di Massimo Raffaeli
Tout ce qui est humain m’est étranger
R. N., L’Hussard bleu
Ho letto per la prima volta il nome di Roger Nimier alla metà degli anni Settanta sulle pagine di Rigodon, nella prima versione del romanzo a cura di Ginevra Bompiani. Non mi diceva nulla, quel nome, e così è stato per un lungo tempo fino a quando non ho trovato su una bancarella Giovani tristi, uscito nel ’64 dalle Edizioni dell’Albero, nella benemerita traduzione di Alfredo Cattabiani. L’ho letto subito e qualcosa ha cominciato a rivelarmisi dal meccanismo del Bildungsroman che lo governa: cominciavo a percepire un mondo, i giovani di un dopoguerra felice pure se giuravano il contrario, bevendo e accoppiandosi nelle ricche dimore di Passy, ma non riuscivo affatto a cogliere la postura essenziale del romanzo (che, sia detto ora per allora, è il vertice di Nimier) né tanto meno a intendere cosa avesse a che fare un simile palinsesto della gioventù bruciata con l’universo infero ovvero col sublime dal basso che esplode nei romanzi di Louis-Ferdinand Céline. Tant’è che ancora una ventina di anni fa pubblicando una pagina su Nimier (dal titolo molto esplicito, Esistenzialista d’opposizione, “il manifesto”, 19/8/2000: si trattava se non ricordo male di una rubrica di libri o autori da tradurre) scrivevo, sbagliando, di un romanzo nel complesso “meno significativo” rispetto a quello che avevo appena letto, Les épées. Quest’ultimo era ignoto alla cultura italiana ma non certo a Céline che, ben prima incontrare Nimier a Meudon quale editor e plenipotenziario di Gaston Gallimard, nel 1948 aveva ricevuto il suo libretto a Korsor nella capanna sul Baltico dove con Lucette svernava contumace dall’art. 75, cioè “intelligenza col nemico”: che poi l’avesse letto sul serio resta in dubbio perché il biografo Francois Gibault si limita a riferire il fatto che (tornato in patria Céline già nel ’51) la copia autografata da una dedica marziale, dove il cavalleggero di seconda classe si inchinava deferente al maresciallo d’alloggio Destouches, era stata anni dopo rinvenuta con altre cianfrusaglie nella capanna in abbandono. Insomma trascuravo allora il fatto che Les enfants tristes, sebbene molto più articolato, si specchia nella struttura del piccolo romanzo d’esordio e così dicasi delle altre prove in cui si consuma, nell’immediato dopoguerra e nel giro di un lustro o poco più, la invenzione narrativa di Nimier. Ogni suo romanzo è rigorosamente, inderogabilmente, un romanzo di formazione a partire appunto da Le spade che in un limpido saggio, L’esteta armato. Il poeta condottiero nell’Europa degli anni Trenta (Il Mulino 1990) Maurizio Serra definì “il primo e il più fresco dei suoi libri”. Mi misi a tradurlo nel 2000 senza un committente e per puro desiderio mimetico, intrigato (è la parola esatta) dallo stile rapido e secco, dal ritmo vibrante che commemora non tanto e non solo Stendhal (nello stile à la diable o se proprio vogliamo nello style alerte) quanto il ritmo scatenato dell’amatissimo Alexandre Dumas. Scrivevo a mano su un quaderno scolastico in ore buche, nel vecchio Istituto Professionale di Senigallia: lì i laboratori vuoti, fatiscenti, erano ante céliniane e molto propizie visto che me la sbrigai in un paio di mesi. Lo scrivere a mano, currenti calamo, era forse un tentativo di inseguire e assecondare la velocità dell’originale, la cadenza giambica così poco confacente ai polisillabi dattilici dell’italiano. Ora non ricordo per quale felice congiuntura ma Le spade uscì nel settembre del 2002 nelle edizioni Meridiano Zero di Padova impreziosito da una nota di prefazione a firma di Eraldo Affinati. Ebbe scarse e corrive recensioni a parte una, molto puntuale, di Enzo Di Mauro su “Alias”. Il volume è stato riproposto tale e quale nel 2021 dalle Edizioni Tassinari di Firenze ma ancora una volta è passato, a quanto sembra, nel silenzio più glaciale.
L’apprendistato di Sanders, l’adolescente protagonista del romanzo, si blocca e implode. Le spade è la vicenda di un Edipo asfissiato, di qualcuno che afferma di essere “uno spettatore della vita”. Amore e Morte vi si rincorrono come desiderio e limite fino a sovrapporsi ed essere la stessa cosa. (Ricordo che mentre traducevo mi venivano in mente certe pagine di un’opera che mi aveva tormentato, fra prendere e lasciare, negli anni di università, l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari: oggi ho l’impressione che Sanders sia in realtà un Anti-Edipo che non voglia o anzi non sappia di esserlo). Il desiderio in lui ha un decorso ossessivo, a senso unico, perché si esaurisce in Claude, la sorella amata nelle forme della monomania feticista e di una dilettazione claustrofobica. Perché Claude non esiste nel mondo esterno ma solo negli interni domestici e la si immagina al massimo in alcova o a teatro. Claude nel romanzo è la sola sopravvissuta allo sterminio parentale, a una madre che da tempo non esiste più e a un padre che sta venendo meno: infatti Sanders parla della sua situazione associandola a un Tristano e Isotta degenerato. Il desiderio di Sanders tuttavia si rilancia in una ossessione masturbatoria perché Claude di continuo si sottrae, si nega, sparisce. I gesti attivi del protagonista hanno un valore puramente compensativo, riempiono un vuoto mentre, letteralmente, essi vanno a vuoto: entrare nella Resistenza, passare con perfetta nonchalance dalla Resistenza alla Milizia del boia Jacques Darnand o, come un Lafcadio redivivo, uccidere a freddo e del tutto gratuitamente un ragazzo ebreo sono atti che si equivalgono in quanto accessori inessenziali, pulsioni deliranti, azioni fantasmatiche che trascorrono fatalmente da un nulla a un altro nulla. In effetti Sanders tradisce i rossi perché a loro non perdona l’etica della speranza, il credo nel sol dell’avvenire: a costoro preferisce il nichilismo dei neri, la verità imperdonabile dei vinti e degli sconfitti dalla Storia. Tale è la morte, la “bella morte” cui inneggia da sempre l’Edipo in cui camicia nera, vale a dire il tragico onanismo dei fascisti. In una pagina rivelatrice, Sanders afferma di identificarsi con la mesta icona della malinconia, la quale, secondo Sigmund Freud, segnala la mancanza che genera il desiderio:
Mi sono visto di colpo nel grande museo deserto, davanti all’Angelo triste di Filippino Lippi. Il ragazzino senza età, coi capelli che gli cadono sul capo, la fronte sciupata, l’aria d’aver sprecato tutto dall’inizio, la sua grande fedeltà alla sventura, la nobiltà degli angeli vinti, tanti segni che mi hanno preso alla gola. [Le spade, trad. di M. R., Edizioni Tassinari, Firenze 2021, pp. 93-94]
Avevo già tradotto questa pagina, stavo lavorando alle bozze del libro quando mi arrivò da Strasburgo una cartolina con l’effigie del meraviglioso Buste d’ange (1489-’93 circa) di Filippino Lippi che illustra il locale Musée des Beaux-Arts, datata 9 agosto 2002 e spedita da due amici, Mariarosa Bricchi e suo marito Flavio Fergonzi: non avevo mai visto l’Angelo e ho inteso la cartolina sia come un messaggio augurale sia come un oroscopo del romanzo.
Un esibito anti-umanesimo è l’insegna di Sanders e, sottotraccia, del medesimo Nimier che a un dato punto attribuisce al proprio portavoce un’espressione che rovescia il motto millenario di Terenzio Afro e infatti giura sulla sua perfetta estraneità a tutto quanto c’è di umano. Ovvio ribadire che la bestia nera di Nimier e dei suoi amici destrorsi è il filosofo in quel momento à la page, il nume di Saint-Germain-des-Prés, quel Jean-Paul Sartre che solo pochi mesi prima, ancora nel ’46, ha pubblicato il testo di una conferenza, L’esistenzialismo è un umanismo, il cui esito è racchiuso, slogan e memento, nella celebre frase secondo cui ogni uomo è condannato a essere libero e perciò a scegliere di volta in volta mezzi e scopi del proprio esserci. Nello stesso momento in cui un altro filosofo epurato per i trascorsi nazisti, Martin Heidegger, sta preparando la sua non meno celebre risposta a Sartre, Lettera sull’umanismo, l’ex studente di filosofia alla Sorbona Roger Nimier allestisce nel romanzo d’esordio l’eversione di Sartre non senza averne introiettato la lezione mutandone il segno. Ancora del ’47, quasi a corollario della conferenza, è la stampa di una pièce che Nimier può avere veduto di persona nel ’44 al Vieux-Colombier, ancora sotto l’Occupazione, titolo Huis clos, dove si contiene l’altra clausola sartriana che avrà eco non meno universale, l’enfer, c’est les autres “l’inferno, sono gli altri”. Ora viene di riflesso una domanda: qual è l’atteggiamento di Sanders nei confronti dei propri simili? Quale il peso del vivere altrui nella sua vita? Si è appena detto anti-umanesimo ma si dovrebbe aggiungere che non si tratta di misantropia o di istintiva ostilità, quanto di una indifferenza ontologica. Per Sanders gli altri non arrivano neanche ad essere l’inferno ma, semmai, un limbo indistinto dove continuano a vagare da entità fluttuanti, improbabili, futili. C’è una pagina nel romanzo dove sono condensate e mistificate le parole-chiave della filosofia sartriana, quali nausée e ennui, “nausea e noia”, dove i temi e i personaggi tipici della tragedia classica si convertono negli anonimi attanti di una vita che non è esistenza ma pura sopravvivenza dominata dal “si fa” e dal “si dice”. Alla luce di tutto ciò, anche le atrocità della Milizia fascista, l’omicidio gratuito e l’incesto possono essere smaltiti a priori, espulsi in un inframondo evanescente:
Rimpiazzare la tragedia classica coi suoi eroi, le fiaccole, le colonne, con una fermata del metrò in una capitale del XX secolo: le comparse, con le pupille cieche, le vesti livide – il vero dramma. Gli eroi della tragedia soffrono e muoiono, si riconoscono, respirano lo stesso clima, tutto li fa godere. Le fermate del metrò vedono solo degli uomini che soffrono di noia. // Ma all’occhio di tutti i giorni simili problemi non esistono. Si è tranquilli, cioè sinceri, cioè felici, cioè quasi nulla. [Le spade, cit., p. 113]
Perciò non ho mai creduto allo spirito goliardico di Nimier e neanche, se è per questo, a quello degli Ussari suoi amici perché, ad esempio, l’alcol di un Antoine Blondin è nient’altro che la morte presa a credito e ripagata a rate. Con tutta la stima per un critico come Pol Vandromme penso che l’etichetta per cui va famoso, droite buissonnière, “la destra scanzonata”, sia fuorviante e peggio se associata ai non-conformistes dei pieni anni Trenta, i quali non furono degli scapigliati in ritardo ma dei fanatici di estrema destra, avversi alla cultura democratica e alle politiche del Fronte Popolare. Mentre traducevo il romanzo mi capitò di parlarne, durante una scappata a Bologna, con Gianni Scalia, straordinario conversatore che portava tutti i suoi amici, inderogabilmente, nella trattoria da Ercole in Piazza Minghetti, vicinissima a casa sua. Scalia era un maieuta, un filosofo del linguaggio, e a mia richiesta propose riguardo a Roger Nimier la semplice definizione di “esistenzialista”, tout court: definizione irenica ma che forse non sarebbe garbata ai redattori di Les Temps Modernes (è lì, come si sa, che nel ’52 esce il saggio in cui Bernard Frank battezza gli Ussari) e nemmeno ai colleghi destrorsi dello scrittore perché evoca, fatalmente, il Café de Flore e dintorni.
Sanders è incapace di uscire da sé stesso. Il suo Edipo abortisce perché la sua dinamica non è dialettica ma, al contrario, è antinomica. Non c’è vera contraddizione in Sanders, non c’è sviluppo né regressione ma soltanto quello che un nostro poeta chiamò delirio di immobilità. I figuranti della sua sacra famiglia stanno in un presepe, madre e madre congelati nell’altrove mentre Claude nell’eterna proiezione incestuosa. Il rapporto di Sanders con il mondo è allucinatorio e non può uscire mai dalla masturbazione che apre il romanzo, con l’orgasmo su una foto di Marlene Dietrich, e lo chiude con la veglia funebre, necrofila e non meno masturbatoria, presso il cadavere di Claude. Le spade che incombono sul petto di ognuno, per stare alla metafora del titolo, qui sono tornate al proprio fodero di carne. L’essere-per-la morte ha finalmente toccato il limite rispettivo. Se è vero che l’omicidio è un gesto tacitamente suicida, allora è anche vero che Sanders si è appena suicidato. La Bildung si è compiuta due volte attraverso la negazione di sé, il Bildungsroman si è concluso con una duplice e cruenta conciliazione, cioè con la morte deliberata. Sanders a suo modo è fratello di Werther, di Ortis, è un consanguineo dei protagonisti de La mort difficile (1926) di René Crevel e Le feu follet (1931) di Pierre Drieu La Rochelle. Per questo Sanders non è né un rivoluzionario né un reazionario. Il suo costitutivo pietiner sur place, il suo slancio mortale e suicida ci dicono invece che egli è per indole un rivoltoso: non cerca né l’eguaglianza con gli altri esseri umani né il principio di gerarchia ma, animato da una collera che non ha nome, persegue ciecamente la vendetta senza mai avvedersi di esserne la posta. Detesta i rossi perché a suo dire incapaci di una coerente crudeltà e perché ha letto in Nietzsche che il cristianesimo ha finito col rendere caritativi e umani-troppo-umani persino costoro. Da vecchio marxista non posso leggere se non con sgomento quello che l’antirivoluzionario e rivoltoso Sanders confessa a sé medesimo in un passo essenziale de Le spade:
Conta solo la rivolta. E’ la guarigione dei sentimenti di collera e di odio. Passioni che guariscono solo scoppiando… La rivoluzione dell’89 ci interessa solo a questo titolo. La vittoria della borghesia era un fenomeno prevedibile. Però viva i massacri! Voto di nuovo la morte della stupenda principessa di Lamballe. […] // Dal 36 era chiaro che i comunisti avrebbero fatto la rivoluzione ma ci avrebbero tolto la rivolta: non ammazzeranno invano. Allora ci restano soltanto strade solitarie… // Non mi hanno mai umiliato, c’è troppa vendetta in me. Ma succederà. Succederà per forza. [Le spade, cit. pp. 133-134]
[Giornata di studi: Ussari tra Italia e Francia. Resistenza culturale e dissenso (1952-2022), Roma, Institut Francais-Centre Saint-Louis, 27 ottobre 2022]
[Immagine: Filippino Lippi, Buste d’ange].