di Ginevra Bompiani e Sarantis Thanopulos

 

[E’ appena uscito per Feltrinelli Il pensiero affettivo, una conversazione epistolare fra Ginevra Bompiani e Sarantis Thanopulos. Ne riprendiamo la nota introduttiva e le prime due lettere di Bompiani e Thanapulos]

 

Nota introduttiva

 

Questo libro è nato come una pratica di amicizia, un palleggio fra amici.

Ma quando lo abbiamo terminato, ci siamo accorti che l’amicizia non è somiglianza e questo è uno dei suoi pregi. Il discorso di ciascuno di noi, mentre cocciutamente cerca- va di intrecciarsi a quello dell’altro, si svolgeva a modo suo e a volte si contorceva per restare fedele a entrambi. Come due spirali rivolte in direzioni opposte diventano visibili solo quando vengono separate, così abbiamo pensato di staccare i due discorsi, pur mantenendo la forma epistolare. Insomma, ne abbiamo fatto due epistolari a cui manchi ogni volta la risposta (implicitamente presente).

In questa forma, ciascuno conduce il suo discorso, ispirato dall’altro ma distinto e parallelo.

Spero che, grazie a questo semplice accorgimento, la pratica dell’amicizia si riveli come quella in cui pensiero e affetto, libertà e dipendenza si congiungono e camminano insieme verso una meta nascosta nella foresta

G.B.

 

 

 

1.

 

Caro Saradis,

 

da quando abbiamo deciso di scrivere questo libro insieme, mi domando come faremo, se ce la faremo, se capiremo (capirò) davvero qualcosa che non avevamo capito prima.

E, a dire la verità, mi chiedo perché ho pensato a un tema che forse non avrò nemmeno il tempo di esplorare.

Tutto è nato, per me, da un’idea fuggevole, che mi ha attraversata, come tante fanno, e poi, invece di fuggire, si è rintanata. L’idea era semplicemente questa: l’affetto è una forma del pensiero.

Avrebbe anche potuto venirmi a rovescio: il pensiero è una forma dell’affetto. Sarebbe stata più chiara. Tu, come analista, me l’avresti spiegata. Ma è venuta così. E subito mi sono detta: e come potrebbe essere altrimenti? Tutto avviene nel nostro cervello, fluendo minuziosamente nelle sue ramificazioni, pompate dal sangue (“anima-sangue” lo chiamarono i Greci). In qualche modo, tutto è pensiero, come dice l’apostolo Giovanni: “In principio era il logos”. E come racconta il secondo versetto della Bibbia: prima della creazione “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.

Insomma, fu un’evidenza improvvisa, così come sempre mi appare quella che poi credo sia la verità: come un’evidenza, mai come un ragionamento, un’argomentazione, un calcolo. Qualcosa che si rivela e splende per un momento, durante il quale non può essere contraddetta, né da me né da altri. Credo nell’evidenza e credo all’evidenza.

 

Questa evidenza ha un risvolto: pensiero e affetto so- no un unico intrico, non è possibile separarli, per lo meno all’origine: nel loro spontaneo gemmare, disteso e infuocato, scorrono come una lava fino a diventare pietra.

Nella mia immaginazione, la pietra è la ragione.

Ma se queste metafore fanno dell’affetto la strada calda del pensiero, ne fanno anche un’articolazione della mente, un’ondulazione spirituale.

Per andare a caccia dell’humus in cui il “pensiero affettivo” prende radice, pensai prima di tutto alla neurologia e ai libri di Antonio Damasio, neuroscienziato portoghese. In quale parte del cervello avveniva questo amalgama di affettività e pensiero? Man mano che leggevo, quella prima idea si confermava e si confondeva.

Allora ho preso un altro suo libro: L’errore di Cartesio[1], che spiega come la separazione fra emozione e intelletto, che deve a Cartesio la sua fondazione, non corrisponda alla realtà della moderna neurologia (a differenza delle formule di Spinoza che, secondo Damasio, hanno anticipato le scoperte moderne).

E contemporaneamente ho provato a indagare Le origini del pensiero europeo, con l’aiuto di R.B. Onians, professore di latino all’Università di Londra, morto nel 1986, che pubblicò le sue trentennali ricerche nel 1951. [2]

Ora, se non ti dispiace, poiché non ho un discorso completo (anzi, ne sono lontana), con il quale esprimere quella che forse è un’intuizione, forse un’ovvietà, forse un abbaglio, penserei di raccontarti le briciole che trovo, man mano che le trovo; e spero che tu farai altrettanto, così che avanziamo, inciampiamo, balbettiamo a fianco.

Insomma, come proponi tu, una flânerie di due passeggiatori che adattano ciascuno il passo a quello dell’altro.

Ginevra 22/5/2021

 

3.

 

Caro Saradis,

 

la tua risposta mi ha aiutata a capire un po’ di più quel che conteneva quella misteriosa evidenza. L’evidenza è un po’ come un pensiero che ha tutta la forza dell’affetto e la sua chiarezza sta nella sorpresa, la confusione nella velocità.

Tu spieghi bene come l’affetto e il pensiero viaggino insieme, ma mi pare di capire che la mia “intuizione”, se tale è, sia diversa. Dice pressappoco così: se non ci fosse il pensiero, non ci sarebbe l’affetto, e non viceversa. In altre parole, siamo sicuri che un essere “non pensante” provi affetto? Siamo sicuri che l’affetto sia all’origine del pensiero?

 

Questa “intuizione”, che mi è giunta come un’evidenza (anche se ancora non me la so spiegare), dice di no (sebbene io abbia avuto accanto un essere molto caro, malato di Alzheimer, che non sembrava più poter pensare, ma continuava ad amare, temere, avversare. Tuttavia, si può credere che continuasse il gesto emotivo, che aveva le sue radici negli albori del pensiero). E non solo, ma è lo stesso pensiero a prendere la forma dell’affetto (avanzo a tentoni), è lui che si inoltra in quel cunicolo oscuro e lo illumina. So che l’affetto è una forma oscura, che pare sgorgare dai precordi (i phrénes, che, secondo il meraviglioso Onians, non sono il cuore, ma i polmoni, sostenuti dallo spirito, dal respiro); e come può l’oscuro nascere dal chiaro? Eppure, quell’oscura evidenza non mi lascia, sembra non volermi mollare finché non l’avrò capita, o magari non riuscirà a convincermi e sarò io a mollarla. Ma intanto cerco di tenerla stretta come una biscia d’acqua.

 

Tu dici, giustamente: “L’illusione è un’estensione dell’affetto”. Forse è proprio la lanterna dell’affetto, quella che comincia a fargli luce nel tunnel buio del pensiero.

È assurdo? Lo sembra, sì. Ma vorrei proseguire per questa strada, altrettanto buia, dove si direbbe che accade proprio quello che cerco di descrivere: a quella frase, che dava la preminenza al pensiero, mi sono subito aggrappata con una presa affettiva, come il neonato afferra il dito che gli viene porto e non lo molla più, non sa perché. Gli sembrerà un filo conduttore verso il vivente.

Dunque, se l’affetto è una forma del pensiero, sarà proprio lui, l’affetto, a farmi percorrere il pensiero che lo contie- ne. Ma qual è il pensiero che lo contiene?

Bisognerebbe definire ogni parola. Così comincia il linguaggio nella Bibbia: prima nomina e poi mostra, anzi, prima nomina e poi vede. Ciò che è innominato non si vede vera- mente. Lo dice anche il Serpente: prima mangiate il frutto della conoscenza, e poi vedrete!

 

Se fosse così, l’affetto non sarebbe l’immediato, il selvaggio, la forma primaria di espressione, ma una forma alta, elaborata, complessa. Ad alimentarlo sarebbero le emozioni, le passioni, i desideri, che troverebbero nell’affetto lo sbocco che il loro scrosciare incontrollato cercava.

Sto correndo, meglio fermarsi e aspettare, che cosa ne dici? Un’ultima cosa: l’illusione, allora, non sarebbe l’inganne vole scorrazzare di un animale selvatico nella foresta dietro agli odori, sarebbe il cavallo che porta il pensiero affettivo verso l’aperto.

 

È possibile?

Un abbraccio,

Ginevra 2/6/2021

 

2.

 

Cara Ginevra,

 

l’evidenza, come la descrivi, è una rivelazione. Ci accorgiamo di qualcosa che, evidenziandosi improvvisamente (a dispetto della gradualità che ha preparato silenziosamente il suo avvento), toglie un velo invisibile occludente la vista. L’evidenza dischiude una prospettiva. È la dislocazione dello sguardo che conta, non la rivelazione in sé che si dissolve, e in questo modo persiste, nella visuale nuova. È possibile che nel cogliere/accogliere un’evidenza, l’affetto sia determinante quanto il pensiero o forse anche di più.

 

In psicoanalisi è un dato di partenza che all’inizio della vita affetto e pensiero coincidano. Tra quello che il lattante prova e quello che rappresenta mentalmente esiste una differenza oggettiva, ma, ciò che conta, non soggettiva. La coincidenza tra l’affetto e il pensiero persiste in tutta la vita, è il nucleo profondo, essenziale della nostra concezione della realtà. Il mio primo analista, Ignacio Matte Blanco, ha definito l’emozione come composto di sensazione-sentimento (sottolineando la natura psicocorporea dell’affetto) e di pensiero.1 A un estremo (il punto in cui l’emozione sorge) l’affetto, quasi sensoriale, è il pensiero. All’altro estremo il pensiero è linguaggio, si astrae (mai del tutto) dall’affetto e ci ragiona sopra: lo studia, lo analizza, lo valuta. Tuttavia l’introspezione e l’elaborazione delle emozioni non prendono forma in questo estremo in cui il nostro pensiero supervisiona ciò che proviamo, dal suo metalivello autorevole, ma nell’area di mezzo dove pensiero e affetto si incontrano come due amanti e si intendono.

 

L’idea che ti è venuta, come un ospite inatteso, che l’affetto è pensiero (e non il contrario), almeno alle origini, è un buon punto di partenza per il nostro gironzolare. È l’affetto in noi che pensa, è l’affetto che, essendo il principio/matrice e, insieme, la forza propulsiva di ogni forma di senso, ci spinge a cercare i significati della nostra esperienza. Alla tua idea mi viene da associare quest’altra: il pensiero evoluto fondato sul linguaggio si ribella alla forza dell’affetto che, annidato nel suo nucleo originario, lo anima da dentro. Forte della sua capacità di oggettivare il nostro rapporto con il mondo, cerca sempre di venire a capo dell’affetto ed emanciparsene sul piano della conoscenza della realtà esterna. Tuttavia, se la mente si stacca dalla sua anima è molto pericolosa. L’illusione, che in questo inizio del nostro dialogo vedo come un’estensione dell’affetto, lavora nella direzione opposta: afferra, diventando immaginazione, il pensiero razionale conoscitivo, colma lo spazio di separazione di questo pensiero dalle proprie origini e lo rende sperimentale, esplorativo, creativo. Ma c’è un’altra forma di immaginazione (spesso non sappiamo distinguerla dall’illusione) che crea anestesia ed è prodotta come mistificazione o consolazione da una mente autarchica. Questa mente cerca, in tal modo, di riempire il vuoto che la sua dissociazione dall’affetto causa.

 

Saradis [3] 26/5/2021

4.

 

Cara Ginevra,

 

intanto hai ampliato la mia riflessione sull’evidenza: lo sguardo, perché possa essere dislocato, quindi vedere in un modo più chiaro, deve farsi sorprendere. E la sorpresa ama la sosta, odia la velocità. Più veloce va il treno, più la visione del paesaggio si fa confusa. Viviamo in mezzo all’accelerazione, nel regno dall’azione performante – il treno diventato mondo interno – che, chiusa nella sua costruzione algoritmica della realtà, fabbrica di false evidenze, è cieca (come la distrazione). Quando una persona non vedente dalla nascita improvvisamente vede, in seguito a un intervento chirurgico, il suo sguardo è totalmente confuso. Questo sguardo non è abituato a sostare, mentre sta muovendosi, non riesce a sorprendersi e a fare così chiarezza. La cecità dell’azione performante (molto diversa dal chiudere volontariamente gli occhi per sognare ciò che non si vede) è stata descritta da Platone nel mito della caverna. La sostituzione della realtà con immagini artificiali, idoli che danno l’impressione di essere oggetti reali, crea cecità e fa diventare la visione della realtà (vera) abbagliante.

 

Non è il pensiero a farci uscire dalla caverna, il pensiero può benissimo essere ingannato dall’inautentico. L’affetto lo si può interpretare in modo mistificante, lo si può trasformare, come diceva Freud, nel suo contrario, o reprimerlo o spostarlo nel corpo sotto forma di sintomo isterico. Oppure farlo diventare dolore concreto, ferita materiale del corpo (Joyce McDougall). Ma a ogni nostro tentativo di inganno riuscito risponde un vuoto affettivo, una tensione, domanda potenziale di vita, che ci abita, ci interroga.

Non hai torto nel dire che non si può avere affetto senza pensiero. Essi all’inizio della vita sono indissociabili e tali re- stano alla radice di ogni nostra esperienza. Non è necessario che uno dei due abbia la precedenza. Tuttavia, a questo punto bisogna vedere cosa intendiamo per pensiero. Se intendiamo il pensiero fondato sulla parola, allora l’affetto lo precede. L’affetto precede anche il pensiero gestuale, analogico, prelinguistico. Non si può però pensare che possa esserci affetto senza una sua iscrizione mentale (e il suo substrato neuronale). Inversamente, in mancanza assoluta di affetto non c’è attività mentale. Più si stacca dall’affetto, più il pensiero diventa alienato e alienante.

 

Allora come metterla con la tua intuizione che è il pensiero a prendere la forma dell’affetto, a dargli nascita? Perché è vero che le intuizioni non è saggio mollarle: illuminano il buio in cui si addentra il nostro sguardo. Se come prima forma di pensiero intendiamo il “senso”, la rappresentabilità essenziale della nostra esperienza che la rende vivibile e la fa esistere, allora sì, è il senso a rendere possibile l’affetto, che diversamente è solo una tensione destabilizzante. Il senso dell’esperienza precede il pensiero come lo intendiamo da sempre: costruito a partire da significanti prelinguistici e linguistici. Di cosa è fatto questo senso senza significanti, il cui significato è l’affetto impregnato di desiderio? È fatto della sensualità dei vissuti, il piacere di tutti i sensi, inclusa la propriocezione (la percezione del movimento del proprio corpo nello spa- zio), che produce una trasformazione profonda, coinvolgente, della nostra materia psicocorporea.

Il senso delle cose precede e rende possibile la loro co- noscenza. Foucault in Nascita della clinica parla di sguardo “vergine” e di sguardo “sapiente” (la complementarità necessaria all’osservazione del medico).[4] Direi che si possono vedere le cose come se le vedessimo per la prima volta, senza averne conoscenza (sguardo “di prima”) o con occhi esperti che già le conoscono (sguardo “di dopo”). Dobbiamo conoscere le cose per imparare a vedere, ma dobbiamo anche disimparare a vedere, perché ciò che non riusciamo a vedere possa iniziare a prendere forma e a farsi conoscere.

 

Tu scrivi: “Lo dice anche il Serpente: prima mangiate il frutto della conoscenza, e poi vedrete!”.

Si potrebbe pensare che il Serpente premette la conoscenza all’esperienza perché teme il carattere anarchico, non predeterminato di quest’ultima?

Scrivi ancora: “L’illusione, allora, non sarebbe l’ingannevole scorrazzare di un animale selvatico nella foresta dietro gli odori, sarebbe il cavallo che porta il pensiero affettivo ver- so l’aperto”.

Sono d’accordo con te. Tra l’animale che insegue gli odori nella foresta e il cavallo che porta il pensiero affettivo all’a- perto penso che all’illusione si addica quest’ultimo. Mi piace pensare – si vedrà poi che vita avrà durante la nostra passeggiata questo mio pensiero – che l’illusione colmi lo spazio tra il senso senza significanti e il pensiero legato a essi.

 

Saradis 16/6/2021

Note

 

1 A. Damasio, Looking for Spinoza, 2003 (tr. it. Alla ricerca di Spinoza, Adel- phi, Milano 2003); The Feeling of What Happens, 1999 (tr. it. Emozione e co- scienza, Adelphi, Milano 2000); Descartes’ Error, 1994 (tr. it. L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995).

2 R.B. Onians, The Origins of European Thought: About the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate, 1951, 1954 (tr. it. Le origini del pensiero eu- ropeo intorno al corpo, la mente, l’anima, il mondo, il tempo e il destino, Adelphi, Milano 1998).

3 Saradis corrisponde alla pronuncia in greco del nome Sarantis.

4 “[I privilegi che la clinica ha accordato all’osservazione] sono insieme i privilegi d’uno sguardo puro, anteriore ad ogni intervento, fedele all’immediato che accoglie senza modificarlo, e quelli d’uno sguardo provvisto di tutta un’armatura logica che esorcizza d’acchito l’ingenuità di un empirismo non preparato.” M. Foucault, Naissance de la Clinique. Une archéologie du regard médical, 1963 (tr. it. Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Einaudi, Torino 1969, p. 127).

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