di Estelle Ferrarese
[Proponiamo un estratto di Il mercato della virtù. Critica del consumo etico di Estelle Ferrarese (traduzione di Giulia Prada), appena pubblicato da Castelvecchi editore. L’autrice sarà ospite del Festivalfilosofia di Modena domenica 15 settembre alle 10.00 in Piazza Grande, dove terrà una lezione magistrale dal titolo Caregiving. Per una nuova relazione sociale].
Una giusta scelta
Consumare in modo etico significa innanzitutto rifiutare l’eccesso, moderarsi, astenersi da pratiche di consumo che hanno un eccessivo impatto sugli esseri umani o sulla Natura. Ciò è chiaramente illustrato dal consumo orientato allo sviluppo sostenibile. Questo tipo di consumo riunisce tutta l’ambiguità denunciata da André Gorz come intrinseca al principio stesso di sviluppo sostenibile: esso presuppone di favorire tecniche e soglie di inquinamento che la scienza stabilisce essere ecologicamente tollerabili, in altre parole, garantire «le condizioni e i limiti entro i quali lo sviluppo della tecnosfera industriale può essere perseguito senza compromettere le capacità di autogeneratrici dell’ecosfera». Una pratica di consumo che si richiama a questo principio non si svincola quindi dal suo radicamento in un contesto produttivo e da un rapporto con la natura che è un rapporto di sfruttamento; diventa semplicemente un rapporto di sfruttamento regolato dall’autolimitazione.
Ma in definitiva per potere essere considerato una forma di consumo responsabile il gesto etico non coincide tanto con il rispetto di una quantità o di limiti prestabiliti, quanto con lo scrupolo, la resistenza all’hybris, la rinuncia alla compulsione e l’impegno alla temperanza; in altre parole, si tratta di fare prova di misura.
Le pratiche contemporanee di consumo etico e i discorsi che le accompagnano delineano su questa base un regime di attribuzione della legittimità e dell’illegittimità delle scelte e assicurano una distribuzione, necessariamente asimmetrica, di ciò che può essere annoverato tra i danni causati dal mercato, e con essa le responsabilità nei confronti dei soggetti suscettibili di subire tali danni. Tutto ciò delinea un’economia dell’attenzione che crea e ricorda ciò che conta. E che lascia in secondo piano altri atti, altri torti, altre vulnerabilità. Alcuni settori di attività e alcuni tipi di beni, primi fra tutti il cibo e l’abbigliamento, assorbono la maggior parte del discorso sul consumo etico. Alcuni ambiti faticano a farsi strada nella vita morale plasmata dal consumo, ad esempio gli strumenti delle tecnologie immateriali, che hanno la strana capacità di rendere invisibile la realtà materiale su cui si basano – come i componenti minerali di smartphone, rame, piombo, nichel, argento, stagno, alluminio, ecc. –, le condizioni della loro produzione e il loro possibile esaurimento. Allo stesso modo, le condizioni di produzione dei beni culturali sono raramente messe in discussione, e a pochi è venuto in mente di rifiutarsi di consumare musica in streaming perché è più dannosa per l’ambiente rispetto ai dischi in vinile, poiché richiede un’energia infinitamente maggiore. Emerge quindi, in controluce, un’etica che si esercita innanzitutto su una “materia” che ci si può raffigurare molto concretamente, che si impone nella sua pesantezza e grossolanità. Correlativamente, il lavoro che desta preoccupazione è generalmente quello di trasformazione di questo materiale – dove la presenza dei corpi è particolarmente pesante. Ne deriva che la questione del prezzo equo, ritagliata dallo schema della giusta remunerazione, diserta l’universo dei libri e dei beni culturali, ad esempio.
Allo stesso modo, la grammatica contemporanea non tiene conto del fatto che oggi il consumo sta subendo una completa revisione, passando dal possesso all’uso, dall’acquisto all’abbonamento, dalla proprietà dei beni stessi all’accesso ai servizi dei beni. Questa nuova forma di consumo, effimera, condivisa e spesso immateriale, non è oggetto di alcuna preoccupazione, anzi è considerata etica di per sé. Si pensa che i produttori non avrebbero più interesse a programmare l’obsolescenza delle merci e si presume che si assumano spontaneamente la responsabilità di gestire i rifiuti. In alternativa, i principi di “condivisione” e di “collaborazione” che stanno alla base di questo tipo di consumo sembrano dare un tocco etico all’atto stesso, se non addirittura generare di per sé una forma di frugalità – tesi smentita dalla crescita vertiginosa dei mercati coinvolti. A meno che il consumo, non sembrando implicare un’appropriazione da parte di chi acquista i beni, sia esentato da qualsiasi sospetto di predazione sottostante alla produzione dell’oggetto.
Peraltro, acquistare in modo responsabile è una pratica che ha senso solo all’interno del mercato ufficiale e legale. Cercheremmo invano un consumo etico di beni vietati eppure ampiamente consumati, come le droghe. Fare scorta di sostanze psicotrope è un gesto che si compie senza considerare le condizioni di produzione, trasporto e sfruttamento che hanno reso disponibile tale merce. A ben guardare qui possiamo rilevare una punta di ironia, nella misura in cui il consumo etico si pone come un insieme di pratiche che si distaccano dal quadro istituzionale del mercato. È proprio perché il quadro giuridico e normativo degli scambi commerciali è percepito come insufficiente o inefficace che si rivela necessaria un’etica individuale, un’etica che intende sovvertire questo quadro, reintroducendo un rapporto diretto tra produttori e consumatori, o comunque il meno mediato possibile da un’organizzazione collettiva degli scambi. Tuttavia, una pratica illegale, cioè un consumo che è già al di fuori dagli schemi istituzionali del mercato, non sembra in grado di potere generare comportamenti etici. La questione del lavoro e delle sue condizioni si riflette nelle pratiche del giusto prezzo che, come abbiamo detto, viene misurato formulando una remunerazione che tenga conto della durata e della fatica del lavoro. Si ritrova in filigrana anche nelle pratiche che mirano ad adeguare la cadenza dei pagamenti per adattarsi ai ritmi dell’agricoltura contadina, con sistemi di abbonamento pensati per compensare i ritmi che limitano il lavoro e le incognite naturali che possono renderlo vano.
Ma in ciò che viene preso in conto rientrano solo alcuni degli aspetti del lavoro e del modo in cui viene svolto. Tra i criteri che garantiscono una scelta equa, le considerazioni sulla parità di retribuzione e sulla democrazia nell’azienda produttrice sono praticamente assenti. Soprattutto, l’inclusione del lavoro tra gli oggetti del consumo etico non si associa ad alcuna considerazione per il suo opposto e il suo complemento: la disoccupazione, che determina l’esclusione di un numero crescente di individui, privati di valore come lavoratori. Il capitale globale, ai livelli di produttività e redditività raggiunti, non è più in grado di assorbire capacità produttive per trasformarle in lavoro astratto. Il capitale realizza la maggior parte dei suoi profitti attraverso la speculazione e il lavoro produttivo contribuisce sempre meno alla valorizzazione del valore. Eppure, sembra evidente che il consumo etico non può affrontare questo tipo di difficoltà, nemmeno marginalmente, nemmeno includendolo tra le “esternalità” di cui si sforza di coprire i costi. E questo anche se, una volta che tutto è stato sussunto sotto il capitalismo, nulla può essergli esterno, e possiamo affermare con Fredric Jameson che la legge assoluta e generale dell’accumulazione capitalistica è quella del non-lavoro: «I disoccupati – o in questo caso gli indigenti, i poveri – sono in un certo senso assunti dal capitale per essere disoccupati; svolgono una funzione economica attraverso il loro stesso non-funzionamento (anche se non sono pagati per farlo)». Accettare di pagare il giusto prezzo significa accettare di pagare per il tempo di inattività dal lavoro di coloro che contano come lavoratori – di sostenere un costo di manutenzione e riproduzione indissociabile dal suo costo d’uso, ma ciò autorizza a lasciare fuori dal campo etico l’organizzazione collettiva di questo uso, la divisione tra lavoro e non lavoro.
Consumare eticamente significa anche acquistare qualcosa che altrimenti resterebbe relegato al rango di rifiuto, qualcosa che non è nuovo. Ciò significa astenersi dall’acquistare beni il cui decadimento in rifiuti è infinito – imballaggi, oggetti, componenti. Significa rivolgersi a un commercio in cui i beni sono prodotti solo su richiesta. La scelta giusta ancora una volta è quella della misura: si tratta di limitare il volume dei rifiuti, limitare l’esaurimento dei materiali, o di rallentare la trasformazione immediata della natura in rifiuti. E nel gesto di acquistare cose che altrimenti sarebbero abbandonate al regno degli scarti c’è anche qualcos’altro, un tentativo di trasformare i rifiuti in scorie; per riprendere la distinzione di François Dagognet, i primi sono «ciò che sono, le conseguenze di un degrado», mentre le seconde «conservano un meglio che non riusciamo a strappare loro, e allo stesso tempo esaltano l’eterologia». Il consumatore etico vede quindi nel mucchio di oggetti usati «una vera abbondanza, i segni dell’appartenenza a ciò che chiamiamo “l’essere”». Le considerazioni sui rifiuti, che si traducono nella preferenza accordata a prodotti sfusi o nell’acquisto di beni di seconda mano, sono l’altra faccia di questa preoccupazione per la materia, di cui si confuta il potere di contaminazione, mentre l’attività manuale e l’attenzione che comporta il riciclaggio sono valorizzate in quanto tali. Attraverso ciò a cui reagisce il consumo etico traccia una mappa di ciò che il mercato danneggia, in primis il corpo quando richiede un lavoro molto fisico e la materia nella sua rusticità; stabilisce un catalogo dei suoi modi di danneggiare – con un’appropriazione esclusiva e arrogante, assimilando rifiuti e spazzatura; designa persino il mercato che danneggia, quello legalmente regolamentato.
Estratto da “Il mercato della virtù. Critica del consumo etico” di Estelle Ferrarese, traduzione di Giulia Prada, Castelvecchi editore.
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