di Federica Timeto
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
Per una strana alchimia di richiami, mentre scrivo queste mie note sul libro di Fatima Ouassak, Per un’ecologia pirata… e saremo liberi!, nella traduzione di Valeria Gennari e con la prefazione di Valeria Cirillo e Nina Ferrante (Tamu 2024), riprendo in mano Perdi la madre di Saidiya Hartman, uscito per la stessa casa editrice nel 2021, perché devo rivedere alcuni passaggi per un altro testo. Invece, Hartman mi parla di Ouassak, in particolare quando scrive che avere un luogo immaginato può sempre esser meglio di non avere alcuna casa, può salvare la vita. In quel punto scrivo a margine, con una freccia: > Ouassak. Ritrovo anche molto di me, lì. Poche settimane fa è caduto il primo “anniversario” dell’incendio che ha devastato il palermitano nel Luglio del ’23. Scappiamo? Dove? Mi domandavo ossessivamente quella notte. Ma intanto pensavo: chi può scappare, chi non è riuscito a salvarsi, perché? Non si può respirare, eppure io abito in una casa, in cui ripararmi (e da cui a volte anche schermarmi) perché piena di memorie e relazioni, anche se il fumo passava dai vetri quel giorno, e l’acqua che usciva dai rubinetti ustionava la pelle, e l’aria era irrespirabile dappertutto, persino dove mi sentivo dentro. Anche Ouassak parla di respiro, di casa, di sradicamento, da una prospettiva che considera la vita in comune, non solo quella umana, e altrettanto in comune la perdita e la lotta.
Lo sradicamento delle persone schiavizzate è quello cui si riferisce Hartman, parlando della propria esperienza dell’Africa ma anche del racconto familiare sulle tracce della propria sfuggente genealogia, ed è mentre osserva le contraddizioni fra memorie e attese, che si addensano invece che dipanarsi, che descrive la differenza fra la percezione del restare che ha il padrone e quella della persona schiavizzata: la seconda semplicemente sta vivendo in un posto in cui non c’è nulla di veramente suo, nulla su cui investire, nessun attaccamento, nessuna appartenenza, ma non desidera restare: “è per questo che non ci stanchiamo mai di sognare un posto da chiamare casa, un posto migliore di questo, ovunque esso sia. È per questo che cento interi isolati di Los Angeles possono essere distrutti in una sola sera. Noi lì ci stiamo, ma non ci abitiamo. I ghetti non sono fatti per viverci. Le strade stracolme di rottami, le finestre rotte, la puzza di urina negli ascensori e nei vani delle scale delle case popolari sono segni della nuda vita”. Si soffoca, in questi spazi, scriveva James Baldwin. Ed è per questo che, gli fa eco Hartman, si prova “un bisogno di ‘distruggere senza sosta’, di ‘spaccare qualcosa’, che appare come la via più ovvia verso la salvezza”. Sono gli effetti di quello che Ouassak chiama “disancoraggio”: essere senza terra non è solo vivere la condanna dello spossessamento, è anche non sviluppare attaccamenti, e dunque ereditare l’impotenza insieme alla mancanza di potere. Eppure, disancorati si può ancora iniziare un altro tipo di viaggio. Nel preambolo del suo libro, che s’intitola Di isola in isola (forse anche per questo mi interpella?), Ouassak scrive: “è perché non siamo liberi che il mondo brucia. E il mondo smetterà di bruciare solo se ci libereremo”. Sì, ma, da cosa? O dovremmo forse chiederci, verso dove?
Ouassak, politologa e cofondatrice del Front de mères, sindacato di genitori dei quartieri popolari, presidente della rete Classe/Genre/Race, e anima del progetto di Verdragon, la prima casa per l’ecologia popolare a Bagnolet, scrive una trilogia, di cui Per un’ecologia pirata è il secondo volume e l’unico tradotto in italiano, per raccontare la vita delle famiglie degli immigrati che vivono nelle periferie delle grandi città. A Ouassak interessano le tattiche situate di resistenza e i sogni e desideri delle nuove generazioni, che si organizzano a/per partire dalla terra, provando ad “allargare il fronte” come antidoto al veleno che, invece, nei territori come nazioni consolida l’identitarismo delle destre. La differenza è sottile ma fondamentale: non c’è nessuna terra promessa per i senza-terra (destinati semmai al sotto-terra, e senza neppure adeguata sepoltura), ma si può sempre usare questo disancoraggio per rivoltarlo contro se stesso e dargli respiro.
Ouassak denuncia l’ecologismo borghese e individualista che spaccia per soluzioni la delocalizzazione, il colonialismo verde, i supermercati biologici, tutti interventi a valle per far sì che il privilegio possa essere persino sostenibile, senza affrontare le ragioni strutturali della crisi ecologica che, a monte, poggiano sul capitalismo razziale e specista, sulle gerarchie fra i corpi più o meno degni di vita, utili o meno utili – come carne da macello o da cannone, come bacino elettorale, come manodopera “essenziale”, vedi l’ultima pandemia (lo descriveva molto bene Mel Chen) –, e solo in base a questo considerati/resi più o meno liberi di movimento, più o meno degni di respiro e cura.
Allargare il fronte non è includere qualche margine in più, a patto che stia alle regole – non oziare, non pregare, non giocare, non protestare, non pretendere, zitto, fermo –, né soltanto recarsi a visitare il margine per prenderlo sotto la propria protezione (leggi: gestirlo, gentrificarlo). Allargare il fronte ha schifo della parola inclusione, e a ha cuore la giustizia sociale (multispecie, dico con Ouassak), è un progetto politico completamente diverso, che mette in discussione prima di tutto le relazioni, le ideologie e i modelli di produzione escludenti ed estrattivisti su cui si basa il capitalismo, con la sua distinzione fra isole pedonali e discariche, residence e ghetti, riserve e zoo, e che protegge alcuni corpi mentre considera altri scarti da sfruttare e riciclare, o di cui disfarsi. Allargare il fronte significa trovare una misura e un piano di azione in e del comune fra le diverse vulnerabilità, per come queste si collegano e richiamano fra loro, e tra luoghi, generazioni e anche specie diverse, piuttosto che esportare modelli classisti e gentrificati come se fossero un vestito di taglia universale che chiunque può indossare. Non serve a niente educare a mangiare “sano” e a fare il pane in casa se le condizioni lavorative ed economiche non permettono di avere il tempo e, a volte, neppure la cucina, per farlo; e a chi scappa, a chi è inseguito, a chi è cacciato, cosa può importare della carbon footprint? E perché la carne degli allevamenti intensivi può essere classificata come halal, consentita, quando la vita umana e animale sono chiaramente interdipendenti, e così la loro emancipazione?
Allargare il fronte è rompere le righe, smetterla di stare al proprio posto (anche perché non può essere mai il proprio lì dove uno sta e basta, come dice Hartman, senza scelta), finirla di imparare la lezione per meritarsi persino di respirare – meritarsi di respirare.
Si può soffocare in tanti modi, nei polmoni, nella testa, nel cuore. Quando l’aria che respiri è troppo inquinata, quando i pensieri che hai non trovano nutrimento, quando l’affetto che condividi non si sedimenta in relazioni, quando una divisa ti schiaccia la gola contro il marciapiede. “Soffocano i coralli nei mari, gli animali negli allevamenti intensivi, le persone annegate nel Mediterraneo. Una vita respirabile significa riappropriarsi dello spazio per respirare. E il respiro non si ferma all’individuo umano, ma lo lega indissolubilmente all’ambiente e alla terra dove abita”, scrivono Cirillo e Ferrante nella prefazione al libro. Chiunque subisca un’oppressione soffocante aspira alla libertà. Le persone razzializzate nei ghetti, le persone colonizzate nei territori occupati, le persone migranti per mare e per terra, le persone natemorte negli allevamenti, condividono la stessa pulsione a resistere, portare fuori l’esistenza dai confini della mera sussistenza, credere al desiderio, presevare il possibile. In Giù nel cieco mondo, l’ultimo romanzo di Yesmyn Ward, è esattamente a questo che prelude la discesa agli inferi della protagonista: l’inferno è la buca dove sono letteralmente conficcati i corpi di chi si ribella, il vuoto nel cuore della terra del padrone che non consente di mettere radici perché è pieno solo della sterilità del terrore puro.
I corpi che non hanno mai un proprio “dentro” non sono considerati neppure degni di avere un fuori, dunque non appena escono all’aperto sono tampinati, perquisiti e identificati, quando non direttamente ammazzati solo perché si trovavano “senza una buona ragione” (cioè una ragione utile) lì dove non era supposto che fossero. È questa la hogra, parola che viene dall’arabo “Ihtiqaar” (إحتقار), “la volontà istituzionale di terrorizzare e umiliare gli individui”, talmente introiettata da essere considerata la normalità, e che spinge le persone più o meno letteralmente sotto terra, nelle grandi città oggi come nelle piantagioni di cui scrive Ward.
Se il fronte è un muro che gronda apartheid, allargare il fronte è “spaccare qualcosa”, spaccare i muri materiali del decoro e della sicurezza urbani e i muri simbolici che distinguono fra vite-dentro e vite-fuori, quegli stessi muri che tolgono il respiro al vivente ovunque nel mondo: la discriminazione e l’oppressione coloniali non sono mai finite, com’è più che evidente nella realtà descritta da Ouassak. Ma “chi semina hogra raccoglie intifada” urlano le vite murate vive, dall’Algeria alla Palestina.
Fra le crepe dei muri anche l’immaginazione può tornare a respirare, e così Ouassak incita al gioco dei pirati i dannati della terra con cui parla (si sente tanto Fanon, in queste righe). Per riprendersi il mare come fanno i pirati, quelli dei manga ma anche quelli delle t.a.z., e fare diventare il mare una “figura di resistenza” invece che una fossa comune. Ammutinarsi per riprendersi il respiro piuttosto che il potere, è questo che insegna il mare, la resistenza che va dall’acqua all’acqua ovunque si creino reti di solidarietà. Un mare che non porti gabbie, né mattatoi, e dove nessuno zucchero possa più a sedare i bambini-drago.