di Lorenzo Mari

 

Come accade per moltissimi altri luoghi e i loro immaginari, anche Bologna si presenta come un intreccio inestricabile di contraddizioni. Sono contraddizioni radicate in una storia plurisecolare – basti pensare all’eredità culturale dovuta alla lunga appartenenza dello Stato Pontificio di una città altresì conosciuta come la rossa (con doppia accezione: quella politica è sopraggiunta molto dopo quella originaria, legata alla fisionomia urbana della città) – e sarebbe presuntuoso pensare di poterle attraversare tutte a volo d’uccello. Per nominarne alcune, in ogni caso, si potrebbe fare cenno alla sua dimensione tipicamente iper-provinciale e al tempo stesso (limitatamente) internazionale, al suo essere “città aperta” e al tempo stesso soggetta a molteplici chiusure, o ancora al suo essere città adolescenziale a ciclo continuo – per altre ragioni, già Alberto Meluschi, nella sua Guida sentimentale di Bologna del 1946, ne osservava il «perenne stato di adolescenza» – e al tempo stesso invecchiata precocemente (nonostante, o forse proprio in funzione, delle spinte “modernizzanti” sofferte, più che godute, nell’intramato del suo tessuto urbano e sociale). Si potrebbe andare avanti ancora per molto, ma già così emerge la qualità contraddittoria di una storia e cultura cittadina che si offre, sintomaticamente, tanto al caleidoscopio della scrittura di un saggista polemista – il riferimento è a Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (Pendragon, 2010) di Matteo Marchesini – quanto alla cartografia sentimentale: insieme al già citato Meluschi, vale la pena ricordare un altro testo che, oltre ad essere scientificamente informato, rimane esso stesso una guida sentimentale della città come Bologna di carta (Il Palindromo, 2022) di Riccardo Gasperina Geroni.

 

Contraddizioni che, invece, sembrano faticare a trovare la via della narrativa – se non quando vengono introiettate nella, rigorosamente falsa, coscienza di un “intellettuale bolognese”, come accade nel romanzo d’esordio Scavare (Italo Svevo, 2019) di Giovanni Bitetto – e che tuttavia, negli ultimi dieci anni, sembrano aver trovato metaforizzazione, oltre che tematizzazione, compiuta nei romanzi di Luigi Bernardi e Silvia Tebaldi. È in questi romanzi che, si potrebbe dire, Bologna la rossa (con accezione più politica che coloristica) si è definitivamente lacerata a causa delle sue tensioni contraddittorie, e appare dunque come Bologna la rotta, aprendo a possibili scenari di interpretazione e ri-creazione fictional del suo passato prossimo e presente.

 

Nel 2013, la rottura è stata metaforizzata e insieme tematizzata come “crepa” nell’ultimo romanzo pubblicato in vita da Luigi Bernardi – Crepe (Il Maestrale, 2013), appunto[1]. Originariamente il titolo avrebbe dovuto essere Alta Velocità, richiamando dunque in modo esplicito la causa materiale delle crepe effettivamente disseminate nella trama, ossia l’apertura della stazione sotterranea dell’Alta Velocità di Bologna, inaugurata l’8 giugno 2013. Negli anni immediatamente precedenti, molteplici realtà – incluso il comitato di quartiere di via Carracci, via prospiciente la stazione e geograficamente appartenente al quartiere popolare della Bolognina – avevano segnalato i notevoli disagi causati dai lavori dell’Alta Velocità agli abitanti del quartiere, tra emissioni massicce di polveri e aperture di voragini nelle abitazioni del quartiere. Del resto, il periodo storico in cui apparve il libro di Bernardi fu anche uno dei momenti apicali – almeno quanto a mediatizzazione e strumentalizzazione partitica – per le lotte del movimento No TAV, certamente radicato altrove ma consistentemente presente anche nella realtà politica cittadina (si veda, a titolo di esempio, Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav di Wu Ming, Einaudi, 2016).

 

Il romanzo di Bernardi, tuttavia, non si qualifica immediatamente come “romanzo di denuncia”. Manifestazioni, proteste e comitati sono sempre descritti da un punto di vista ideologicamente avverso o perlomeno disilluso: se il comitato di quartiere, agli occhi dell’anziana signora Armida, è un’occasione provvisoria e un po’ ipocrita di socializzazione in un tessuto urbano già fortemente anomico, le manifestazioni e le proteste dei “giovani” – nel romanzo non si fa quasi mai menzione dei centri sociali bolognesi, pure in grande attività, all’epoca – sono guardate con lo stesso disincanto, per quanto per motivi diversi, dal padre Arturo e dal figlio Orfeo. Quest’ultimo partecipa inizialmente a una manifestazione, ma poi se ne distacca annoiato, per un moto, in apparenza piuttosto simile, di ribellismo adolescenziale:

 

Poco più avanti, il camion che apriva il corteo pompava musica ad almeno 150 bpm. L’alta velocità compatterà il mondo: a Orfeo sembra fatta apposta per quei ragazzi che lo vorrebbero stringere tutto in un pugno, e su internet lamentano connessioni lente che impediscono di scaricare in fretta film e telefilm. Non comprende le ragioni della protesta. Capisce soltanto che hanno le idee confuse e il loro dissenso è semplice apparenza, il gioco di chi si annoia e per reazione vorrebbe impaurire chi sta intorno. Per esempio: a cosa serve lanciare petardi se non a produrre un rumore insulso? Almeno avessero il coraggio delle loro azioni e tirassero bombe. Se non si lasciano macerie alle spalle, è inutile pretendere di cambiare qualcosa, millenni di storia lo testimoniano. (Bernardi 2013, pp. 13-14)

 

Se ogni empatia con Orfeo viene contrastata, per chi legge, dalle successive azioni criminose perpetrate dal personaggio, si può forse osservare come, almeno in parte, il testo sembri generalmente uniformarsi con quella critica dell’ambivalenza del posizionamento politico delle proteste contro l’Alta Velocità. Il tema dell’accelerazione ritorna infatti nelle pagine conclusive del libro, quando la crepa si manifesta in modo definitivo, nella vita di Arturo, con l’omicidio della compagna Amanda e dunque con un improvviso lutto che è anche il catastrofico sgretolamento di un intero mondo. Nemmeno Arturo è completamente innocente, come si vede nella progressiva emersione delle crepe nella sua vita (dalle piccole Y che vede nei muri ai tagli che si procura radendosi) fino al crollo finale, e cioè con una graduale e inarrestabile resa alla catastrofe, come “pulizia del mondo” altrimenti impossibile:

 

Chissà se ci sono delle crepe, là sotto, si sorprende a domandarsi. Arturo vorrebbe conoscerne la forma, le dimensioni, la profondità. Già che c’è prova a immaginare l’esistenza della crepa definitiva, quella che da un momento all’altro trascinerà nelle viscere della terra l’intero progetto dell’Alta Velocità, la nuova stazione e anche la sua casa e quelle dei vicini. Così vivono gli uomini da niente, gli uomini come il sottoscritto, rincara la dose. Vivono sperando che accada qualcosa, un miracolo che di colpo risistemi la vita. Che affondi una nave o cada un aereo, oppure semplicemente che schiatti il loro antagonista, spianandogli la strada. (p. 121)

 

L’ambivalenza sembra aleggiare anche attorno al personaggio di Amanda, in relazione soprattutto alla sua professione di giornalista: Amanda vuole «raccontare come si perfora la terra, come cambia il mondo» (p. 84), ma il suo racconto si perde, e per vari motivi – non da ultimo la sua morte, che le impedisce di continuare la narrazione dell’Alta Velocità a Bologna. Si perde, soprattutto, perché non c’è sutura, o collegamento realmente possibile, tra il piano della cronaca quotidiana, con la sua intervista all’anziana signora Armida del comitato di quartiere, e quello – fisico e metafisico, ancor prima che politico – di «come cambia il mondo», laddove, ancora una volta, il piano della lotta politica le si presenta come ambivalente sul piano concettuale, e dal punto di vista pragmatico come di scarso interesse giornalistico e mediatico (al contrario, qui, dell’ipermediatizzazione e strumentalizzazione politica del movimento No TAV).

 

Inoltre, la narrazione giornalistica ha costantemente a che fare con l’orizzonte, o con il mito, della neutralità e dell’oggettività, ma l’iter che porta all’inaugurazione della stazione sotterranea è costellato da «esibizion[i] studiat[e] in ogni dettaglio» (p. 81), dove la messinscena supera la realtà, e da «bollettini di guerra» (p. 82), rispetto ai quali la forma tradisce l’intenzione. Piuttosto, a proposito dell’Alta Velocità è «[l]a città [di Bologna che] non si emoziona, le città non si emozionano mai» (p. 217) – manifestando anche in questo caso come la rottura di Bologna abbia innanzitutto a che vedere con il dominio incontrastato e anomizzante della techne, lo stesso per il quale Orfeo è attratto dai cambiamenti in atto nel quartiere della Bolognina e assume come parole d’ordine questi (fascistizzanti) assoluti: «la trasparenza come valore, la pulizia come qualità» (p. 111).[2]

 

Amanda cerca di mantenere una distanza critica da un altro genere della narrazione giornalistica, quella “cronaca nera” che ha contribuito a creare, a propria volta una leyenda negra della città: quando, presumibilmente negli anni Novanta, Amanda si era trasferita in città, questa era ancora considerata come «una delle città più pericolose d’Italia, secondo quanto si leggeva sui giornali» (p. 53). Come raccontato in numerose occasioni dal Bernardi cultore del noir nelle sue varie declinazioni, a Bologna non sembra essere cambiato molto con il nuovo millennio: se la rappresentazione mediatica della pericolosità della città appare pretestuosa agli occhi di Armida, quale subdolo tentativo di arricchimento alle sue spalle da parte dei suoi figli, essa tuttavia acquisisce accenti tragicamente ambivalenti con lo stupro e l’omicidio di Amanda. La giornalista, infatti, in vita, aveva cercato di fornire una diversa e più complessa narrazione della “questione criminale” bolognese, come relativa più alle paranoie securitarie dei primi anni Zero che non a una dimensione effettivamente propria della città di Bologna.

 

Dove il giudizio ideologico, da parte dell’autore, sembra restare più che altro sospeso, aumenta di certo la caratterizzazione in senso tragico della narrazione, favorita anche da un’accelerazione che è sfruttata sia nella sua tematizzazione, per il suo legame con l’Alta Velocità, sia nella sua funzione narrativa, con la generale progressione degli eventi che si ha nella seconda metà del romanzo. Vi è anche una sorta di catarsi finale, con l’allontanamento dalla città dei due personaggi autori di crimini, nel corso della narrazione, sul medesimo treno ad alta velocità: è una catarsi, dunque, che riguarda più la città di Bologna che i personaggi che si muovono al suo interno, ma non può essere, d’altra parte, una catarsi completa. Così come si è verificata nelle Crepe, infatti, la rottura resta insanabile: come ha sottolineato Francesco Forlani in un’arguta lettura del libro pubblicata su Nazione Indiana nel 2013, si tratta di quell’incrinatura che permette la comunicazione, in senso batailleano – «La comunicazione richiede una mancanza, una ‘incrinatura’; entra, come la morte, da una fessura della corazza. Richiede una coincidenza di due lacerazioni, in me stesso, nell’altro»[3] – ma è anche la ferita aperta nella terra dalla costruzione della stazione sotterranea dell’Alta Velocità di Bologna – una ferita che non sostituisce, anzi si aggiunge a quella, di tutt’altro tipo, inferta alla Stazione Centrale il 2 agosto 1980.

 

Rispetto a quella di Bernardi, una rottura per certi versi analoga, per altri assai diversa – e in costante oscillazione tra un polo costituito da Bologna e uno rappresentato dalla nativa Ferrara – si ha con il proteiforme Guasto al centro della trilogia di romanzi brevi di Silvia Tebaldi: Quattro lune di Giove al Capo delle Volte (2021) e Il lettore dell’acqua (2023) e I giorni del vuoto (2024), tutti pubblicati dalla casa editrice Zona 42. Collocazione editoriale che, in funzione del prezioso catalogo fin qui costruito dalla casa editrice con sede a Modena, è già molto significativa, per tre narrazioni a carattere distopico che non restano confinate entro i perimetri (sempre che esistano e reggano il confronto con l’analisi del singolo testo) della letteratura di genere – come accade, del resto, anche con i libri del Gruppo dei 13, ovvero di quel “noir bolognese” che aveva già fatto capolino nei decenni precedenti[4].

 

Venendo alla trilogia di Tebaldi, essa appare di recente pubblicazione, ma la gestazione è stata lenta, in omaggio ai tempi della scrittura descritti dalla stessa autrice in un’intervista del 2024 per Satisfiction[5]. I giorni del vuoto, infatti, era già stato pubblicato nel 2009, in una versione diversa e più lunga con il titolo Vuoto centrale da Perdisa Pop – nella collana Walkie Talkie, curata proprio da Luigi Bernardi – e rappresenta perciò il primo tassello, in ordine cronologico, di una serie il cui ordine di pubblicazione è stato parzialmente stravolto in corso d’opera.  In ogni caso, un simile accenno di ricostruzione cronologica e filologica non è strettamente necessario per accostarsi alla lettura di uno dei volumi o della trilogia; anzi, è proprio la figurazione principale che li accomuna – ovvero il Guasto, nelle sue varie manifestazioni, da libro a libro[6] – a rendere utile, ma non strettamente necessario, il tentativo di ricostruzione.

 

È un Guasto, del resto, che si qualifica come catastrofe, non come apocalisse: capovolge il tempo, ma non porta una rivelazione ultima che ridefinisca il tempo una volta per tutte. Anche il tempo della narrazione, nei singoli volumi e nella trilogia e nel suo complesso, non ne viene sconvolto irrimediabilmente, né può esserne consolidato, per l’intrinseco paradosso appena citato (come capita invece con quelle apocalissi che di fatto intendono sempre sancire una verità religiosa, ideologica, etc.), proponendosi invece un orizzonte fragile e precario dell’azione. La dimensione spaziale, per contro, resta più solida – come testimoniano le frequenti incursioni storico-culturali di ambito cittadino, dalla toponomastica alle annotazioni, ad esempio, su Bologna “città d’acqua”[7] –  ma le crepe, nella rappresentazione della città, non sono state certamente sanate e preludono sempre a un possibile crollo strutturale.

 

Per analizzare più nel dettaglio la trilogia di Tebaldi, si sceglierà di guardare principalmente al testo che rimane da molti punti di vista al centro della trilogia, ovvero Il lettore dell’acqua, mantenendo costanti i riferimenti anche agli altri due testi di questa possibile “trilogia del Guasto”. Il lettore dell’acqua è Elia, uno dei personaggi del romanzo breve, del quale si sottolinea abbastanza presto la pregnanza del lavoro rispetto alla storia passata e presente della città – città d’acqua, appunto, ma, come si ricorda immediatamente a seguire, anche di «buche e frantumi» nel presente, o nel prossimo futuro, che ricordano, per analogia, le crepe bernardiane: «Una città piena di mulini e di rogge, di opifici spariti, di canali interrati e dimenticati e riemersi a frammenti, piena di buche e frantumi. Sono un lettore dell’acqua, dice Elia a sé stesso: dove sono io c’è l’acqua, i suoi segni, le sue vene» (Tebaldi 2023, p. 29). Nel Lettore dell’acqua si verifica in altre parole la riproposizione, in una modalità sotterranea ed equorea, di quello scandaglio, tanto sincronico e geografico quanto diacronico e storico, della toponomastica bolognese che attraversa i tre romanzi brevi della trilogia, come molteplice segno di un attaccamento affettivo ai luoghi, di etica della memoria e, non di rado, di ammonimento verso un processo di turistificazione e gentrificazione ormai generalizzato[8].

 

Tuttavia, tale conoscenza della città non basta, da sola, a “riparare” un Guasto che è già avvenuto da più di un anno quando iniziano i fatti narrati, e sta portando con sé la diffusione di una malattia dai strani sintomi (irsutismo, cambio del colore degli occhi, angoscia, vertigini, etc.) e dalla letalità non nota, che colpisce in egual misura uomini e animali. L’analogia con la pandemia da Covid-19, rafforzata dalla pubblicazione del libro nel medesimo periodo storico, sembra evidente, e acquista una fisionomia ancor più precisa se si pensa alle condizioni di lockdown – anche qui, senza riferimenti espliciti alla pandemia storicamente avvenuta – raccontate in Quattro lune di Giove al Capo delle Volte[9]. Del resto, Bologna soffre un Guasto catastrofico, ma in questo la città – che tanto, negli ultimi decenni, si è nutrita del mito della propria eccezionalità culturale e politica – non fa più eccezione: «Guasti così non ce n’è solo a Bologna, solo che non lo dicono, Paola» (p. 84). Per di più, il Guasto ha gettato nel caos la città, mettendo in crisi le istituzioni locali e insieme l’immagine di una città dove “funzionava tutto”, almeno in passato; ora, l’unico ospedale pubblico a funzionare è chiamato Diotisalvi – con un’ironica eco bacchelliana – mentre fioriscono le cliniche private, chiara metonimia di una più ampia ondata di privatizzazione e riduzione dell’intervento pubblico e della sua efficacia.

 

L’unica risposta possibile pare risiedere allora nella tradizione – pure consolidata in città, nei decenni, e almeno dagli anni Settanta, ma mantenendo sempre un “profilo basso”, a livello sia politico sia mediatico – del mutualismo: se questa viene rappresentata nel Lettore dell’acqua da un intreccio di personaggi femminili che si prendono cura – letteralmente, vista l’ondata di contagi[10] – l’una dell’altra, nei Giorni del vuoto era invece costituita da una fittizia “Università delle Moline”. Quest’ultima rappresenta chiaramente l’opposto speculare dei comitati di quartiere raccontati da Bernardi, e insiste invece su quel mutualismo che è stato una dimensione poco raccontata, ad esempio, degli storici centri sociali bolognesi.

 

In verità, un’altra possibile risposta al Guasto può essere rintracciata su un piano esoterico che, tuttavia, non diventa mai essoterico; risulta, cioè, riservato a una ristretta cerchia di iniziati, cioè ai personaggi del Lettore dell’acqua, ma questo non impedisce che tale chiave di interpretazione resti disponibile, più in generale, per chiunque legga il libro di Tebaldi. In effetti, in un testo come Il lettore dell’acqua hanno una discreta rilevanza (che qui non sarà approfondita soltanto per ragioni di spazio) i saperi legati allo zodiaco e ai tarocchi, attraverso i quali, in ogni caso, si arriva a un finale di speranza, chiaramente incastonato in queste parole: «La luce tornerà. Il gesto della Temperanza, il numero del Carro» (p. 112).

Anzi, si può osservare come la questione dei tarocchi sembri essere primariamente di carattere iconotestuale; rimanda, infatti, a una preoccupazione per le immagini che attraversa vari libri di Tebaldi, acquisendo forse rilievo maggiore nelle Quattro lune di Giove al Capo delle Volte e nel lavoro di resistenza al Guasto e al suo lockdown da parte di Deneb e Alrai (due nomi di stelle, per continuare sul piano dell’esoterismo già menzionato), ma facendo capolino anche nel Lettore dell’acqua, dove il personaggio di Reba, oltre a prendersi cura delle altre donne della narrazione, afferma: «Affresco. Dipingo colori o dipingo bianco, secondo necessità. Pitturo» (p. 27).

 

Un interesse che si può facilmente ricollegare al motivo delle crepe che attraversa, in particolare, Quattro lune di Giove al Capo delle Volte – romanzo breve che, già dal titolo e dalla menzione della splendida via Capo delle Volte, rimanda a un’ambientazione ferrarese, oltre che bolognese – ad esempio in queste occorrenze testuali: «canali che strabordano, frane, reti intasate, crepe e sprofondi» (Tebaldi 2021, p. 13); «Crolli, frane, crepe, canali» (p. 14), e ancora: «Guasti banali e stupidi, ma tutti assieme un casino. Che siano impianti e reti, che siano crepe, i cavalieri dell’apocalisse. Li vedi, i segni. Che siano piante mostruose, piante come una selva, vedi la selva oscura, ma certo che sai cos’è» (p. 36). Non si tratta soltanto di un possibile omaggio al romanzo di Bernardi, ma anche di una lucida indicazione del rapporto tra le crepe causate dal Guasto e le immagini, alla ricerca di una possibile sintesi, che si trova infine nella chiusa delle Quattro lune di Giove al Capo delle Volte: «C’è un tempo per il restauro e uno per l’utopia» (Tebaldi 2021, p. 111).

Sentendo perlomeno come lontano l’orizzonte utopico – e per vari motivi, non solo locali, ma anche più vasti e congiunturali, come evidenziato dall’accelerazione dell’Alta Velocità, nel romanzo di Bernardi – Bologna la rotta richiede con ogni probabilità un restauro, senza restaurazione, che non si fermi al recupero di ciò che è irrimediabilmente perduto – dal livello della toponomastica insidiato da turistificazione e gentrificazione, a un livello politico più ampio – bensì apra a nuove possibilità utopiche.

 

Note

 

[1] Per un ritratto appassionato ed esaustivo dell’opera di Bernardi, nonché per un’introduzione al suo libro postumo, L’intruso (DeA Planet, 2019) si rimanda a: G. Montieri, “Luigi Bernardi, L’intruso, Doppiozero, 14 gennaio 2019.

[2] Non è forse casuale, in questo senso, che torni a più riprese un aneddoto in superficie banale, e in ultima istanza grottesco, ma tutto sommato minore, nell’economia della narrazione, come quello raccontato da un idraulico in presenza della signora Armida e riguardante lo sgorgamento di uno scarico: oltre al suo chiaro riferimento al ritorno del rimosso, rappresenta anche il movimento contrario rispetto a quello della crepa (emersione in superficie anziché discesa in profondità) e anche il polo opposto (fortemente scatologico, in questo caso) rispetto alla celebrazione della pulizia e della trasparenza da parte di Orfeo. Come si può leggere in questo corsivo raccontato dall’idraulico, «[n]essuno ci pensa, alla puzza che facciamo. È tutta lì, dentro al tubo di scarico. E se quello per un motivo o per un altro si ingorga, torna indietro, senza pietà. Perché di una cosa dovete stare sicuri: la puzza non ha pietà per nessuno, la puzza non lo sa neppure cosa sia la pietà» (Bernardi 2013, p. 181).

[3] In Overbooking: Luigi Bernardi, Forlani cita da: G. Bataille, Il colpevole/L’Alleluia, Dedalo, Bari 1989, pp. 43-44.

[4] Scrive a questo proposito Gasperina Geroni: «Non immaginarti gli scrittori di noir come dei giallisti in senso tradizionale. I loro protagonisti non si limitano a risolvere il caso, come faceva il Poirot di Agata Christie: essi possiedono sempre qualche elemento chiaroscurale, non si tratta mai – come poi accade anche nella realtà –  del bene che prevale sul male. Qui, l’atmosfera è grigia, non sempre sono evidenti i motivi che spingono al bene come quelli che aprono la strada al male. Citare Gasperina p. 80 sul chiaroscuro bolognese. E per questo la città di Bologna è la quinta ideale per ambientare questo tipo di romanzi…» (2022, p. 80). Chiaroscuro e grigiore che sono qui definitivamente abbandonati in favore di una più chiara lacerazione prodotta dalle forze tensive in gioco.

[5] Cfr. M. Schiavone, “I giorni del vuoto. Intervista a Silvia Tebaldi”, Satisfiction, 9 luglio 2024: https://www.satisfiction.eu/i-giorni-del-vuoto-intervista-a-silvia-tebaldi/

[6] Nei tre libri di Tebaldi, il Guasto appare sia con la maiuscola che, più spesso, con la minuscola; qui si adotta sempre la maiuscola, per convenzione, e anche allo scopo di ricordare un luogo di Bologna, sempre evocato indirettamente e mai descritto o citato esplicitamente dall’autrice, ossia il Giardino del Guasto, presente in zona universitaria – luogo tradizionalmente associato dalla vulgata al consumo di droghe e, più fattivamente, oggetto di recupero da parte di una rete di individui e associazioni che ricorda il mutualismo raccontato, come si vedrà, anche da Tebaldi.

[7] Delle tante narrazioni disponibili su questo aspetto poco noto della città di Bologna al di fuori dei suoi confini, si può ricordare la menzione che ne fa John Berger ne La tenda rossa di Bologna (Modo Infoshop, 2015), non solo perché si tratta di una pubblicazione tutto sommato recente rispetto alle pubblicazioni di Tebaldi, ma anche perché I giorni del vuoto include un esergo bergeriano – «I morti circondano i vivi. I vivi sono al centro dei morti. In questo centro ci sono il tempo e lo spazio, Ciò che gli sta intorno è senza tempo» (J. Berger, Dodici tesi sull’economia dei morti, 1994) – che rimanda, di fatto, a una possibile chiave di interpretazione bergeriana anche per il ruolo preponderante che hanno lo sguardo e le immagini, cui si farà cenno più avanti, nella trilogia di Tebaldi.

[8] La questione, che nasce da un lungo dibattito di gran lunga precedente e molto più articolato dell’articolo di Ilaria Maria Sala sul New York Times che ha goduto di qualche risonanza locale nell’agosto 2024, è affrontata ad esempio nei Giorni del vuoto, e dunque in un libro di Tebaldi la cui prima pubblicazione risale al 2009, con la sostituzione dei quartieri o delle porte del centro della città – elementi molto noti della toponomastica cittadina, per chiunque sia almeno transitato per Bologna – con altrettante torri («TorreVitale», «TorreSaragozza», cfr. Tebaldi 2021, p. 8 e ss.) che fanno dell’elemento più “iconico” della cartografia urbana di Bologna – le Due Torri, ossia la Torre della Garisenda e la Torre degli Asinelli – non più un segno visibile della storia cittadina, ma un brand infinitamente replicabile.

[9] Nella narrazione di Tebaldi, le parole chiave per affrontare il post-lockdown sono «Ricostruzione, Concordia, Consenso e Oblio» (Tebaldi 2021, p. 6), con evidente anticipazione e anche distanza ironica dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza effettivamente varato in Italia nel luglio 2021.

[10] Uno dei personaggi, Rita, affronta la questione sanitaria non soltanto grazie alla sua professionalità in ambito medico, ma anche grazie a un intendimento emozionale e politico del proprio ruolo di cura, che precisa meglio i contorni per nulla sentimentalistici del mutualismo raccontato da Tebaldi: «è la rabbia che mi tiene in piedi, pensa Rita» (Tebaldi 2023, p. 33), trovando proprio nella rabbia un elemento di comunanza esplicita (p. 34) con l’esperienza storica di Florence Nightingale durante la guerra di Crimea.

 

[Immagine: Disegno di Daisy Zuo].

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