di Massimo Natale
[E’ appena uscito per Mondadori un Oscar che raccoglie il Teatro di Giovanni Raboni. Proponiamo un estratto dell’introduzione di Massimo Natale, curatore del volume].
Il teatro, bene reale
Che cos’è un poeta se non un traducteur e un déchiffreur, si chiedeva Charles Baudelaire in alcune sue pagine dedicate a Victor Hugo. Ricostruire il legame fra Giovanni Raboni e il teatro significherà stringere insieme le tre dimensioni accostate da Baudelaire: la scrittura in proprio, la traduzione e l’interpretazione (nel nostro caso, più precisamente, la decodifica del “congegno” teatrale). Quello fra Raboni e il teatro ci appare, in ogni caso, come un rapporto davvero “totale”: un rapporto che comincia almeno nel 1947, con la nascita del Piccolo Teatro e i primi spettacoli di Giorgio Strehler, seguiti da un Raboni spettatore appena adolescente. Cinquant’anni dopo, nel 1998, Raboni diventerà il vice-presidente del Consiglio di amministrazione dello stesso Piccolo. Anche a partire da questo suo impegno in prima persona potremmo ripetere per il teatro le parole che Raboni ha usato per definire la poesia: qualcosa che esiste sempre «come bene reale, concretamente godibile e fruibile»,[1] lontano da ogni sterile astrazione. È anzi ancora ben vivo, in Raboni, il ruolo del teatro quale istituzione fondante per il vivere civile, antichissimo punto di riferimento della polis – anzitutto della sua Milano – e di chi la abita.
Nella stessa, coerentissima direzione va anche l’attività, pressoché quotidiana, del critico Raboni, per decenni infaticabile mediatore della scena teatrale e dei suoi protagonisti, specialmente dalle colonne del «Corriere della sera». Un critico che bisognerebbe anzi chiamare più precisamente «testimone», come ha osservato lui stesso, capace di collaborare, attraverso il suo racconto, al compimento della parola teatrale e poi alla sua «sopravvivenza».[2] «Il teatro – ha scritto Raboni in alcune pagine dedicate non a caso a Renato Simoni – ha bisogno di noi. Ne ha bisogno per vivere perché non può esserci teatro senza spettatori, voglio dire senza un rapporto di alterità […] fra chi fa e chi assiste, fra chi costruisce con i suoi gesti e la sua voce una metafora dell’esistente o del possibile e chi raccoglie questa metafora per trasformarla dentro di sé in emozione e senso».[3] Non è difficile percepire, nell’ultimo Raboni, la preoccupazione per la sempre più evidente “fragilità” dell’arte teatrale. E in questa stessa chiave colpisce la sua continua insistenza, nei primissimi anni del ventunesimo secolo, sulla materialità del teatro, il suo porsi quale «estremo, disperato presidio contro l’invasione del virtuale e dell’incorporeo; un luogo dove abbiamo a che fare con gli errori, le imperfezioni e, soprattutto, la meravigliosa, sacrosanta irripetibilità del reale».[4] È una professione d’amore, e un monito che oggi rischia di suonare quasi profetico:[5]
Non c’è dubbio che la battaglia contro il prevalere della virtualità sia indispensabile. Credo che il teatro sia uno dei luoghi principali di tale battaglia. A teatro le cose accadono davvero, nel momento in cui avvengono. Sono in presa diretta con la nostra coscienza, con la nostra capacità di emozionarci. Questo è un tesoro assolutamente da non perdere. È una delle cose che possono dare equilibrio e senso alla nostra vita. Nel momento in cui ci sediamo davanti alla televisione o anche davanti a uno schermo cinematografico, questo non si verifica: noi vediamo realtà morta, anche se avviene in quel momento, perché non possiamo intervenire. A teatro invece interveniamo silenziosamente ed entriamo emotivamente nello spettacolo con le nostre reazioni. Questa è un’esperienza che non può mancare nella vita, quindi la battaglia per il teatro è una battaglia per noi stessi.
«Su incarico e per passione»: fra Molière e Racine
Il presente volume ricostruisce vent’anni di lavoro sul “testo” drammatico – attraverso le lenti privilegiate della traduzione e della scrittura per il teatro – riconoscendo una volta di più a Raboni due qualità che lo contraddistinguono sempre, l’eleganza del tratto e la comprensione dei fatti formali: la sua istintiva intelligenza stilistica. Le prossime pagine introduttive riattraverseranno questo stesso ventennio risalendolo cronologicamente, e storicizzando di volta in volta, per quanto possibile, le varie prove raboniane. D’altra parte, faremo largo ricorso proprio al Raboni critico teatrale: al suo sguardo sempre efficace, sensibile a stile, temi e problemi – insomma alla “storia” complessiva – di ciascun testo affrontato. Implicitamente si vorrebbe suggerire, così, che non sarà inutile combinare le giuste ragioni della cronologia con un’attenzione specifica al rapporto fra Raboni e il singolo nome – il suo Racine, il suo Molière, ecc. – come si è fatto, del resto, nell’ordinamento dei testi di quest’edizione (per cui si rimanda all’Avvertenza), accorpando le opere appartenenti a uno stesso autore tradotto (mentre l’esordio del volume è affidato alle sue due pièces originali, Rappresentazione della Croce e Alcesti o La recita dell’esilio).
Se si guarda all’inizio di questa splendida avventura – è il 1984 – ci si accorge presto che già le prime prove del Raboni traduttore per il teatro implicano una serie di elementi e di condizioni che restano importanti anche per i capitoli successivi di questa storia. E si vorrebbe anzi dire che questi luoghi primi contengono qualcosa di emblematico. Riprendiamo, per cominciare, la breve nota di Raboni alla traduzione del Don Juan di Molière, che viene messo in scena da Mario Morini: «Ho fatto questa traduzione del Don Giovanni su incarico e per passione», e Raboni aggiunge poi: «non sempre le due cose si escludono a vicenda; anzi, è spesso vero il contrario, cioè che l’una include l’altra o la suscita». Incarico e passione, ovvero ruolo del committente da una parte e vicinanza – e talora addirittura consanguineità – con il testo da tradurre dall’altra. Si tratta, ha scritto ancora Raboni, di «intrecciare fra loro i gesti della volontà e i gesti del caso».[6] Questa fertile dialettica aperta fra “lavoro” e “piacere” sembra accompagnarlo a lungo, e sembra anzi contraddistinguere anche altri luoghi della sua attività, se ormai quasi al termine di questa stessa parabola – nel 2000 – l’autore potrà dire, a proposito della Rappresentazione della Croce, che è scritta sì «su commissione», ma che allo stesso tempo proprio quell’occasione ha involontariamente costituito «un passaggio importante per cercare un certo tono, un assetto formale nuovo»: ne riconosce insomma un’importanza che va ben al di là del singolo ed estemporaneo «caso».[7]
Il Don Giovanni tradotto da Raboni è probabilmente l’esempio migliore di un incontro – quello fra un’opera e il suo traduttore – che non può che apparirci naturale. Quando si accinge a tradurre Molière, in effetti, Raboni non è soltanto un poeta che ha cominciato proprio sotto l’insegna dongiovannesca (penso naturalmente a un titolo come Il catalogo è questo, rubato all’aria del Leporello mozartiano per la sua prima plaquette di versi, nel 1961): la figura di Don Giovanni compare poi anche in un esperimento di invenzione in prosa come La fossa di Cherubino (1980), e la memoria del testo mozartiano arriva almeno ai versi dell’appena successiva Lista di Spagna (1981). Senza contare che nel 1983 – l’anno prima della traduzione per Morini – nella sua introduzione a Rosales, una pièce teatrale di Mario Luzi, Raboni inizia tratteggiando una sorta di fulminea microstoria della stessa figura del seduttore, una storia che comincia con El burlador de Sevilla di Tirso de Molina e arriva almeno fino al Don Juan aux enfers delle Fleurs du mal, senza dimenticare appunto il Don Juan molieriano, annoverato fra i «capolavori» senz’altro.[8] Un’opinione che, qualche anno più tardi, lo stesso Raboni sfumerà un poco o modificherà, inquadrando diversamente, stavolta, la stessa opera di Molière: «mi sembra che non sia – a differenza, ammettiamo, del Misantropo o dell’Avaro – un capolavoro, ma uno strano e affascinante incrocio fra un’opera assoluta e un’opera grandiosamente mancata».[9] Un affondo nel quale è interessante l’aggiustamento della prospettiva sul Don Giovanni, ma è anche istruttivo l’accostamento ad altre pièces dello stesso autore: come dire che Raboni, sia il traduttore che il critico, proietta sempre il singolo episodio su uno sfondo complessivo, tenendo presente lo specifico “pezzo” ma anche l’intero campo d’azione dei suoi autori.
Tanto più è notevole che al Don Giovanni, che per Raboni è dunque quasi un simbolo araldico, si affianchi in quello stesso 1984 un altro testo-chiave per lui, la Phèdre di Racine (che verrà poi ritradotta nel 1999: ci torneremo). Anche in questo caso conta, certo, la committenza (a mettere in scena la prima versione di Fedra è Luca Ronconi). Ma è anche suggestivo che l’altro punto di partenza, insieme a Molière, sia proprio Racine: quel Racine che è l’autore almeno quantitativamente più importante per il Raboni traduttore, perché alle due versioni di Phèdre si aggiungeranno poi, negli anni Duemila, Bérénice e Athalie. E anche a Molière, come vedremo, Raboni tornerà nel 2003, traducendo l’École des femmes.
Intriga che questi due nomi restino piuttosto stabilmente al centro dei suoi interessi, dall’inizio alla fine del percorso, e che li si affronti in più momenti, mescolando agli strumenti del traduttore quelli – pur di sbieco – dello storico del teatro e, soprattutto, del grande e instancabile critico teatrale che è stato Raboni. Il quale, quando interviene sulla Fedra – vedi l’introduzione, dello stesso ’84, all’edizione Rizzoli[10] – mostra per esempio di aver fatto prontamente i conti con le letture più autorevoli del dramma, fra tutte con quella di Francesco Orlando.[11] O non dimentica certe pagine di Giovanni Macchia quando scrive che si può arrivare a definire Racine, sulla scorta di altre ipotesi critiche, «il più grande lirico della letteratura francese» (da confrontare appunto con un lampo di Macchia: «il più grande lirico francese, Racine, fu un poeta tragico», in una pagina in cui intanto proprio Molière è riconosciuto come «la personalità più ricca di tutto il Seicento»).[12] Più in generale – e questo non vale certo soltanto per i suoi interessi teatrali – avere a che fare con Raboni e con le sue istanze critiche significa aver a che fare con un orizzonte che non è quello della lettura “professionale”, quanto piuttosto quello di chi sembra aver attraversato davvero tous les livres, del grande connoisseur: il Raboni delle pagine introduttive a Fedra comincia citando un episodio della Recherche del suo Proust – un dialogo fra Saint-Loup e Charlus – per poi svolgere un ragionamento largo sul romanticismo francese e ribattezzando infine Racine come «una sorta di anti-Shakespeare», ricalcando appunto un’opinione romantica. Per inciso, quando Raboni deve introdurre Il misantropo – eccoci di nuovo all’altro faro, a Molière – il dispositivo è esattamente analogo: si parte da una pagina di Proust, nel Temps retrouvé, a proposito del protagonista della commedia, Alceste, e dell’essenza più o meno “comica” del personaggio, per poi proiettare il dramma nel suo orizzonte elettivo, quello della Weltliteratur (si tratta di una querelle, scrive Raboni, «che nel corso degli ultimi tre secoli ha coinvolto alcune delle più straordinarie intelligenze della modernità, da Goethe a Stendhal, da Jean-Jacques Rousseau a Jacques Lacan»).[13]
La mano leggera del traduttore
Affascina che Raboni si misuri, e sincronicamente, con due teste di serie della storia del teatro mondiale, attivi nel medesimo scorcio del diciassettesimo secolo e capaci di dare forma a quello che diventerà una sorta di topos critico – la tragedia e la commedia al loro massimo splendore, l’una di fronte all’altra e come incarnate in questi due grandi autori –, un topos che si ritrova nel Georges Poulet di Études sur le temps humain come nello stesso Giovanni Macchia o nell’Erich Auerbach di Mimesis. In effetti proprio «realismo» da una parte e «rarefazione» dall’altra sono i due poli opposti intorno ai quali Raboni torna a osservare, a suo modo, la fondamentale opposizione Molière-Racine, in un’intervista del gennaio ’84[14] (quando il Don Giovanni è già in teatro e Fedra sta per essere messa in scena). È proprio sulla prospettiva stilistica che Raboni appoggia, anche nella nota traduttiva,[15] la propria visione dell’opera molieriana, sottolineando il «plurilinguismo assolutamente funzionale» del Don Giovanni e l’idea che nessun personaggio sia semplicemente tipizzato, quanto piuttosto che ciascuna delle figure in campo – dal protagonista ai ruoli più marginali – abbia «realtà singola e spessore emblematico», sia cioè «al tempo stesso, esemplare e irripetibile». Ma quali sono, a questa altezza, i punti cardinali del lavoro del traduttore? Il primo è senz’altro l’esigenza «di rispettare il testo originale»; il secondo è un’istanza che spunterà anche altrove, alle prese con la traduzione per il teatro, e della quale si può intuire la pressione già in questo caso: ovvero l’intenzione di rendere sfruttabile il testo dentro lo spazio scenico (è prezioso, in tal senso, il cenno di Raboni alla collaborazione degli attori nel rendere in particolare le parti di Sganarello e dei contadini meridionali, Petruccio e Carlotta). Che il testo abbia una sua concreta sfruttabilità, magari condivisa con il regista, è una necessità che pare confermata, ad esempio, proprio dal trattamento linguistico riservato alla coppia Petruccio-Carlotta. I quali nell’originale molieriano parlano in dialetto, un «patois piuttosto terragno». Qualche anno prima Cesare Garboli, nella sua traduzione del Don Giovanni, aveva scelto per il dialogo contadinesco, che apre l’atto secondo, un dialetto veneto di timbro ruzantiano; più tardi, nel 2000, Edoardo Sanguineti ricorrerà a un italiano connotato sociolinguisticamente, reso irto da sgrammaticature e asintattismo, sfruttati in chiave mimetica.[16] In mezzo, spicca la medietas di Raboni, che propende per un colloquialismo non certo estremo, non troppo accusato, diciamo pure più facilmente pronunciabile. E non sarebbe probabilmente difficile mostrare che nel complesso, proprio rispetto a un Garboli, le libertà di Raboni nei confronti del francese di Molière sono più contenute. Si prenda, per stare a un solo esempio, l’entrata in scena del protagonista, nella seconda scena del primo atto, e in particolare la prima battuta piuttosto estesa di Don Giovanni, che sintetizza subito la sua filosofia dell’eros come continua conquista di una nuova preda. Riporto qualche passaggio del testo nelle due versioni, quella di Garboli e quella di Raboni:[17]
Bello, bello davvero, impuntarsi nella manìa d’essere fedeli, seppellirsi per sempre nella tomba di una passione […]. Per me, la bellezza m’incanta ovunque si trovi; mi abbandono, docilmente, senza pensarci, a quel miele che mi trascina. […] È quando sta nascendo, del resto, che l’amore ha un fascino inesplicabile. Tutti i suoi piaceri stanno nell’inizio, e, quindi, nel cambiamento.
Bella cosa davvero fissarsi, per malinteso onore, sulla fedeltà, seppellirsi per sempre in una sola passione […]. Quanto a me, la bellezza mi seduce ovunque la trovi, e cedo volentieri alla dolce violenza con cui mi rapisce a me stesso. […] Gli amori nascenti, del resto, hanno dolcezze inesplicabili, e tutto il bello dell’amore è nel cambiamento.
Garboli lavora soprattutto per espansione, Raboni tende a stare più vicino all’originale: così «faux honneur» diventa «manìa» nell’uno e «malinteso onore» nell’altro, e il «s’ensevelir», il «seppellirsi» nella passione è completato in Garboli da una «tomba» del tutto assente nel testo di partenza; la «douce violence» dell’eros diventa rispettivamente un metaforico «miele» e una letterale «dolce violenza»; mentre la conclusione del ragionamento, con il suo andamento aforismatico, è piuttosto manomessa da Garboli, in una soluzione più razionalizzante, ed è invece mantenuta sostanzialmente intatta da Raboni, a partire proprio dal livello sintattico («Les inclinations naissantes, après tout, ont des charmes inexplicables, et tout le plaisir de l’amour est dans le changement»). Certo questo assaggio non basta, ma l’impressione è che, da un confronto fra i due campioni, possa uscire confermato quanto lo stesso Raboni avrebbe scritto qualche anno dopo, sul «Corriere della sera», a proposito del Garboli traduttore di Molière: pur riconoscendone i grandi meriti, non mancava di sottolinearne la «spregiudicatezza»;[18] cui si contrappone quella che potremmo chiamare, invece, la mano leggera del Raboni traduttore. E siamo intanto, con il cenno a Garboli, a una nuova conferma del ricircolo continuo fra traduttore, connoisseur e critico teatrale.
Note
[1] G. Raboni, Premessa in Id., La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, Garzanti, Milano 2005, p. 5.
[2] G.R., La consegna della scrittura in Per Roberto De Monticelli. Per il teatro. Atti del Convegno promosso dall’associazione nazionale Critici di Teatro e dalla Regione Lombardia (2-3 dicembre 1996), Piccolo Teatro di Milano, sd., pp. 36-41.
[3] G.R., Il teatro e il suo testimone, in Simoni a teatro. Cronache drammatiche 1915-1952 scelte da Giovanni Raboni, Gemma Editco, Verona 2002, p. 9.
[4] G.R., Ultimo rifugio per sottrarsi alla dittatura delle immagini, «Corriere della sera», 9 marzo 2000.
[5] G.R., La consegna della scrittura, cit., p. 38.
[6] G. R., La traduzione, qui in Appendice, pp. 1203-1205.
[7] L’osservazione è citata in G.R., L’opera poetica, «i Meridiani» Mondadori, Milano 2006 (d’ora in avanti: OP), p. CXXXVII.
[8] G.R., Introduzione a M. Luzi, Rosales, Rizzoli, Milano 1983, p. 5.
[9] G.R., Un Don Giovanni dalla Slovenia, «Corriere della sera», 18 giugno 1993.
[10] Qui in Appendice, pp. 1211-15.
[11] F. Orlando, Lettura freudiana della “Phèdre”, Einaudi, Torino 1971 (affiancata qualche anno dopo da Id., Lettura freudiana del “Misanthrope” e due scritti teorici, Einaudi, Torino 1979).
[12] G. Macchia, Il paradiso della ragione. L’ordine e l’avventura nella tradizione letteraria francese [1960], Einaudi, Torino 1972, p. 62.
[13] G.R., Il “caso” Alceste: una disputa fra attori, in Molière, Il misantropo, a cura di P. Valduga, Giunti, Firenze 1995, p. X.
[14] G. Saltini, Il fascino dei dialoghi, qui in Appendice, pp. 1205-1208.
[15] G.R., La traduzione, cit., p. 1205.
[16] Molière, Don Giovanni, il Melangolo, Genova 2000.
[17] Molière, Saggi e traduzioni di Cesare Garboli, Einaudi, Torino 1976, pp. 176-77. Questo l’originale: «La belle chose de vouloir se piquer d’un faux honneur d’être fidèle, de s’ensevelir pour toujours dans une passion […]. Pour moi, la beauté me ravit partout où je la trouve, et je cède facilement à cette douce violence dont elle nous entraîne. […] Les inclinations naissantes, après tout, ont des charmes inexplicables, et tout le plaisir de l’amour est dans le changement» (in Molière, Œuvres complètes, [1932], texte établi et annoté par Maurice Rat, Gallimard, Paris 1957, t. II, p. 850).
[18] L’osservazione riguarda tuttavia il Garboli traduttore dell’École des femmes, per la regia di Gianfranco De Bosio: G.R., E il borghese geloso restò beffato, «Correre della sera», 15 gennaio 1988.