di Valentina Cabiale

 

“Questo non è un manuale di archeologia”, esordisce Daniele Manacorda nel volumetto Triangolo virtuoso. Tre parole chiave per l’archeologia (Carocci Editore, 2024) ma piuttosto il tentativo di “semplificare la visione concettuale che sta dietro a ogni ricerca tipicamente archeologica, cioè applicata a un oggetto materiale di qualunque epoca e riferibile a qualunque cultura del mondo e al contesto spaziale al quale apparteneva (o appartiene)”.

I vertici del triangolo concettuale sono i tre paradigmi alla base dell’archeologia moderna, di cui già si parla in tanti manuali citati dall’autore, paradigmi che uno studente di archeologia o un archeologo conosce (o dovrebbe conoscere) a colpo sicuro: la stratigrafia (il contesto ovvero la materializzazione dell’incrocio spazio-tempo in cui ogni cosa è calata), la tecnologia (la base materiale di ogni oggetto o traccia, che ne condiziona forma e funzione; la tecnologia è variabile nel tempo e nelle geografie e da essa discenda anche la denominazione di tanti periodi storici o pre-storici: Età della Pietra, dei Metalli, ecc); la tipologia (che deriva dal rapporto tra forma e funzione e informa della cronologia; le famose classificazioni degli archeologi, che a volte sfiorano il virtuosismo, sono “astrazioni analiticamente prodotte dalla capacità umana di passare dal particolare all’universale”, e ogni tipologia “non può mai essere ritenuta definitiva: è infatti per definizione provvisoria e perfettibile”).

 

Questi tre paradigmi, nei loro rapporti reciproci e con altri elementi quali l’iconografia e lo stile, sono applicati alla lettura degli oggetti e delle tracce materiali più o meno antiche e ci aiutano a intepretare un oggetto, vedere l’invisibile e lo scomparso. Certo, c’è sempre il rischio, e per certi versi la necessità, di inventare, di produrre teorie e ricostruzioni che probabilmente non corrispondono al reale, eppure “non rinunciamo alla speranza di poterci avvicinare per quanto possibile all’umanità di un mondo per tanti versi inattingibile: cioè alla speranza di fotografare aspetti di una realtà materiale così come la percepiva chi l’aveva prodotta”.

Di diverso nel libro di Manacorda, rispetto ad altri, sembra esserci la consapevolezza dell’invenzione; del gioco che l’archeologia costituisce. Forse lo dice sommessammente, nel primo capitolo intitolato “Che cosa è (o può essere) l’archeologia”: che l’archeologia è in fondo (lui non dice proprio così, parafraso magari tradendo) un gioco fantastico per innescare continui cortocircuiti, per stimolare e aizzare riemersioni del tempo dal sottosuolo come zombie o tremendi vermoni alla Tremors.

 

Nella follia di recuperare e documentare meticolosamente le tracce del passato che riemergono più o meno inaspettate – o temute, durante i lavori pubblici (destando tanti contrasti in fondo comprensibili nell’opinione pubblica) – o nell’andarle a cercare in un progetto di archeologia programmata, si cerca di porre rimedio alla memoria storica monca e sempre fallimentare (almeno quanto quella individuale). Abbiamo dimenticato tantissimo, anche delle epoche recenti, tanto che dopo qualche generazione quello che è stato buttato, è diventato immondizia, è crollato, è stato abbandonato (e ci sarà pure stato un motivo, no? Se i nostri predecessori non hanno avuto cura) ora sembra almeno a una parte di noi degno di essere rimesso in circolo, nel nostro tempo, nei nostri spazi abitati, nei magazzini dei musei e delle Soprintendenze. È un gioco pericoloso, fragile, indubbiamente discutibile. L’unico però che riusciamo a fare per dare un senso alla persistenza degli spazi e delle cose, mentre il tempo cambia.

 

L’epoca dell’antiquaria, del collezionismo, è irrimediabilmente passata (chissà), come forse lo è l’epoca dei signori (in prevalenza maschi) che nel tempo libero facevano gli archeologi dilettanti riempimendo pagine di diari e disegni e note, e valigie di oggetti. L’epoca dei tombaroli no, non è passata, perché quella va di paro passo con i collezionisti, privati e istituzionalizzati, e con quella visione estetica dell’archeologia che ancora esiste nonostante le epoche siano cambiate (anche questa è una forma di persistenza della scenografia nell’evolversi dei tempi). In qualche modo persistono pure i maschi (bianchi, morti o vivi che siano): nella bibliografia di Manacorda, e non è certo una colpa dell’autore però è una constatazione che deve sorprendere, sono citati in netta prevalenza uomini; la falla è nel sistema della produzione della ricerca, come bene spiega Alice Borgna in Tutte storie di maschi bianchi morti… (Laterza 2022) riferendosi in quel caso agli studi classici in genere.

 

Ma quello che non si può non notare se ci si accosta all’archeologia contemporanea – quella vera, non al suo alter ego di cartone (l’antiquaria dell’oggi, le scoperte sensazionali, le piccole Pompei, la retorica della meraviglia) – è la complessità del passato che viene ricostruito e continuamente rimesso in discussione. Manacorda nella premessa ricorda che  “La conoscenza è il prodotto di un lungo lavoro di attribuzione di senso alle cose, dal boccone di pane che ci sfama fino al cielo stellato che ci guida o ci ispira. La sua finalità è dare alle cose un valore, perché la valorizzazione del passato, comunque la si pratichi e a qualunque scenario si applichi, è anch’essa una lunga restituzione di senso, che agisce nell’attualità, mai definitiva.”

L’archeologia resuscitando i luoghi del passato e creando cortocircuiti allarga enormemente lo sguardo delle nostre vite, rendendo meno distratta la quotidianità e arricchendola delle vite degli altri, quantomeno nella forma di una narrazione dove il convitato di pietra è la durata temporale, sempre invisibile. Se gli antichi fossero vissuti su Marte, il gioco sarebbe meno interessante e non così coinvolgente. Ma sono vissuti qui, nello spazio che ancora persiste. La necessità di costruire lo spazio del passato – che molti di noi sentono, non certo tutti – è l’unico modo di allargare il nostro. È fare spazio. Ma è un’operazione terribilmente complessa, mai finita, mutevole. Proprio perché ci siamo dimenticati tutto, nella scoperta del passato – ovvero nella sua invenzione – abbiamo molte possibilità di manovra, le prove materiali saranno sempre tanto esigue da consentire più di una interpretazione.

 

Il libro di Manacorda, una volta finito, vien voglia di rileggerlo. Perché forse non lo si è capito fino in fondo, forse qualcosa non è stato spiegato bene, ci siamo destabilizzati o avremmo preferito esserlo di più. Forse vorremmo sentirci dire che l’archeologia è una pratica contronatura e bisogna proprio essere svitati per usarla come strumento di retorica della bellezza e di riscoperta identitaria. Perché se lo spazio persiste, è invece evidente che le persone cambiano del tutto. Ci aiutano a capirlo casi celebri come quello dei Bronzi di Riace, che l’autore ha studiato. I Bronzi probabilmente non finirono in mare a causa del naufragio di una nave (resti del relitto non sono mai stati trovati) ma furono sepolti in terra, quando la linea di costa era molto più avanzata rispetto all’attuale. E questo spiegherebbe anche il percorso di una processione che ancora si fa, con le statue dei santi Cosma e Damiano, dal centro di Riace sino al mare, dove la linea della costa finisce. Nella memoria del luogo e nel folklore popolare religioso, al culto pagano dei Dioscuri (che i due bronzi nella fase finale del loro utilizzo dovrebbero appunto rappresentare) si è sovrapposto quello dei due santi. In questa archeologia che, come ribadisce l’autore, o è diacronica o non è, il concetto di passato (mai singolo) è ambiguo e le sue tracce devono essere sempre riportate “al nostro presente, al modo di vedere le cose di noi, che saremo un giorno il passato di un futuro che non possiamo vedere, ma che studierà le nostre tracce alla luce della virtù di un triangolo che il nostro tempo ha saputo costruire”

 

Che le studierà, a dire il vero non lo sappiamo.

E saprà farlo con rispetto per la complessità, con un po’ di sano timore come verso tutto quello che non si capisce? Vivere il passato senza cercare di renderlo attuale e presentizzarlo, è il richiamo del saggio Gioventù degli antenati. Il rinascimento è uno zombie (Einaudi, 2024) di Alessandro Giammei, che non è archeologo come Manacorda ma professore di letteratura italiana alla Yale University. Il passato, sostiene Giammei, a volte è uno zombie. Certi passati, però, più di altri. Il Rinascimento, in primis. Ma anche, viene da aggiungere, l’antichità classica e in alternativa e a ruota – a seconda del momento –  altre antichità (l’Egitto, gli Etruschi). Ci illudiamo dell’attualità del passato e di avere una parentela dinastica con i nostri antenati. Ma è una pretesa arrogante perché non si eredita per diritto, per sangue, ma solo esercitando una forma di memoria (un atto creativo) che nasce da un reale desiderio di conoscenza. Non si conserva ma si reinventa sempre (la tradizione, il passato). Bisognerebbe ripetersi come un mantra che l’attualità del passato è un malinteso e l’eredità non è uno specchio nel quale trovare conferme alla propria identità. “Le radici culturali da cui diciamo di discendere, e da cui pretendiamo discenda il mondo storto che abitiamo, non sono le nostre ma abbiamo un bisogno disperato di crederlo”, ha scritto Andrea Marcolongo in un curioso libro a seguito di una notte passata nel Museo dell’Acropoli di Atene (Spostare la luna dall’orbita. Una notte al Museo dell’Acropoli, Einaudi 2023). Il concetto di eredità è uno dei più tristemente abusati dalla politica e da un mainstream culturale che si pone riconoscente e ammirato verso l’antichità.

 

Giammei punta il dito contro i meccanismi di una politica culturale fascista che tende a presentificare il passato considerato nostro: una pratica necrofila invece che “filologica, prospettica, relazionale”. Gli zombie sono i manifestanti, a volte con ingombrante materialità, di questo passato a cui ci appelliamo. Mentre i rinascimentali, a differenza di noi, non si sono appropriati dei loro zombie, quelli dell’antichità classica, presentificandoli. Li hanno trattati come ospiti, con tecniche di necromanzia; come morti affascinanti, come il ‘cadavere’ di una fanciulla ritrovato sulla via Appia nel 1485: ancora perfettamente conservato, con lunghi capelli neri raccolti in una reticella di seta e che in un solo giorno circa 20.000 persone andarono a guardare prima che venisse trafugato e scomparisse (ma non dall’immaginario). I rinascimentali non hanno aspirato ad essere custodi ed eredi ma interlocutori, nello stesso spazio. In questo modo quel passato con cui si dialoga resta giovane ma certo non simile a noi – cosa che di per sé non è una virtù.

 

Nella lettera (1519) indirizzata a Papa Leone X, Raffaello proponeva un progetto, dopo secoli di decadenza e di razzia: quello di catalogare l’urbanistica romana, per avere un esempio a cui ispirarsi in architettura. Non tanto per conservare. La lettera non sarà mai spedita, a causa della morte prematura del pittore. Raffaello il passato, quello che amava, l’aveva già inventato dieci anni prima, affrescando la Scuola di Atene nelle sale vaticane. Le grandi menti della classicità che passeggiano insieme in quello che Atene significava al tempo di Raffaello. Quello che sperava, scrivendo al papa, era di studiare e creare una Roma altrettanto virtuale, astratta, una memoria ricostruita. Come virtuali sono i passati presentati nei videogiochi (Lara Croft, Assassin’s Creed), nel cinema (Il Gladiatore), nell’arte (Piranesi). I volti della Scuola di Atene sono quelli dei colleghi di Raffaello, che non rivendica diritti di sangue o parentele. “Il miracolo di Raffaello è quello di aver concepito una forma di parentela del tutto alternativa a quella genetica: un’identificazione, più che un’identità. Un legame d’amore invece che di sangue.”

 

Del passato si è autori; lo si costruisce virtualmente e lo si visita. Giammei scrive “Il passato è un prodotto dei tempi successivi, e non il contrario”, proponendo una visione concettuale simile a quella di Manacorda.

Un esempio di quanto il passato sia un prodotto dei tempi successivi, e camufatto benissimo, è la piazza del Campidoglio a Roma: concepita da Michelangelo, ma di lunghissima elaborazione. Il pavimento, quello sul retro delle monete da 50 centesimi, comparve solo nel 1940 e fu un risultato dell’urbanistica, e quindi anche della propaganda, fascista. Eppure l’eredità passa dai disegni di Michelangelo, da chi quella piazza l’ha immaginata. La retorica fascista si è appropriata della romanità e del Rinascimento, non è certo una novità (sull’archeologia di quegli anni D. Manacorda, R. Tamassia, Il piccone del regime, Armando Curcio 1985). Ma forse percepiamo meno quanto il fascismo sia radicato nella cultura materiale, oltre che negli atteggiamenti e nei pensieri di una parte consistente della società italiana. Non è necessaria, sarebbe anzi dannosa, una cancel culture che estirpi questa materialità scomoda (di cui d’altra parte per lo più non ci accorgiamo); ma una cultura in grado di leggere senza ingenuità la stratificazione dei segni.

 

E quando Giammei dice che un approccio filologico alle eredità del passato è forse l’unico modo per parlare con i morti, verrebbe voglia di sostituire quell’aggettivo con ‘archeologico’, perché l’archeologia a buon diritto è includibile nelle arti necromantiche, insieme alla curatela, alla traduzione, all’interpretazione. L’archeologia dovrebbe essere un antidoto al feticismo degli antenati invece che un nutrimento. Fascista – ma forse bisognerebbe usare un termine diverso, non così radicato in una precisa età storica? – è invece secondo Giammei ogni approccio che tenta di far dire ai morti quello che desideriamo dicano: così da vedere sempre quello che vogliamo vedere, non percependo la massa ingombrante del sé (come Narciso, il cui dramma consiste nel non vedere l’altro, piuttosto che nell’innamorarsi di sé).

 

“Per dialogare con i morti”, rispose un collega a Manacorda alla domanda “Perché fai l’archeologo?”. E Giammei propone come attitudine sana al passato quella di Macchiavelli, descritta nella lettera a Francesco Vettore dopo essere stato bandito da Firenze, che fa esattamente questo. Dopo una giornata di lavoro manuale, Macchiavelli ritornava a casa, si cambiava d’abito e si immergeva nelle letture, nello studio del passato, “nelle antique corti degli antiqui huomini” (un altro ambiente virtuale). Parlava con loro, domandava il perché delle loro azioni e a quel punto, scrive, “tutto mi trasferisco in loro”, che è cosa ben diversa dai travestimenti e dalle attualizzazioni. È andare ospiti nel passato. Questo è ciò che ha fatto il Rinascimento, non un rifacimento dell’antichità a propria immagine e somiglianza ma una traduzione. Ne ha ottenuto risposte per pensare il futuro. È quel porre domande agli antichi che ci rende eredi, non l’essere italiani.

 

Ci sarebbe molto altro su cui interrogarsi: ad esempio, perché viaggiamo in certi tempi e non in altri (l’archeologia è diacronica o non è, eppure c’è sempre un passato che sembra avere più valore di un altro). Ma che le radici si inventano piuttosto che riscoprirle o disotterrarle; che il passato che è in noi, per amore e per cultura, è sempre una costruzione virtuale applicata alla ricerca di un futuro o è privo di senso; che una disciplina necromantica ha un carattere riflessivo, soggettivo, critico: queste dovrebbero essere le basi di ogni accostarsi, prudente e gentile, ai nostri antenati.

 

Daniele Manacorda, Triangolo virtuoso. Tre parole chiave per l’archeologia, Carocci Editore, 2024

Alessandro Giammei, Gioventù degli antenati. Il rinascimento è uno zombie, Einaudi, 2024

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