di Claudio Bellinzona
A partire dal grande trauma della Nakba (“catastrofe”) e, dunque, con il progressivo consolidamento di una conflittualità perpetua, la storia dell’arte palestinese si è sviluppata nel solco di quella che possiamo definire una condizione di (in)consapevole lacerazione tra raffigurazione e resistenza. Il conflitto genera, anzitutto, mostri. E, per antonomasia, i mostri sono contraddizioni dell’umano, prodigi aberranti e paradossi, anomalie scaturite dalla complessità delle nostre esistenze. Se poi il conflitto sfocia in guerra, o comunque in un’occupazione esercitata da generazioni, il sentimento di oppressione cementa l’immaginario di un popolo e dei suoi profughi. D’altra parte, è altrettanto chiaro che l’arte non possa essere analizzata troppo facilmente nel suo insieme, al massimo come differenti corpora o individualità somiglianti perché caratterizzate da una medesima condizione. Nel contesto, casomai, possiamo intravedere o interpretare i possibili significati di un segno o un’espressione, la loro dimensione storica, la compenetrazione dell’io nel materiale plastico dell’esperienza sociale e politica. Perché, se anche volessimo circoscrivere tutto al singolo, sarebbe arduo eludere il tema delle circostanze, il quadro complessivo di una situazione a dir poco sciagurata. Come sarebbe possibile, per esempio, leggere l’arte palestinese senza considerare il tema dell’espropriazione o dell’occupazione, o senza toccare questioni come l’abbandono, il dislocamento, l’appartenenza e l’emancipazione?
La rappresentazione di un trauma, così come la sua simbolizzazione attraverso l’arte, sono aspetti che la storia dell’umanità conosce già molto bene. Non esistono guerre che non abbiano determinato un qualche tipo di sintesi attraverso l’invenzione artistica: il racconto cubista della strage di Guernica, certo immaginario chagalliano, Otto Dix, Henry Moore, George Grosz, solo per citarne alcuni, che loro malgrado hanno interpretato le grandi tragedie della prima metà del ‘900. In questa prospettiva, come ha sottolineato l’artista Larissa Sansour in un articolo sul rapporto fra arte e conflitto (Art and Conflict, Royal College of Art, 2014) è “interessante come la Palestina funzioni specificamente come un microcosmo delle paure dell’umanità riguardo al futuro, la nostra angoscia per l’ignoto e la sfiducia verso ciò che sta determinando la nostra eterna ricerca di progresso”. Un microcosmo di 6.400 km² (se mettiamo insieme Cisgiordania e Striscia di Gaza) con una popolazione complessiva che supera a malapena i 5 milioni e dove – da oltre 75 anni – l’umanità sperimenta, con reiterata distrazione, l’assurdità del masso di Sisifo.
La prima generazione di artisti post-Nakba ha visto la presenza di figure che oggi possiamo considerare il primo tassello di una specie di canone dell’assenza e della difformità. Ciò che la narrativa del Sionismo tradizionale chiamava, con ipocrisia propagandistica, “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, diventava invece metafora definitiva (e definitoria) di alienazione e contese parossistiche. Fra questi, nomi come Ibrahim Ghannam (1930-1984) e Ismail Shammout (1930-2006), considerati da molti fra i capostipiti dell’arte palestinese, Karim Dabbah (1937–2021), Nabil Anani (1943), Vera Tamari (1945), Sliman Mansour (1948) e Tayseer Barakat (1959), intrapresero un percorso incentrato sull’elevazione di alcune figure fondative di una nuova rappresentazione estetica – il contadino (fellah), il rifugiato (lagi’) e il combattente per la libertà (fida’i) – e sulla riappropriazione di simboli identitari (ulivi, paesaggi ancestrali, colombe, ricamature), nel tentativo di controbilanciare gli effetti di quello che il più importante scrittore palestinese, Mahmoud Darwish (1941-2008), definì lo sradicamento continuo.
Dopo il 1948 – spiegava lo stesso Nabil Anani in un’intervista di qualche anno fa -, “i simboli hanno assunto un ruolo prominente nell’arte palestinese. Per esempio, molti artisti hanno iniziato a dipingere dei cactus come simbolo dei villaggi palestinesi distrutti perché la pianta era comunemente usata come recinzione nei villaggi. Hanno dipinto colombe come simbolo di pace. Pugni di ferro e filo spinato come simboli di prigionia. Hanno dipinto donne con l’abito tradizionale come simbolo di riaffermazione dell’identità nazionale.”
Per questi artisti la questione principale era la necessità di definirsi e autorappresentarsi. L’urgenza di esserci intanto per sé stessi e al di fuori della propria storia di subordinazione (ottomana, egiziana, britannica). Con loro nasce e si rafforza anche uno spirito collettivo e più esplicitamente politico. Mansour e Anani lanciano nel 1973 la Lega degli Artisti Palestinesi, un’iniziativa collettiva che coinvolse anche artisti della diaspora e impegnata nell’allestimento di mostre non autorizzate presso scuole e biblioteche. Considerati l’intento intrinsecamente politico e l’elevata partecipazione, le autorità israeliane imposero presto la censura militare confiscando le opere o vietando le immagine più esplicite e l’uso combinato dei colori della bandiera palestinese.
In quegli stessi anni, si consolida un altro interessante fenomeno: quello della produzione di manifesti, ancora oggi portata avanti dai principali attori della protesta. Un medium come quello del poster, infatti, rappresentava una sintesi eccezionale tra le arti figurative e le tecniche della riproducibilità di massa, aumentando così la permeabilità dei messaggi di liberazione nella società locale, spesso anche a diretto supporto di Fatah o degli altri membri dell’OLP, nonché moltiplicando la visibilità e il supporto a livello internazionale (una mostra sull’argomento, fatta a Londra nel 2014, era stata intitolata The World Is with Us). Tra i primi a dare il proprio contributo, a partire dalla fine degli anni ‘60, si ricordano pittori e scultori come Samer Salameh (1944-2018), Mona Saudi (1945-2022) e Kamal Boullata (1942-2019), che diventeranno fondamentali per la costruzione di una “narrazione palestinese”, anche per la notorietà internazionale che avrebbero raggiunto in seguito. Per la natura stessa dello strumento e l’esplicita funzione propagandistica, le immagini tendono in questi casi a cristallizzarsi in un mescolamento di slogan (“Rivoluzione fino alla vittoria”, “Palestina: una patria negata”), icone e simboli, a volte ancora oggi esibiti nel materiale di lotta contro l’occupazione e fatti propri dall’immaginario collettivo popolare.
Se queste fasi sono caratterizzate da un percorso di formazione militante, oltremodo sostenuta dagli afflati del laicismo pan-arabo e del socialismo internazionalista, con il sopraggiungere della prima Intifada (1987) molti artisti intraprendono la strada del boicottaggio come forma di resistenza, e in particolare verso qualsiasi materiale artistico proveniente da Israele. Come spiega Silman Mansour, “insieme a Vera Tamari, Nabil Anani e Tayseer Barakat, formammo un gruppo e lo chiamammo Nuove Visioni. L’idea era quella di usare solo materiali come legno, cuoio, fango, henné, coloranti naturali e persino oggetti smarriti.” Né l’atto né il (possibile) significato dell’opera riescono più a delineare il perimetro dell’espressione, ma la stessa creazione-manufatto attraverso la materia che la compone, come se l’opera diventasse anche corpo e, dunque, con una consapevolezza rinnovata e più libera grazie all’apertura verso astrazione e sperimentalità.
Con i Trattati di Oslo (1993), la prospettiva cambia. Quello che quasi tutti i media internazionali presentano come uno storico accordo di pace, in realtà non convince la maggioranza del popolo palestinese. Ancora troppo eclatante è il disequilibrio tra le parti e l’impossibilità di ipotizzare forme di reale autonomia e riconoscimento. Questo profondo scetticismo, che in molti finisce per trasformarsi in disillusione e sfiducia, porta così diversi artisti a criticare l’esperienza dei Trattati attraverso l’adozione di proposte concettuali e l’utilizzo di pratiche compiutamente postmoderne giocate sul filo dello scetticismo e dell’ironia. Anche nel più fluido contesto della diaspora, molte di queste esperienze artistiche fronteggiano conflitti e contraddizioni attraverso lavori di profondo spaesamento. L’asseverazione identitaria, la dimensione politica e la costruzione di una costellazione simbolica non sembrano più costituire i perni del ragionamento. Anzi, questi aspetti sembrano gradualmente sfaldarsi di fronte alla confusione di fine millennio. Un sentimento generale di irredimibile delusione, unito a una visione del ruolo dell’artista ormai compiutamente post-moderna, contribuiscono a delineare scenari in cui si mescolano media e tecniche, quasi sempre molto diversi tra loro, dai quali emergono nuovi e nuovissimi nomi di grande interesse. Mona Hatoum (1952) con il suo Present Tense, opera del 1996 (Collezione Tate), crea una mappa dei confini previsti dai Trattati con dei blocchi di sapone di olio d’oliva da cui emergono i territori che avrebbero dovuto essere restituiti all’Autorità Palestinese. Un’installazione come Philistine (1997) di Khalil Rabah (1961) espone un dizionario Oxford della lingua inglese sulle cui pagine sono conficcati dei chiodi che lasciano visibile solo la definizione di “Filisteo”, che in quella lingua significa sia antico abitante della Palestina sia individuo rozzo e selvaggio.
Al volgere del nuovo millennio, il tramonto delle speranze appare sempre più evidente. Un susseguirsi di accadimenti esiziali che ricadono l’uno sull’altro come in un lungo effetto domino: l’assassinio di Rabin, il progressivo smarrimento della rappresentanza dei movimenti afferenti all’OLP, la crisi globale post 11 settembre, la seconda intifada, la morte di Arafat, l’acuirsi delle tensioni a Gerusalemme Est, la progressiva costruzione del muro, l’isolamento di Gaza, l’avanzare pauroso di Hamas. Di fronte a tutto questo, all’inquietudine di un’esistenza alla ricerca di sé stessa, l’arte ha continuato a decifrare la vita ed elaborare ipotesi (Giampiero Neri parlava di “poesia come ipotesi”). Nuove generazioni si inseriscono lungo questo cammino e lo fanno con rinnovata consapevolezza e, in alcuni casi, anche con la spinta di alcune iniziative capaci di dare ulteriore rilievo e risonanza internazionale. A dare una mano c’è anche Banksy, che dopo un viaggio nel 2005 decide di dedicare alla causa palestinese risorse e attenzione, sia con la realizzazione di alcuni graffiti dipinti sul “muro della segregazione” (a Ramallah, a Betlemme e altri punti) in cui spesso compaiono squarci di un immaginario impossibile (uno scorcio di mare, un paesaggio alpino tra due poltrone, una scala o il segnale di un ritaglio) sia con iniziative permanenti come il celebre Walled Off Hotel, la cui veduta panoramica è proprio il cemento impassibile di quel vergognoso divisorio, già condannato dalla Corte dell’Aja e attualmente lungo più di 500 km su un confine interno di circa 200. Negli ultimi due decenni proprio il muro ha assunto il ruolo di simbolo inequivocabile: cesura tangibile della separazione, scandalo perpendicolare dell’incomprensione. Il muro, e ciò che si cela oltrepassati i posti di blocco dell’esercito israeliano, diventano il paesaggio – paradossale ma paradigmatico – dell’essere palestinese, una distopia – reale e realizzata – che il segno artistico può solo provare a disvelare. Khaled Hourani (1965), una delle figure più prominenti dell’ultimo ventennio nonché geniale inventore della watermelon flag, ha spesso adottato l’ironia come forma di resistenza. I suoi bambini, sorridenti e colorati, saltano il muro come si farebbe con una siepe, confermando quello che Chrisoula Lionis ha spiegato bene in un libro del 2016 dedicato alla capacità di ridere nella disgrazia, intitolato Laughter in Occupied Palestine. Raeda Saadeh (1977), fotografa e performer, ha lavorato invece immortalando sé stessa mentre lavora all’uncinetto tra le macerie o tira con una corda il muro come se lo stesse spostando. Alaa Albaba (1984) realizza vedute aeree dei campi profughi con colori sgargianti, trasformandoli così in peculiari panorami dello spirito. Nei suoi quadri non compaiono esseri umani, a volte solo dei pesci screziati e dall’occhio vitreo, metafora ineluttabile di una resistenza muta dentro le reti della mattanza. Sarà mai possibile raggiungere la libertà?
Oggi questa domanda diventa non tanto improbabile quanto talmente obliqua da attraversare la carne e il pensiero della nostra presunta civiltà. Di fronte alla violenza diffusa, alla morte di innocenti, all’imperituro conflitto, l’arte non sembra consolare nemmeno l’intelletto. Eppure, mai come ora, proprio l’atto artistico e l’immaginifica forza evocativa dell’arte assumono il ruolo di strumento essenziale per un vero confronto sulle inquietudini e lacerazioni umane, magari attraverso nuove forme di dirottamento – una sorta di nuovo détournement debordiano – che possano allontanarci da un “senno” sempre più soggiogato da forme subdole di potere come interessi finanziari, sorveglianza e deterrenza militare.
*
Intervista a Rana Anani
di Claudio Bellinzona
Rana Anani è una scrittrice e ricercatrice nel campo delle arti visive. È stata responsabile della comunicazione del Museo Palestinese, coordinatrice del Padiglione Palestinese al Festival di Cannes e Associate Curator del progetto “Shifting Grounds” a Ramallah. Attualmente, è ricercatrice presso l’Istituto di Studi Palestinesi (www.palestine-studies.org).
In un tuo recente articolo (Gaza: Il tentativo visivo che sfida l’essere ridotti al silenzio), scrivi che gli artisti palestinesi non hanno smesso di cercare, anche negli ultimi anni, un linguaggio visivo comune per esprimere le loro idee e spiegare la causa della liberazione. Come si colloca storicamente questa visione comune? Esiste un’Arte Palestinese che emerge dal conflitto, e dunque un modello necessariamente politico?
Sicuramente non esiste un genere distinto di “arte di liberazione” che possiamo definire in quanto tale. Tuttavia, già nei primi anni di fondazione dell’OLP, ovvero a partire dal 1964 e almeno per tutto il decennio successivo, molti artisti da tutto il mondo – Palestinesi e arabi, in particolare – hanno sostenuto quel movimento. Disegnavano frequentemente manifesti a sostegno della liberazione e molti di quei manifesti erano in realtà dipinti. Negli ultimi anni, e soprattutto dopo gli accordi di Oslo, molti artisti palestinesi hanno realizzato progetti artistici critici nei confronti dei trattati, riconoscendo che quell’esperienza in realtà non rappresentava una vera pace, ma solo un’iniziativa di ulteriore confisca e nuove restrizioni di movimento. La politica, dunque, è un elemento inseparabile per l’arte palestinese. Anche l’arte che sembra apolitica è in realtà profondamente politica. Un esempio potrebbero essere i paesaggi di Nabil Anani perché presentano una Palestina utopica attraverso la cosciente omissione di tutti i segni di occupazione. Storicamente, almeno fino ai primi anni ‘70, gli artisti palestinesi non hanno mai formato un corpo unito. La necessità di unirsi è nata inizialmente per ragioni professionali, ma è presto diventata politica e proprio perché tutto era politico. Gli artisti usavano o costruivano simboli per enfatizzare la propria identità di Palestinesi che vedevano minacciata dopo le occupazioni del 1967. Al contrario, gli artisti della diaspora hanno adottato un approccio molto diverso, cercando per esempio un dialogo con il pubblico occidentale.
Nonostante la grande attenzione della critica verso i temi della “decolonizzazione” e del “postcolonialismo”, hai recentemente sollevato preoccupazioni riguardo ai numerosi casi di censura ed esclusione da parte di alcune istituzioni occidentali che colpiscono gli artisti palestinesi. A un’artista di straordinaria rilevanza come Samia Halaby, per altro naturalizzata americana, è stata improvvisamente annullata una mostra presso l’Università dell’Indiana. Quali sono i rischi associati a questa tendenza? Stiamo assistendo alla marginalizzazione dell’arte palestinese e a una limitazione della libertà di espressione?
Sono assolutamente d’accordo che questa sia una tendenza preoccupante perché significa censurare la narrazione di una comunità oppressa e, purtroppo, i livelli che sono stati raggiunti non hanno precedenti. Tuttavia, penso che questo sia un tema più generale e profondamente radicato nella stretta connessione tra arte e autorità. Invece di promuovere la rappresentazione degli oppressi, le istituzioni artistiche tendono sempre di più a soddisfare le richieste dei loro finanziatori. Questi rischi sono sempre esistiti per l’arte palestinese a livello internazionale. Come artista, per essere accettato dall’Occidente, è spesso necessario scegliere tra il silenzio o la realizzazione opere non conflittuali, apolitiche o progetti incentrati solo su messaggi di pacificazione. Una decina di anni fa, a Parigi, l’esposizione della fotografa Ahlam Shibli si è trasformata in un evento mediatico con dimostrazioni e minacce contro l’artista. Emily Jacir, anche lei cittadina americana, ha affrontato reazioni negative dai principali media mainstream dopo aver esposto i propri lavori negli Stati Uniti. In Germania, la partecipazione di artisti palestinesi all’evento di Documenta ha causato un tale scalpore nei media tedeschi che lo spazio The Question of Funding è stato vandalizzato con tanto di minacce di morte. Purtroppo la situazione è peggiorata e, a mio avviso, l’unica soluzione è che gli artisti palestinesi si rivolgano di più a istituzioni artistiche minori, o meno soggette a determinate agende politiche. Non è facile essere un artista palestinese, dopotutto.
Riflettendo per un momento sulla tragica situazione a Gaza, quale ruolo pensi possa assumere l’arte? È necessario che essa abbia un ruolo specifico al di là della rappresentazione di ciò che sta accadendo? So che non è facile riflettere su temi di questa portata, specialmente in un momento complesso come quello che stiamo vivendo, ma il tuo contributo di studiosa può rappresentare una prospettiva particolarmente interessante.
È molto difficile parlare del ruolo dell’arte in un momento come questo, soprattutto perché gli accordi di Oslo e il ruolo dei finanziamenti in Palestina hanno spinto l’arte verso progetti sempre più orientati dalle committenze e, come conseguenza, hanno rafforzato l’individualità rispetto a un lavoro più comunitario e indipendente. In un certo senso, gli artisti palestinesi si sono improvvisamente resi conto che vivono ancora sotto un’occupazione sempre più brutale e la facciata di uno stato indipendente che l’Autorità Palestinese aveva aiutato a costruire sembra essere svanita di colpo. Anche per questo, il ruolo dell’arte dovrebbe tornare a essere, soprattutto, quello di formare comunità e reti di solidarietà in tutto il mondo. Bisognerebbe tornare, in un certo senso, a un’era pre-Oslo, quando i Palestinesi erano molto più connessi a livello internazionale e, uniti, sostenevano la loro lotta per un’arte alternativa.