di Benjamin Fondane

 

[E’ uscita da poco per Le Lettere la nuova edizione rivista e ampliata di Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, di Benjamin Fondane (1898-1944), a cura di Luca Orlandini. Proponiamo il primo capitolo del libro].

 

Il prestigio di Baudelaire cresce di giorno in giorno:

 

Questo piccolo volume di nemmeno trecento pagine, Les Fleurs du Mal, controbilancia, nel giudizio dei letterati, opere più illustri e più ampie. È stato tradotto nella maggior parte delle lingue europee… È un fatto senza precedenti nella storia delle Lettere francesi… Posso dunque affermare che, se fra i nostri poeti esistono poeti più grandi, più forti e più dotati di Baudelaire, nessuno è più importante… Da dove giunge questa importanza singolare?… Questa grande accoglienza postuma, questa fecondità spirituale… dipendono probabilmente non solo dal valore intrinseco del poeta, ma anche da circostanze eccezionali ⁱ.

 

È in questi termini che una delle menti più notevoli e più salde del nostro tempo inaugura il suo studio intitolato Situation de Baudelaire. Immagino più di un lettore di Valéry sorpreso e turbato da queste righe, tanto sincere quanto sorprendenti: impossibile esprimere con così poche parole tanta sostanza, né manifestare altrettanto bene la sensazione di disagio che ancora proviamo di fronte alla persona e all’opera dell’autore delle Fleurs du Mal. Impossibile trattenersi dal collocare Baudelaire al di sopra di quasi tutti i nostri poeti; eppure la critica non riesce a farsene una ragione, rimane perplessa di fronte a un fatto apparentemente senza precedenti, a un’importanza che ritiene singolare. Sappiamo che alcuni dei nostri poeti sono più grandi e più dotati di Baudelaire; sappiamo inoltre che ve ne sono di più perfetti; ci chiedessero di indicare il più grande del XIX secolo, saremmo costretti a rispondere, come in altre occasioni fece André Gide: «Victor Hugo, ahimè!». E si ponesse il problema su chi sia il più perfetto, qualcuno particolarmente sincero risponderebbe: «Mallarmé, ahimè!». Eppure conveniamo tutti nel sostenere che non ve ne sono più importanti di Baudelaire. Al pari di Valéry, non comprendiamo il perché della grande «accoglienza postuma», né la «fecondità spirituale» che gli viene riconosciuta, cercando così una ragione a questo sorprendente evento fuori dal suo «valore intrinseco»; sono quelle che Valéry definisce «circostanze eccezionali». Tuttavia, cercare nelle circostanze – per quanto eccezionali – le ragioni che giustificano una riuscita artistica fuori del comune, malgrado il suo impegno a dissimulare il malessere che suscita, rimane nondimeno un’impresa estranea e disperata. Valéry ha tentato comunque; è privilegio delle intelligenze vigorose rivelare l’esistenza di un problema e osare porlo là dove in precedenza non si era visto alcunché. Siamo allora grati a Valéry di averci rivelato che il successo delle Fleurs du Mal rappresenti un problema; e la sorpresa che ci procura si aggiunge alla meraviglia di Valéry di fronte a quest’opera che sembra imporsi a lui come se questa avesse dalla sua parte la forza, piuttosto che il diritto.

 

Diciamo subito che Valéry non è una di quelle intelligenze persuase che la contraddizione sia un bene, né che sia necessario ritenere un progresso la rivelazione del nostro sgomento di fronte al silenzio degli spazi infiniti. Non desidera accrescere le nostre difficoltà e le nostre pene. Al contrario, vuole sottrarci agli stati di perplessità e malessere; e se espone un problema, è solo per offrirne la soluzione, una soluzione destinata a porre fine, una volta per tutte, alla nostra ricerca, mettendo fine al problema stesso. Tuttavia, per considerare ammissibile una soluzione forzata al punto da sostenere un valore più importante del «valore intrinseco» – talento o genio – ed evitare in noi la nascita di legittime resistenze, è necessario un apprezzamento particolare per la soluzione proposta; una stima talmente potente da guadagnare, senza proteste o residui, la nostra totale adesione, radicandola profondamente nello spirito del tempo, al punto da scongiurare ogni obiezione. Con perfetto intuito, Valéry ha compreso che l’uomo prova un’irresistibile attrazione per tutto ciò che è in grado di accrescere l’autonomia e i poteri dell’intelligenza, e un’intima sfiducia per ogni tendenza dello spirito ad affidarsi alle forze oscure che ci abitano, anche quelle che nutrono il talento e il genio. Sostenere, allora, come accade a Valéry, che la prima «circostanza eccezionale» a determinare l’«importanza» di Baudelaire, sia «l’intelligenza critica legata alla virtù della poesia»⁲, significa da subito ottenere la nostra adesione. Nessuno comprende che Valéry, nel dichiarare l’associazione tra intelligenza critica e virtù poetica una «circostanza eccezionale», dissocia queste virtù piuttosto che unirle, poiché il «valore intrinseco» non potrebbe essere legato alla contingenza delle circostanze, ancor meno se eccezionali. L’essenza della poesia si definisce dunque come esteriore e indipendente dall’intelligenza critica; e nondimeno essa riceve un prestigio da qualcosa d’altro da sé, di estraneo alla propria essenza, che ai nostri occhi la rende infinitamente importante. Nella scala dei valori la circostanza eccezionale si trova più in alto del «valore in sé». Commetterebbe certo un’eresia colui che, credendosi ormai libero di definire l’arte tramite le sue «circostanze eccezionali», osasse affermare che l’importanza di Baudelaire è data per esempio dal suo sadismo e dalla sua necrofilia; l’eresia sarebbe minima se, seguendo Valéry, si riducesse l’arte a «un tesoro di immagini, di combinazioni e operazioni coordinate»; poiché in tal caso la circostanza eccezionale viene legata a un giudizio di valore. Giudizio di valore volontario, riflesso, che fa dimenticare quanto anch’esso sia altrettanto estraneo ai criteri dell’arte e capovolga il «valore in sé» che li genera.

 

È da questa distrazione che l’evidenza acquista il suo prestigio; questa deve diffidare di ogni novità, simulare il luogo comune, apparire banale; in effetti la soluzione di Valéry non è nuova. Sainte-Beuve e Théophile Gautier hanno preparato il terreno; André Gide l’ha sviluppata con grande audacia, mettendo l’intelligenza critica di Baudelaire al di sopra della virtù poetica. Siamo così di fronte a un curioso fatto della storia: la soluzione esisteva prima ancora che il problema fosse posto; preesisteva, e da molto tempo, alla domanda che avrebbe dovuto provocarla. Dovremmo forse piegarci davanti all’unanimità delle migliori menti e accettare l’evidenza dei fatti, o al contrario dovremmo vedere in tale unanimità, stabilita prima ancora che il problema fosse deliberatamente posto, nient’altro che un movimento spontaneo e pressoché riflesso, di una qualche legittima difesa, nei confronti di un fatto che si temeva esposto a un’interpretazione indelicata, perfino pericolosa?

 

L’argomento potrebbe sembrare un po’ ingegnoso, ma il lettore ricordi che la comparsa delle Fleurs du Mal suscitò nelle menti più di un sospetto, più di una ripugnanza e più di una collera. Questo libro sembrava portare con sé una tale materia esplosiva e una tale visione dell’uomo, che il talento del suo autore, di cui ci si accorge solo in un secondo tempo, svolge un ruolo pressoché insignificante nella fama avuta da subito… fama – inutile dirlo? – un po’ scabrosa. I partigiani del poeta e i «dotti» assecondavano così un istinto naturale, quando dall’opera incriminata scartavano deliberatamente gli elementi provocatori, scegliendo di sottolineare al contrario, con un tacito accordo, unicamente il suo lato artistico. Tale valore artistico era senza dubbio reale, e conta non poco nella progressiva evoluzione della violenta ostilità («un pazzo», diceva Mérimée) in crescente fama.

 

Ma Valéry lo aveva detto, e a suo tempo anche Gide («Victor Hugo, ahimè»), che in Francia esistevano poeti più grandi e più dotati di Baudelaire, cui una fama di tali proporzioni non fu mai concessa. Presto si iniziò a pensare che la fama di Baudelaire non poteva essere giustificata dal solo «talento»; qualcos’altro aggiungeva una dimensione ulteriore, attiva e operante. Ma la scoperta di questo «qualcos’altro» rischiava di ricondurci ai problemi sollevati dal processo a Les Fleurs du Mal. Erano problemi dolorosi, perfino per coloro che con coraggio avevano difeso l’idea che un’opera d’arte è giudicabile con i soli criteri dell’arte. Altre correnti di pensiero, alcune proprie dell’epoca e altre a carattere più universale, parteggiavano alleate contro un’interpretazione che sembrava poter compromettere allo stesso tempo le nostre idee acquisite e la buona reputazione dell’autore. Anche l’autore, vittima delle stesse ostilità, che giungevano sia da fuori che dalla sua più intima interiorità, propone un’interpretazione più attraente, più intelligente e tutto sommato credibile dell’interesse che la sua opera suscitava. Non era forse urgente farvi ricorso?

 

L’intelligenza di Valéry era vicina, più di ogni altra, alle ragioni che spiegavano l’«importanza» di Baudelaire con la presenza in lui di «una potente intelligenza critica… associata alla virtù poetica». Esemplare orgoglioso e perfetto della nostra cultura, Valéry si distingue dai suoi contemporanei per la lucida consapevolezza di ciò che in loro è solo allo stato di pura tendenza. Fa parte di quella famiglia di pensatori per cui ogni spontaneità è disordine, ogni libertà capriccio, ogni natura un atto di provocazione nei confronti dell’intelligenza. Forse prova piacere nell’esercitare il potere di distruzione del pensiero. Non riconosce all’intelligenza alcuna presa sulla realtà; ma l’apparente scettico dissimula male l’ottuso dogmatico. Dell’intelletto ama la sua capacità di ordinare, di gettare sul nulla una «tecnica», il suo potere di opporre un rifiuto a tutto ciò che esigerebbe da lui subordinazione, passività, umiltà. Matematico, si irrita all’eventualità di curve senza la possibilità di tangenti, e a funzioni senza derivate; come fisico, il solo postulato di una legge del discontinuo lo turba; in quanto metafisico, prova sgomento davanti agli «spazi infiniti» di Pascal e non esita a sostenere che là dove Pascal vede un abisso, Cartesio pensava alla sola possibilità di scavalcarlo con un ponte. Valéry desidera legare l’universo a un sistema di ponti, non tanto per il piacere di camminarvi sopra, perché poco vari e di dubbia solidità, quanto per la soddisfazione di sfuggire ancora una volta all’abisso. Non che gli sia facile rinunciare a Pascal. Più di ogni altro è sensibile al fascino del pensiero, all’energia dello stile: fosse stato possibile salvare Pascal con un’abile interpretazione, per quanto pretestuosa (ma un ponte è un ponte), non avrebbe esitato. Ma ciò che non era più – o non è più – possibile per Pascal, era ancora possibile per Baudelaire? Potevamo, dovevamo lasciare al Nemico una tale potenza di ragionamento e fornire alla poesia l’esempio permanente e dannoso di un successo eccezionale, ottenuto con l’inammissibile trasgressione di ciò che questa dovrebbe ritenere la propria essenza? Possiamo, dobbiamo lasciar credere che Baudelaire non sia un perfetto mestierante ma, come avrebbe affermato Rimbaud, «un veggente, il re dei poeti, un vero Dio»?

 

Benché avesse scritto, con grande audacia:

 

i poeti francesi sono poco noti e poco amati all’estero; si è inclini a riconoscere una priorità della nostra prosa, mentre l’estro poetico non ci è accordato se non avaramente e con difficoltà⁴,

 

neanche per un solo istante Valéry permette di considerare questo dato di fatto come fondato o plausibile. Cerca solo una spiegazione giustificata, e la trova:

 

L’ordine, e quella sorta di rigore che, a partire dal secolo XvIII, regnano nella lingua francese… il gusto della semplificazione e della chiarezza immediata, il timore dell’amplificazione e del ridicolo, una sorta di ritegno nell’espressione, e, infine, una propensione mentale verso l’astrazione, sono alle origini di una poesia piuttosto diversa da quella delle altre nazioni… che non possiedono, della nostra lingua, una conoscenza profonda e nativa⁵.

 

Tali sono, secondo il giudizio di Valéry – e nessuno, almeno in Francia, si sogna di contestarne la correttezza –, le virtù francesi per eccellenza, quelle virtù che devono proprio alla loro eccellenza il fatto di essere rifiutate all’estero, da quegli stessi mercati che all’improvviso si aprono a Baudelaire, offrendogli un’accoglienza «senza precedenti nella storia delle Lettere francesi». Bisogna forse concludere, per spiegare tale accoglienza «senza precedenti», che Baudelaire fa mostra di tutt’altre virtù, rispetto a quelle appena accennate, controbilanciando nel giudizio di queste nazioni opere più illustri e più potenti della sua? Così pare; ma non andiamo oltre. Secondo Valéry, la prima virtù di Baudelaire è la seguente: «in una parola, il desiderio d’una sostanza più solida e d’una forma più elaborata e più pura»⁶, desiderio da attribuire all’intelligenza critica, e che lui definiva in questi termini: «è classico lo scrittore che ha un critico dentro di sé…»⁷.

 

Eppure, malgrado l’associazione delle virtù di Baudelaire a quelle del XvII secolo – che «sono all’origine di una poesia piuttosto diversa da quella delle altre nazioni… che non possiedono, della nostra lingua, una conoscenza profonda e nativa»⁸, e che hanno portato queste stesse nazioni ad accordarci se non avaramente e con difficoltà una potenza poetica – il problema dell’importanza e dell’accoglienza senza precedenti riservata a Baudelaire all’estero rimane intatto e insolubile. E la nostra perplessità aumenta quando vediamo Valéry evocare l’incontro con Poe a titolo di seconda circostanza eccezionale che giustificherebbe il successo senza precedenti del nostro poeta all’estero; l’influenza su Baudelaire, egli sostiene, si manifesta proprio in direzione delle virtù francesi: lo dimostrerebbe il fatto che la gloria di Poe, indiscussa da noi, fu contestata più volte nel suo paese e in Inghilterra. Ma stentiamo a seguire il suo ragionamento. Dovremmo forse sospettare questi paesi di non avere della lingua di Poe, ossia della loro lingua, una conoscenza «profonda e nativa»? Dal momento che gli stranieri non amano in noi ciò che non amano in loro stessi, non sarebbe più semplice ammettere, poiché amano Baudelaire, che questi (a meno di non ritenerlo il più potente e il più dotato dei nostri poeti) possiede altre doti e altre virtù rispetto alle virtù tipicamente francesi (pur eccellendo anche in queste)? Non sarebbe stato meglio ammettere che, perlomeno, del suo messaggio le virtù francesi non costituivano ciò che più contava, né ciò che vi era di più significativo?

 

Ho detto che «sarebbe più semplice». Se tuttavia una mente come quella di Valéry, presa come nessun’altra dalla preoccupazione per il rigore e la coerenza, avesse rinunciato senza esitazioni e all’improvviso alle sue doti, sarebbe stato ingenuo trarne un vantaggio o denunciarne una dimenticanza. Più considero questa idea che non torna, ma di così bell’aspetto e condotta come per mano dal maestro alla sua evidente sconfitta, e meno posso convincermi a considerarla naturale. Mi chiedo «perché» sia passato a fianco di una soluzione così «semplice». Se un’intelligenza così magnificamente presente manca di risolvere un problema così ben posto, non posso non pensare che questa intelligenza sia stata guidata da esigenze superiori, o che essa ritiene tali; immagino sia stato voluto, che Valéry diffidava proprio della soluzione corretta. Dopotutto non vi è un pregiudizio contro la soluzione corretta? Per quanto immacolato e rispettabile sia il sillogismo, in alcuni casi qualche dio, spirito o dovere forse ha la precedenza su di lui e non può santificare il proprio altare che attraverso il sacrificio di questa Ifigenia. Non è senza disgusto che probabilmente Valéry deve acconsentire a tale sacrificio. In ogni caso, ha indubbiamente avuto fretta di sbarazzarsi del problema, di soffocarlo, così da imporgli quanto prima la sua soluzione. Non che l’avesse creduta vera nel caso particolare di Baudelaire, ma vera in sé e per ciò stesso dominante sul particolare e il contingente. Se Valéry avanza la sua soluzione, ciò accade per scongiurare l’emergere di un’altra. Se vi è frode, è pia fraus.

 

Ma, direte voi, qual è la motivazione che la giustifica?… Esiste. Mi rifiuto di credere che si possa sottovalutare o ammettere alla leggera che, per esempio, ciò possa essere dovuto alla presa di distanza dalla tradizione poetica francese da parte di Baudelaire. No, Valéry teme più di ogni altra cosa vedere Baudelaire toccare un «tabù» infinitamente più importante, la cui trasgressione appare di gran lunga peggiore. Baudelaire sarebbe in presenza di un pericolo e una sorta di ignominia, di impurità, certo non dovuta alla sola mancanza, poco patriottica ma non criminale, nei confronti delle tradizioni del suo paese. Valéry non ignora, infatti, che una tradizione, un prodotto storico, forse naturale, forse solo artificiale, è tutto meno che ovviamente una legge dello spirito. Inoltre, non ignora che pochi anni prima dell’arrivo di Malherbe i francesi erano per natura così poco inclini a sposare lo spirito dell’ordine e del rigore, che un Joachim du Bellay poteva scrivere nella sua lingua ingenua: «Celui sera véritablement le poëte que je cherche en nostre langue, qui me fera indigner, appaiser, ejouir, douloir, aimer, haïr, admirer, estonner»⁹.

 

Certamente, Valéry non avrebbe mai difeso questa tendenza se, vittoriosa, essa avesse tratto piacere dai titoli e dagli onori di tale tradizione. Qualunque «tradizione» avrebbe dovuto contare Valéry tra i suoi nemici più risoluti e letali. Ma è qui, a nostro avviso, la chiave dell’enigma: Valéry non avrebbe rimproverato a questa tradizione tanto un difetto formale nel pensiero astratto, di pudore o di rigore, quanto la tendenza dello spirito che l’assenso a questo errore implica. È innanzitutto questa tendenza che Valéry rifiuta, e per delle considerazioni che hanno poco in comune con la salvezza o meno della poesia, poiché a suo avviso non lì è ciò che più conta.

 

Note

 

 

1 «Ce petit volume des Fleurs du Mal, qui ne compte pas trois cents pages, balance dans l’estime des lettrés les œuvres les plus illustres et les plus vastes. Il a été traduit dans la plupart des langues européennes […]. C’est un fait sans exemple dans l’histoire des Lettres Françaises. Je puis donc dire que s’il est parmi nos poètes des plus grands et des plus puissamment doués que Baudelaire, il n’en est pas de plus important… A quoi tient cette importance singulière? […] Cette grande faveur posthume, cette fécondité spirituelle […] doivent dépendre non seulement de sa valeur propre, mais encore de circonstances exceptionnelles» (P. Valéry, Situation de Baudelaire, in Variété: citiamo dalle Œuvres, éd. par J. Hythier, 2 tomes, Gallimard, Paris 1957, I, pp. 598-599 – corsivi nel testo; trad. it., Situazione di Baudelaire, in P. Valéry, Varietà, a cura di S. Agosti, Rizzoli, Milano 1971, pp. 223-224).

2 «D’une puissante intelligence critique associée à la vertu de poésie» (ivi, p. 599; trad. it. p. 224).

3 «Baudelaire est le premier voyant, rois des poètes, un vrai Dieu. Encore a-t-il vécu en un milieu trop artiste; et la forme si vantée en lui est mesquine» (A. RImBaud, Lettre du voyant – à Paul Demeny, in Œuvres complètes, éd. par Adam, Gallimard, Paris 1972, pp. 253-254; trad. it., Lettera del veggente, in Opere, a cura di I. Margoni, Feltrinelli, Milano 1964, p. 147).

⁴ «Les poètes français ne sont généralement que peu connus et peu goûtés à l’étranger; on nous accorde plus aisément l’avantage de la prose; mais la puissance poétique nous est chichement et difficilement concédée» (P. Valéry, Situation de Baudelaire, cit., p. 598; trad. it. cit., p. 223).

⁵ «L’ordre et l’espèce de rigueur qui règnent dans notre langue depuis le

XvIIe siècle […] notre goût de la simplification et de la clarté immédiate, notre crainte de l’exagération et du ridicule, un sorte de pudeur dans l’expression et la tendance abstraite de notre esprit, nous on fait un poésie assez différente de celle des autres nations […] qui n’ont pas, de notre langue, un connaissance intime et originelle» (ibid.).

⁶ «Le désir, en un mot, d’un substance plus solide et d’un forme plus

savant et plus pure» (ivi, p. 601; trad. it. p. 226).

⁷ «Classique est un écrivain qui porte un critique en soi-même» (ivi, p. 604; trad. it. p. 229).

⁸ «[…] nous ont fait un poésie assez différente de celle des autres nations […] qui n’ont pas de notre langue un connaissance intime et originelle» (ivi, p. 598; trad. it. p. 223).

⁹ J. du Bellay, La Défense et illustration de la langue française, livre I, chap. XI, Garnier Frères, Paris 1920, p. 108: «Questi sarà veramente il poeta che cerco, quello che mi farà indignare, calmare, gioire, addolorare, amare, odiare, ammirare e stupire». Joachim du Bellay (1522-1560) è stato un poeta e umanista francese. Quando a ventitré anni si recò a Poitiers per istruirsi in diritto, venne in contatto con umanisti e latinisti e fece incontri decisivi per il suo futuro: con Jacques Peletier du Mans, che gli consigliò di dedicarsi alla poesia, e con Pierre de Ronsard, con cui strinse una forte amicizia e che lo condusse a Parigi. Dal 1547 al 1549 Du Bellay perfezionò ulteriormente, assieme a Ronsard, la sua formazione culturale al collegio Coqueret di Parigi, inserendosi nel circolo di studenti gravitanti attorno alla figura dell’umanista e grecista Jean Dorat. Sotto l’influenza del professore, i due decisero di fondare un gruppo di poeti chiamato La Brigade, con l’obiettivo di comporre opere in francese che potessero rivaleggiare con quelle greche e latine. Al gruppo si unirono successivamente Étienne Jodelle, Pontus de Tyard, Jean Antoine de Baïf, Guillaume des Autels e Jean de la Péruse, determinando un cambio di nome in La Pléiade, ispirandosi ai sette poeti tragici del Canone alessandrino. Nel 1549 du Bellay firma il manifesto collettivo La Défense et illustration de la langue française, un libello «polemico» in cui illustra i nuovi principî per la valorizzazione della lingua francese, che segnò l’inizio del Rinascimento poetico francese.

 

[Immagine: Benjamin Fondane].

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