento spettrale – per rimanere su Fisher – che pare aleggiare sulla poesia, però, sembra coincidere con l’incognita della poesia stessa di fronte alla cogenza e all’urgenza della precarietà. E questo riguarda tanto la scrittura in senso stretto quanto il contesto in cui le pratiche di scrittura si compiono e discutono. La generazione dei nati tra ’80 e ’90 appare infatti come una generazione ben consapevole delle diverse (e in certi casi contrapposte) tradizioni di scrittura che si sono prodotte negli ultimi decenni; consapevolezza che se da una parte offre un ventaglio ampio di possibilità estetiche, dall’altro può determinare disorientamento e immobilismo. Allo stesso tempo un desiderio diffuso di confronto e spirito di comunità si scontra con un contesto in cui risultano ancora determinanti interessi particolaristici e meccanismi di potere. Sono queste, forse, le meta-questioni che possiamo vedere al fondo di una discussione su poesia e precarietà, che, per definizione, spinge a interrogarsi sui punti di frizione del sistema all’interno di cui si scrive e sulle strategie, forme, orizzonti con cui è possibile abitarlo e significarlo.

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