di Chiara Portesine

 

[E’ uscito da poco per le Edizioni della Normale l’ultimo libro di Chiara Portesine, La continuazione degli occhi. Ecfrasi e forma-Galeria nelle poesie della Neoavanguardia (1956-1979). Ne pubblichiamo un estratto, corrispondente – con aggiustamenti e tagli – all’ultimo paragrafo del libro, intitolato C’è un lettore per questi (iper)testi?, pp. 287-293].

 

C’è ancora un lettore nella classe della Neoavanguardia?

 

Se, per interpretare un numero tutto sommato ridotto di testi, è stato necessario setacciare decine di archivi, studi d’artista e istituzioni disseminate per l’Italia, ci si potrebbe domandare quale sia il senso (e il “piacere”) di una poesia d’avanguardia, la cui decifrazione obbliga alla pazienza e all’ostinazione di un postillatore d’enciclopedie. Come se non bastasse, per arrivare a decodificare le unità minime (e spesso ancora parziali) di una singola poesia, il critico-enigmistica è tenuto a maneggiare strumenti provenienti dalla tradizione letteraria e dalle discipline collaterali, dall’antropologia alla musica, dalla sociologia alla filosofia. Nella Prefazione a Harry’s bar e altre poesie di Giulia Niccolai (1981), Giorgio Manganelli parlava di una «glossolalia» endemica come «disturbo d’avanguardia che consente di parlare una lingua ed essere compreso in trentatré». L’accusa di elitismo intellettuale, camuffato da marxismo in giacca e cravatta, verrà spesso mossa agli autori della Neoavanguardia, in una semplificazione deterministica per cui la letteratura scritta da professori necessiterebbe per forza di un pubblico di docenti, universitari e maniaci dell’erudizione. Lo sperimentalismo viene così ridotto a un’accettazione passiva dello status quo culturale, rinunciando a sporcarsi le mani con il problema della ricezione e, anzi, procurando ai tecnici di laboratorio l’eccitazione perversa di non essere capiti dal ‘volgo’. In una lettera scritta ad Angelo Guglielmi in risposta al saggio Contro il labirinto Don Chisciotte combatte l’ultima battaglia (1964), Italo Calvino sottolineava la propria diversità rispetto alla Neoavanguardia proprio a partire dalla «figura ideale di lettore che presupponiamo per la letteratura». Secondo Calvino, infatti, il Gruppo 63 richiederebbe un lettore che «del momento di scacco della razionalità […] si compiace, perché trova un alibi, una vacanza, e crede che si possa attendere in pace la fine di tutti i vecchi valori». Al contrario, «come lettori ideali per la letteratura» Calvino pensa «alle uniche persone che per me contano, cioè quelle impegnate in progetti per il mondo futuro (cioè quelle per cui conta la reciproca influenza tra progettazione poetica e progettazione politica o tecnica o scientifica ecc.)», ripetendo, di fatto, il solito refrain sull’impoliticità dell’intellettuale neoavanguardista.

 

In realtà, una simile banalizzazione nasconde la portata effettiva del Gruppo 63 come occasione storica di ‘rottamare’ una specifica idea di ricezione, fondata sull’ossimoro di categorie emotive come l’empatia e il nudo piacere del testo. L’oscurità semantica non funziona soltanto come provocazione cerebrale (e paternalistica) rivolta alla «razza di chi rimane» sulla battigia di un analfabetismo poetico, già dato in partenza e immodificabile. Insegnare al lettore a nuotare nel mare della complessità significa, per la spartana Neoavanguardia, calare direttamente il bambino nell’acqua alta, senza salvagenti o protezioni pedagogiche. Se il metodo può risultare discutibile sul piano educativo, è comunque sbagliato continuare a ripetere che l’intento della Neoavanguardia coincidesse già a priori con l’esclusione snobistica di qualsiasi lettore non specialista. Il Gruppo 63 ha coltivato, al contrario, l’illusione di costruire un futuro rivoluzionato per la lettura, liberandola dai vincoli post-romantici del riconoscimento mimetico e della passività ricettiva. Fantascienza culturale o velleità materialistica, il fallimento storico di questa stagione rimane l’unico dato con cui il critico di oggi possa fare i conti. A proposito dell’utopia della ricezione sognata da Sanguineti, Aldo Tagliaferri parlava di una

 

inversione masochistica per cui il dolore presente, secondo l’interpretazione di Reik, non può che essere una garanzia di felicità futura. E ricorda la analoga inversione che ha caratterizzato il messianismo ebraico: al posto di dio, è possibile scorgere un pubblico disposto a considerare merito l’autocostrizione e valore positivo l’esclusione degli altri valori sociali di un valore artistico riservato agli eterni fanciulli e ai momenti di ozio (L’invenzione della tradizione. Saggi sulla letteratura e sul mito, 1985).

 

La dialettica tra una fatica iniziale del concetto e la successiva redenzione ad opera della comprensione veniva rivendicata dallo stesso Edoardo Sanguineti, come aspetto fondamentale di un rinnovato patto tra l’autore che scrive il testo e il co-autore che lo riscrive attraverso una lettura dinamica, al contempo filologica e trasformativa, ricostruttiva dei nessi mancanti e decostruttiva dei nessi ritrovati. Sanguineti si propone di costruire a tavolino una densità testuale che stimoli l’atteggiamento critico e non il rispecchiamento emozionale del lettore, attivando un circuito sadico-virtuoso e un’«ambivalenza nel rapporto con il fruitore – ti dispiaccio piacendoti e ti piaccio dispiacendoti» (Fabio Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso i ricordi di un poeta intellettuale, 1993). In nome di questa rivoluzione pedagogica della lettura, gli scrittori della Neoavanguardia non mancheranno mai di seminare quegli indizi-briciole che potranno scortare il «lettore testardo» dentro la selva dei citazionismi e dei discorsi riportati. Del resto, come osservava Umberto Eco nel dibattito sul Romanzo sperimentale, «sarebbe pazzesco se un autore d’avanguardia scrivesse per non essere mai, mai, mai capito». Come ha sostenuto il semiologo Aldo Nemesio, portando come esempio l’incipit del Tristano di Nanni Balestrini, «i testi sperimentali, provocando, possono rendere evidenti i procedimenti di lettura». Trovandosi di fronte a «frasi che contraddicono l’interpretazione del testo faticosamente prodotta con la lettura della frase precedente», il lettore smette di aspettare l’intervento messianico dell’autore e accetta che il testo «non comunichi qualcosa, ma ci faccia partecipare a un esperimento» (Il lettore vagante. La percezione dei testi: letteratura, cinema e web, 1995).

 

Il Gruppo 63 ha sognato, insomma, un laboratorio della ricezione consonante con l’idea dell’atto interpretativo di Wolfgang Iser, il cui obiettivo finale «non dovrebbe essere quello di spiegare un’opera, ma quello di rivelare le condizioni che producono i suoi vari possibili effetti» (L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, 1987). Soltanto che, nel posto assegnato al critico, i neoavanguardisti hanno osato collocare il lettore comune, commettendo un atto di hybris ideologica spesso scambiato per un elitarismo anti-comunicativo se non «schizofrenico». Lo stesso concetto di «opera aperta», come aveva notato in presa diretta Angelo Guglielmi, sarebbe da intendersi «dal punto di vista del pubblico-interprete, nel senso che diventa imprescindibile ai fini del completamento dell’opera l’intervento formativo di questo» (Avanguardia e sperimentalismo, 1964).

 

Per quanto riguarda i testi propriamente ecfrastici, l’inserimento di una crittografia segnaletica (dal nome dell’artista agli ammiccamenti letterali ai titoli dei quadri) rende ancora più chiaro l’invito implorante alla decodifica. La lettura di un componimento dedicato espressamente a un artista richiede, per sua natura, il richiamo alle esperienze personali e culturali del destinatario, che dovrà conoscere (o recuperare la conoscenza) dei fenomeni e degli oggetti artistici evocati. Colmare le lacune iconografiche sarà un gesto immediato (se le tavole vengono riprodotte contestualmente, sulle pagine del catalogo) oppure un ‘compito per casa’ da svolgere adoperando le solite riviste interdisciplinari. In effetti, l’enigma delle fonti neoavanguardiste potrebbe forse essere risolto, semplicemente, ri-sfogliando queste riviste e stabilendo una corrispondenza tra i nomi degli artisti citati sulle pagine del «verri» e di «Marcatrè» e i dedicatari delle poesie novissime. A dispetto di un iniziale terrorismo bibliofilo, l’enciclopedia della Neoavanguardia è, in fondo, ‘esauribile’. Gli anni Sessanta e Settanta non sono ancora segnati dalla liquefazione dei metodi tradizionali di trasmissione dell’informazione, attraverso la Rete e la dispersione globalizzata di canoni e modelli interculturali. La vulgata intersemiotica da cui attingere era un bacino esteso ma non infinito.

 

La missione attuale del critico che si occupi di avanguardie diventa, insomma, un lavoro di archeologia iper-moderna, che richiede certamente dei collettivi interdisciplinari di esperti ma non è utopico – così come, forse, non era del tutto utopica l’avventura della ricezione critica sognata dalla Neoavanguardia.

Se inizierà a esistere un critico di questi iper-testi, potrà nascere anche una comunità di lettori che collaborino a rilanciare la sfida di una collettività interpretante e, dunque, politica. Un simile approccio consentirà anche di preservare la nostra disciplina da una lettura impressionistica dei testi, troppo spesso considerati come luoghi deputati alla performance narcisistica dello studioso – qui giustificata apparentemente dall’oscurità di poesie che, siccome potrebbero potenzialmente dire tutto e niente, vengono forzate a esprimere quel troppo che ciascun interprete vorrebbe arbitrariamente incollare negli spazi lasciati vacanti dall’immediatezza del significato. Il rebus della Neoavanguardia, è bene ribadirlo, non accetta una soluzione aperta e soggettivamente proiettiva. Trattare seriamente il materiale verbale di autori confinati dalle antologie in un’incomunicabilità di comodo significa dare loro la possibilità di difendersi, almeno a posteriori. Parallelamente, la scelta di riaprire le trattative secolari sui rapporti di potere che intercorrono tra autore e lettore potrà farci considerare di nuovo la letteratura non come uno specchio ma come un utensile per il lavoro più difficile: quello di decifrare i codici del reale e della storia, insieme (e non a dispetto) dei lettori futuri. Se queste riflessioni prendevano avvio da una domanda provocatoriamente fisheriana («c’è un lettore per questi ipertesti?»), potremmo concludere dicendo che quel lettore esisterà soltanto quando l’aula della ricezione tornerà a essere la società stessa, con le sue contraddizioni e le sue lotte.

 

[Immagine: Gruppo 63].

1 thought on “La continuazione degli occhi. Ecfrasi e forma-Galeria nelle poesie della Neoavanguardia

  1. Non credo che “nel posto assegnato al critico, i neoavanguardisti” abbiano “osato collocare il lettore comune”. Il lettore comune per loro era e restava quello dei Cassola, dei Bassani, dei Moravia, presentati dai neoavanguardisti come i “nuovi Liala” (e la violenza dell’attacco della Neo-avanguardia contro questi scrittori non poteva non implicare un certo disprezzo nei confronti dei loro lettori, lettori “comuni”, per l’ appunto); credo piuttosto che il lettore che i neoavanguardisti avevano in mente per i loro testi fosse un lettore fuori dal comune, radicalmente diverso, un lettore “leur semblable, leur frère”, ossia loro stessi. Ma questa è una vecchia faccenda, propria non solo delle neo-avanguardie, ma anche di tutti quegli scrittori che hanno “re-inventato” il romanzo, da Sterne, poniamo, a Joyce. Per cui più che una “collettività” interpretante, le avanguardie, vecchie e nuove che siano, tendono e si rivolgono a individualità “interpretanti”. Una platea di nicchia, insomma, mentre il lettore “comune” viene confinato alla lettura dei Cassola vecchi e nuovi.

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