di Dimitri Milleri

 

L’ottava puntata della serie “Autenticità e poesia contemporanea” –  un dibattito nato da una ricerca di Maria Borio e lanciato da un dialogo fra quest’ultima e Laura Di Corcia, sfociato in un questionario sottoposto a poete e poeti a cui è stato chiesto di scegliere alcune domande fra quelle che trovate qui, dibattito ospitato dai blog Le parole e le cose, Nazione Indiana e PordenoneLegge – vede le risposte di Dimitri Milleri, il quale dopo Roberto Cescon Autenticità e poesia contemporanea /1 – Le parole e le cose² , Tommaso Di Dio Autenticità e poesia contemporanea /2 – PordenoneleggepoesiaMarilena RendaAndrea Inglese, Marco Pelliccioli, Antonio Francesco Perozzi e Andrea Accardi Autenticità e poesia contemporanea #7 | NAZIONE INDIANA prova a dare una sua visione del tema e ad affrontarne le sfumature. Il dibattito registrerà anche una puntata dal vivo a PordenoneLegge – qui tutte le informazioni.

 

L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?    

 

Il concetto di autenticità è una rete da pesca e le maglie si fanno sempre più strette: chi lo impiega spesso compie un gesto generico, consapevolmente o inconsapevolmente. L’autenticità dissezionata da Adorno nel suo saggio sull’ideologia tedesca era una specifica retorica che mirava a fare di un immaginario riconoscibile per uno specifico gruppo di persone qualcosa di originario, di propriamente umano. Le autenticità analizzate da Lipovetsky hanno invece a che fare con un’etica che identifica un valore irrinunciabile nella fedeltà verso sé stessi e/o nella realizzazione di sé (“e” se la realizzazione si accorda, “o” se contrasta con quel sé). Il problema dell’autenticità, sia in ambito documentale che etico, ha a che fare con la non coincidenza: fra la persona empirica e ciò che questa vorrebbe essere, fra realtà e rappresentazione, fra il vissuto interno e i modi in cui si esprime. Indipendentemente dal fatto che la marca di maggiore autenticità venga posta su un polo o su un altro, e che, venendo alla letteratura, l* autor* si votino all’autenticità per mezzo delle loro opere, si tratta sempre di posizionamenti paratestuali. Il contenuto di verità di queste dichiarazioni è in gran parte inverificabile, e il loro potere è quello di modificare il modo in cui le opere vengono recepite, ossia quello che ci fanno. Nel mondo non giuridico della letteratura il desiderio (o la pretesa) di autenticità tradiscono quello di essere presi sul serio, di essere ricevuti con un grado ridotto di riserve, di dire qualcosa di rilevante nel mondo extraletterario, di essere perdonati della finzione, traghettati nel vissuto altrui tramite un innesto fruttuoso, corrispondente non tanto nei contenuti generati in chi ci riceve, ma nei suoi effetti e nella sua intensità.

 

In letteratura l’onestà – come il tema della “poesia onesta” caro a Umberto Saba – può andare di pari passo con il valore estetico? 

 

Il concetto di autenticità rimane una rivendicazione difficile da dimostrare, anche quando viene interpretato come onestà. Saba, nel suo famoso saggio, descrive questa onestà come una coincidenza tra la poesia e la verità sapienziale e biografica che l’autore trasmette. In un contributo apparso qualche anno fa su Nazione Indiana, Umberto Fiori si è domandato chi potrebbe mai verificarla, questa onestà del poeta, riducendola ad una affascinante professione di fede. Jacopo Galavotti è andato oltre, ripercorrendo nella sua tesi di laurea la critica variantistica dedicata all’autore («Un lavoro non breve e non facile» Itinerari variantistici nel Canzoniere 1921 di Umberto Saba) e mostrando come l’ossessione di Saba per l’onestà e archetipicità dei componimenti abbia determinato la necessità di occultare, ridimensionare o mitizzare gli interventi sui testi nella composizione del Canzoniere. Stando alla prefazione del Saba compilatore del Canzoniere del 1921, ad esempio, questi sarebbe “più onesto” dei Saba passati, e disposto a zelanti operazioni di recupero mnemonico dei testi in una versione archetipica e originale (testi avviati anche venti anni prima). Come si può immaginare, Galavotti argomenta e documenta quanto la pretesa sabiana sia dubbia: non solo la biografia romanzata del Canzoniere aspira a un’esemplarità che male si accorda a un’esigenza di onestà in senso forte, ma sono anche la struttura e ampiezza dell’opera a imporre delle logiche di equalizzazione, nella direzione di coerenza ed efficacia macrotestuale. Saba aveva insomma un ideale d’onestà e un progetto d’opera, e questo progetto non era innocente, anzi: necessitava di creare miti e finzioni per salvare, nei riceventi, il mito-finzione dell’ideale stesso. Bisognerebbe quindi indagare la possibilità stessa dell’onestà in letteratura al di fuori delle dichiarazioni di poetica, prima della sua compatibilità con una buona riuscita estetica.

 

Il discorso sulla verità e sull’autenticità sembra essere tornato in auge, specialmente nel romanzo e in quel segmento della narrativa che corrisponde all’autofiction. Se torniamo per un attimo alla stagione del neorealismo, troviamo scrittrici come Elsa Morante per la quale il romanzo realista parlava di una “verità poetica”, non meramente oggettiva, ma intrinseca alla trasfigurazione letteraria. Nell’autofiction odierna, come in alcuni dei romanzi autobiografici di Annie Ernaux, sembra non esserci né l’intento di problematizzare davvero il parlare di sé in modo autentico, né di cercare una “verità poetica”. E come si posiziona la poesia in questo contesto? Mancano delle riflessioni? Ve ne sono troppe? Occorrerebbe postularne altre?

 

Quello che sto cercando di far emergere è che l’autenticità è prima di tutto una percezione, e può quindi essere indotta, simulata e influenzata non solo dalle opere, ma anche dal mondo che le circonda, e dal variare dei riceventi. Vogliamo chiamare questa percezione “verità poetica”? D’accordo, a patto che non si monti troppo la testa. Affermare di parlare di sé in modo autentico è, a maggior ragione nel caso dell’autofiction e dei libri di Annie Ernaux, una finzione funzionale alla ricezione, un invito a fare come se fosse così. Walter Siti, evocato nella prima domanda, non parla esattamente di impossibilità del realismo, ma della specifica natura di ogni realismo finzionale, del suo carattere mediato, fabbricato e illusorio. Questo non significa che alla percezione di realismo (autenticità, onestà…) si debba fare un processo, o che sia preferibile portare di fronte a* lettor* una finzione che indossi costantemente un cartellino con su scritto “finzione”. Significa, piuttosto, ridimensionare la pretesa conoscitiva della letteratura, o di rovesciarla: non si tratterebbe dunque di considerare la letteratura autentica (reale, onesta…) come il luogo effettivo dell’autenticità, ma  come un mezzo per scoprire le rappresentazioni in cui siamo disposti a credere, le gerarchie e i valori che emergono dalle nostre percezioni. Se, come credo, la percezione di autenticità dice molto di più su chi riceve che su quello che è stato significato, le poetiche dell’onestà (realismo, autenticità…) servano innanzitutto a farsi accettare, e sono lo specchio dell’angoscia derivante dall’inverificabilità della letteratura. L’accusa di inautenticità che Saba rivolge a D’Annunzio rivela molto di più su Saba stesso che su D’Annunzio, e può essere analizzata da una prospettiva sociale, culturale e politica. Quello che vale per la letteratura, credo, vale anche per la poesia, che oggi non mi sembra separabile da essa facendo appello alle preferenze pronominali o all’istituto metrico. Sinceramente, penso che la poesia non richieda una riflessione sull’autenticità. Piuttosto, dovremmo focalizzarci su ciò che desideriamo ottenere attraverso le nostre scritture e come queste influenzano chi le legge.

 

Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?

 

Per me la scrittura è la progettazione di un’esperienza percettiva: sono, in questo senso, un influencer. Considero l’opera come un dispositivo profanabile, originato dalla dialettica fra l’idea archetipica di opera d’arte totale wagneriana, che tratta il ricevente come un topo di laboratorio a cui indurre una serie di allucinazioni, e il suo doppio antagonista che Brecht ha realizzato con il teatro. Nel teatro Brecht cerca infatti di ricordare costantemente a chi osserva che il mondo fabbricato dell’opera è costruito, e mira ad avere controllo su di noi, e lo fa, paradossalmente, proprio grazie alla cornice del suo mondo, all’influenza della sua opera. A differenza di Brecht, credo che l’illusione generata dall’opera, che spesso abbassa le difese del ricevente, possa essere smascherata e rifiutata a posteriori. Sarà proprio il wagneriano di ferro Nietzsche, infatti, a voltare più fortemente le spalle all’inganno, e lo farà tramite una riflessione a posteriori su quello che ha visto e sentito. Allo stesso tempo, sono scettico riguardo alla capacità di un’opera di rivolgersi contro sé stessa senza stabilire una nuova cornice, un nuovo patto o un nuovo progetto di influenza. Ecco che un’opera, nel suo darsi, può rendere possibile l’esperienza del soggiogamento, dell’essere governati nell’accondiscendenza, nel rifiuto o nella devozione. Un’opera offre un’educazione al potere: l’azione del suo dispositivo può anche far leva sulla percezione di autenticità, ma questa rappresenta soltanto una delle applicazioni possibili del potere.

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