di Marco Zonch

 

In Noi due ci apparteniamo (2024) Roberto Saviano si propone di guidare il lettore alla scoperta delle politiche e delle regole di condotta matrimoniale, sessuale e sentimentale adottate in diverse aree del mondo da organizzazioni come la camorra (cap. 1) o la mafia garganica (cap. 5). Lo scopo è quello muovere un attacco culturale e morale alla criminalità, obiettivo per il quale vengono impiegate le armi del femminismo e degli studi di genere: la famiglia mafiosa, così nel Prologo, altro non sarebbe che un sottotipo di quella patriarcale. Dunque, se ne può discutere adoperando le lenti del genere, e più in generale cercando di capire come i rapporti sessuali e sentimentali diventino «strumento di controllo» (p. 22); mezzi utili all’esercizio del potere e alla sua conservazione, perché capaci di mantenere in vita «una rigida divisione in classi sociali», lo «status quo» (p. 23). Ricapitolando, potremmo dire che in Noi due ci apparteniamo Saviano tenti una peculiare forma di intersezionalità, di cui si serve per aggredire la criminalità da una prospettiva nuova, o almeno diversa da quella di Gomorra (2006), ZeroZeroZero (2013) o Bacio feroce (2017).

In ciascuno dei dodici capitoli del libro vengono a questo scopo narrativizzati fatti di cronaca avvenuti in tempi e luoghi differenti, suddivisi nelle diverse sezioni del libro secondo una logica di tipo intersezionale. Si parla cioè, nel primo capitolo, di camorra e ruolo della donna; nel secondo la mafia si sostituisce alla camorra e nel terzo è la volta dell’ndrangheta. Anche i due capitoli successivi contengono racconti di donne e mafie italiane mentre il sesto è dedicato alla figura di Matteo Messina Denaro, esempio negativo dell’uomo di mafia; il settimo racconta la storia d’amore di due donne cilene, gangster non binarie. Arrivati a questo punto, e siamo poco dopo la metà, il libro comincia a perdere coerenza tematica. Nell’ottavo capitolo, infatti, non si parla più di criminalità “patriarcal-organizzata”, ma dei modi in cui le forze dell’ordine sfruttano le relazioni amorose dei latitanti per arrestarli. Nel nono si cerca di recuperare direzione parlando delle conseguenze disastrose a cui può portare l’«aberrazione» (p. 162) di sesso e sentimenti. Non si riesce dunque a ritornare all’intersezionalità, sostituita con la più generale indagine delle gerarchie di valori della criminalità, ma soprattutto si cominciano a introdurre vistose forzature nell’argomentazione.

Benché infatti, a voler far pulci, il ragionamento inciampi anche nei primi capitoli, cambiano ora le dimensioni del problema. Utile in questo senso è la ricostruzione secondo cui all’origine della guerra tra i cartelli colombiani di Cali e Medellin, di cui si parla nell’ottavo capitolo, ci sarebbe un tradimento amoroso. Come premesso l’attribuzione di un tale ruolo all’infedeltà è forzata: è il narratore stesso ad ammetterlo, tirando le fila del proprio ragionamento.

Nella faida fra cartelli di Cali e Medellin, le variabili in gioco sono troppe per determinare se, in assenza della scappatella fra el negro e la moglie di Alejo Pina, i fatti accaduti in seguito avrebbero preso una piega molto diversa. Certo. Il flirt è stato determinante, ma lo sono stati anche l’ambizione dei narcos e la corruzione politica. Nella storia che segue, invece, tutto, ma proprio tutto, ruota intorno a un singolo episodio […] (p. 171)

Insomma, arrivati in fondo il narratore è costretto a ridimensionare il ruolo della «scappatella», che da causa prima del conflitto diventa una tra le persino «troppe» variabili. Accortosi poi del problema cerca di correggere la rotta con un «determinante», ma solo per essere ancora una volta costretto a riconoscere che il sesso è al centro («invece») solo della storia successiva.

I problemi di coerenza tematica e argomentativa appena rilevati trovano il loro esatto (o quasi) correlato nelle scelte di organizzazione della pagina. Per capire che cosa questo significhi bisogna però fare un passo indietro, ricordare che gli episodi raccolti in Noi due ci apparteniamo sono fatti di cronaca narrativizzati – c’è una bibliografia in fondo – e dire qualcosa a proposito della posizione del libro nel percorso autoriale di Saviano. È infatti importante collocare Noi due ci apparteniamo nel solco aperto da Gridalo (2020), dove già, ed esplicitamente, si narrativizzavano alcuni episodi di cronaca «in modo che» suonassero al lettore «come un adagio, come una parabola, come un esempio di vita.» (p. 15); in Gridalo lo scopo dell’operazione è quello di proteggere il lettore – per un approfondimento – mentre in Noi due ci apparteniamo l’obbiettivo è quello di guidare l’assalto contro il nemico. Differenze strategiche a parte, conta che in entrambi i casi la narrativizzazione della cronaca non sia nascosta – si ammette di non sapere con certezza che cosa abbiano pensato i reali protagonisti dei fatti – e soprattutto importa che essa avvenga guardando al modello dell’exemplum o della parabola; se non forse addirittura, nel caso di Noi due ci apparteniamo, a quello affine del catechismo o della liturgia della parola.

Sembra infatti che in Noi due ci apparteniamo si cominci a ritenere insufficiente la sola narrativizzazione, forse perché il suo prodotto si presta a interpretazioni differenti, rischia di produrre miti o antieroi da imitare. Il problema viene risolto facendo accompagnare il racconto da un’interpretazione “ufficiale”, che a partire dal primo capitolo del libro viene esposta da un’altra voce narrante. Nel Prologo a occuparsi del racconto, del suo commento e dell’esposizione del progetto del libro è un unico narratore, che cede però parte dei suoi doveri a un secondo narratore o, ma la differenza non è forse rilevante, a una diversa modulazione della propria voce. La prima continua a occuparsi della narrazione in senso stretto, ha carattere esplicitamente autobiografico ed esprime le proprie posizioni solo di tanto in tanto e in forma sintetica. Alla seconda voce spetta invece il compito di indicare al lettore il modo in cui leggere e interpretare correttamente il senso morale o “teologico” degli episodi contenuti nel testo; lo fa occupando ogni volta una decina di righe, precedute e seguite da una zampa di mosca (¶), e distinte tipograficamente per mezzo dell’uso del grassetto.

Questo secondo narratore, e torniamo così al rapporto tra coerenza tematico-argomentativa e gestione della pagina, non prende sempre la parola. Proprio la presenza/assenza di glosse in una determinata sezione del libro può venir correlata alla vicinanza/distanza della materia trattata dal progetto intersezionale. Contando il numero di interventi presenti in ciascun capitolo – 4 nel primo, 3 nel secondo, 4 nel terzo, 3 nel quarto, 5 nel quinto, 6 nel sesto, 3 nel settimo, 0 nell’ottavo, 0 nel nono, 3 nel decimo, 0 nell’undicesimo, 7 nell’ultimo – è semplice notare che lo 0 corrisponde ai momenti di massima distanza tematica dal progetto intersezionale: l’ottavo capitolo racconta di come le forze dell’ordine catturino i latitanti, il nono parla di aberrazione di sesso e sentimenti. È inoltre vero anche il contrario, e cioè che il secondo narratore ricompare quando viene ripresa la prospettiva intersezionale: nel decimo capitolo Paolo Di Lauro, di cui si racconta la fine, è esempio del padre mafioso «collezionista di donne» (p. 183, grassetto corsivo in originale). Fanno eccezione il Prologo, in cui però le due voci sono ancora una, il capitolo dodicesimo su cui andrà fatto un discorso a parte, e l’undicesimo, l’unico capace di mettere in discussione la bontà della correlazione appena individuata, perché è privo di commenti ed è dedicato al tema delle sessualità non binarie, dell’omosessualità nel mondo della criminalità organizzata.

L’assenza può forse venir spiegata banalmente, con la brevità del capitolo (pp. 198-210), o forse imputata alle difficoltà argomentative a cui va incontro il narratore. Quest’ultimo cerca infatti, e per esempio, di sostenere che a causare l’omicidio di un affiliato all’ndrangheta sia stato il suo orientamento sessuale. Il narratore presenta anzi la cosa come certa, ma solo per trovarsi in un secondo momento costretto ad ammettere l’esistenza di un’altra ricostruzione, secondo cui l’uomo sarebbe stato ucciso non a causa della sua omosessualità ma perché avrebbe minacciato di parlare con la polizia: «se le cose non fossero cambiate, si sarebbe messo a cantare.» (p. 204) Il narratore cerca a questo punto di individuare un minimo comun denominatore tra le due versioni dei fatti, così da eliminare gli attriti tra le due versioni, e arriva a formulare l’interrogativo che segue: «quale picciotto, in presenza di una prospettiva, di fronte a un futuro florido, d’amore e di convivenza con la persona amata, non si lascerebbe tentare dall’idea di mandare tutto al diavolo, padrini e compagnia bella, per respirare finalmente aria pulita?» (p. 204) La domanda è legittima, e la necessità che essa attribuisce al protagonista della vicenda è certo, se non verosimile, almeno condivisibile. Tuttavia, dando così senso ai fatti, il narratore finisce per togliere rilevanza all’orientamento del protagonista, con il conseguente allontanamento dagli obiettivi intersezionali dichiarati nel prologo e ribaditi in apertura al capitolo.

Che questa spiegazione convinca, e che dunque la correlazione tra temi e gestione della pagina sia esatta o soltanto parziale, le difficoltà di Noi due ci apparteniamo rimangono sufficienti a motivare un giudizio negativo. Dalla malriuscita del libro inoltre, ed è questo il vero problema, sembrano diramarsi crepe capaci di percorrere l’intero affresco della criminalità organizzata prodotto da Saviano nel corso di ormai quasi 20 anni. Fuor di metafora, in Noi due ci apparteniamo si cerca di intersecare questione femminile/di genere e una specifica visione del crimine, stando alla quale la malavita sarebbe una sottocultura e la sua esistenza andrebbe letta come espressione storica di un’entità transtorica: il Male. Come detto l’operazione non riesce, e la fallimentare applicazione di questi presupposti, che non riescono a far presa davvero sulla materia trattata, finisce per metterne in discussione la bontà. Bisogna dunque provare a entrare un po’ più nel dettaglio di questi assunti, e lo si può fare ricordando che la criminalità organizzata raccontata da Saviano è portavoce di valori, forme di socialità e di gestione del potere di tipo premoderno. A questa concettualizzazione appartiene l’idea secondo cui il criminale, come i sovrani classici, è colui che desidera la conquista di territori e onore; usa la forza non per proteggere ma per dominare, per uccidere il nemico o per punire l’infedeltà («Questo vuol dire comandare. Decidere delle sorti di un territorio, di un’intera nazione. […] E farsi rispettare. Farsi temere.» Noi due ci apparteniamo, p. 228). Per opposizione, leggibile con le lenti messe a disposizione da Michel Foucault in Sicurezza, territorio, popolazione, a questa rappresentazione del crimine appartiene anche la caratterizzazione di coloro che lo contrastano. Gli obiettivi delle autorità civili, religiose e dello stesso Saviano sono salvare, curare e, con un’immagine cara al pastorato cristiano, condurre il «gregge» (Gridalo, p. 525) verso “pascoli migliori”.

A questa schematizzazione generale possono venir riportate le tesi principali di molti degli articoli e dei libri di Saviano, e appunto anche di Noi due ci apparteniamo. Tra queste l’idea del mafioso come patriarca retrogrado, impegnato a respingere l’idea (moderna) dell’unione per amore – «Ci si sposa con la mente, non con il cuore.» (pp. 24-25) – a cui preferisce politiche matrimoniali volte a irrobustire o a fondare una propria dinastia; le donne sono solo uno strumento, utili a siglare accordi e a costruire alleanze. Allo schema generale si può però riportare anche la rappresentazione dell’alternativa alla sottocultura mafiosa, a cui appartengono non solo la parità di genere, la primazia dell’amore sulle logiche dinastiche, ma anche e soprattutto un’idea di amore agapico non lontana da quella del cristianesimo.

L’amore è entropia pura, è disordine, è caos. È la ventata che entra smargiassa dalla finestra quando già il croupier aveva ordinato bene il mazzo, si era fatto i suoi piani con il massimo profitto. Conosceva già gli esiti.

L’amore se ne fotte. Spariglia le carte e lo fa come vuole lui, entra come una folata di anarchia e butta tutto all’aria.

Quando entri in una ’ndrina impari a chiudere la finestra. Quando sei in una paranza ci fai molta attenzione. Il superboss ’ndranghetista Pasquale Condello, detto ’u supremu, il supremo, vuole che la figlia sposi un affiliato. Il fatto che lei ami un altro uomo non conta nulla. (p. 24)

L’amore è insomma capace di sconvolgere le vite e i piani terreni degli uomini, costretti quasi come pescatori evangelici ad abbandonare i loro progetti così da poter rispondere alla chiamata. Entrare nel mondo della criminalità organizzata significa – e allora Paolo Di Lauro (cap. 10) che abbandona i suoi doveri per inseguire una ragazza? – precludersi questa possibilità, rinunciare a rimanere nell’amore divino; «chiudere la finestra» così da tenere lontano una forza che non sembra troppo dissimile dalla rûah (vento, respiro, soffio) biblica. Detto altrimenti, e in poche parole soltanto, all’opposizione storica tra criminale (forza del passato) e non criminale (forza progressista ed egalitaria) viene attribuito significato ontologico. Diventa, come accennato, espressione storica della lotta transtorica tra Bene e Male.

L’applicazione di questi presupposti, e dunque il tentativo di distinguere mafia e non-mafia lungo le direttrici del presente/passato e del Bene/Male, non sembra però funzionare. Non solo si faticano a recuperare materiali adatti a sostenere le tesi del libro, in cui come si è visto finiscono per venir inclusi episodi che le contraddicono, ma si racconta una mafia che non è più intollerante delle società – italiana e non – di cui fa parte; forse è capace di essere più violenta, anche se si ha il timore che la cronaca riesca a provare il contrario. Qualcosa del genere vale inoltre per le regole di condotta sessual-sentimentale di cui parla il libro: non solo i mafiosi danno valore alla monogamia, e non solo a loro è capitato di rinunciare a una storia d’amore per interesse; di certo violenza di genere e matrimoni di convenienza non hanno luogo solo tra criminali. Alla prova dei fatti, e sono quelli raccontati dal libro stesso, non sembra reggere la divisione culturale netta tra criminali e non criminali. Non regge però neppure quella del malavitoso che ha chiuso il proprio cuore al “vento”. Lo provano il caso di Paolo Di Lauro e quelli dei molti che nel libro mettono a rischio la propria vita, posizione o libertà – la polizia così cattura i latitanti – per seguire il proprio cuore.

Insomma, a vent’anni dalla pubblicazione di Gomorra è forse arrivato il momento di chiedersi a che cosa sia servito abbandonare l’universo dei fenomeni sociali per venir «trasportati di colpo nel regno del Male» (Dal Lago, Eroi di carta, p. 29): ci permette di fare qualcosa in più? Ci dovremmo chiedere la stessa cosa a proposito della concettualizzazione della malavita come sottocultura reazionaria, e a proposito dell’utilità delle categorie del cristianesimo e più in generale della spiritualità. Come in qualche modo mi è già capitato di dire altrove, il fondo spirituale che fin da Gomorra sostiene la riflessione e la testimonianza di Saviano è fin troppo simile a quello di cui ci parlano le teorie del management contemporaneo. Si noti del resto anche che l’approccio spirituale alla questione di genere, oscuramente tentato da Saviano in Noi due ci apparteniamo, ci porta verso la rinuncia al fondo materialista del femminismo – ne ha parlato una quindicina d’anni fa Rosi Braidotti – in Italia già prima proposto e popolarizzato da Michela Murgia. Davvero è questa l’unica strada per affrontare le grandi questioni del presente, compresa quella del crimine organizzato? Che fine hanno fatto le donne «in precario equilibrio tra modernità e tradizione, tra gabbia moralistica e totale spregiudicatezza nell’affrontare questioni di business», di cui Saviano parlava (qui) nel 2009? E le donne boss, a cui viene data voce per esempio nella serie TV Gomorra, che posto occupano in questo quadro? Dove sono finiti il broker della cocaina e il criminale epitome della società accelerata del tardo capitalismo, che ancora facevano capolino in Gomorra e in ZeroZeroZero?

Queste domande sono molto probabilmente destinate a rimanere senza risposta. Eppure formularle è un dovere, non solo per l’importanza dei problemi trattati da Saviano, ma evidentemente anche per il ruolo politico e culturale che lo scrittore ha finito per ricoprire: è a lui che Fanpage.it chiede di commentare un’inchiesta come quella dedicata alla Gioventù Meloniana. Si è però scelto di dar forma a queste domande, e più in generale di leggere così da vicino Noi due ci apparteniamo, anche per provare a soddisfare il desiderio espresso dal narratore in apertura all’ultimo capitolo del libro, quello di provare a «capire quale effetto produca» nei lettori la storia che «ha come protagonisti Francesco Bidognetti e la sua compagna Anna Carrino» (p. 211). Si tratta di una vicenda autobiografia, in cui al racconto della vita sentimentale di Bidognetti, autore delle minacce che hanno fatto finire Saviano sotto scorta, si mescola a quello della “prigionia” dello stesso Saviano. Da questa ha evidentemente origine il desiderio di vendetta che anima il racconto, e forse anche la migliore qualità letteraria dell’ultimo capitolo del libro, decisamente non pastorale.

Leggendolo vengono in mente le diagnosi di Walter Siti, ma forse soprattutto l’invito che Goffredo Fofi, come ricorda lo stesso Saviano in coda alla Bellezza e l’inferno, è stato il primo a rivolgergli: «guardare fuori dalla […] finestra» (La bellezza e l’inferno, edizione elettronica). Quella “stessa” finestra ora è chiusa, perché aprirla sarebbe rischioso, perché così vuole il protocollo di sicurezza. Ciò non significa che il consiglio di Fofi sia oggi meno valido. Se cioè la finestra non si può aprire, se il panorama è ridotto alle imposte, si deve allora parlare di stanze chiuse e della loro angoscia; dare al desiderio di vendetta, all’odio o a chissà che altro tutto lo spazio di cui hanno bisogno. Scacciarli consolandosi con l’affetto dei lettori, usarlo per dimenticare il «il giorno in cui sono stato punito» (p. 238) è una comprensibile necessità, che temo impedisca di vedere contraddizioni e limiti di ciò che si è fa, ma soprattutto di interrogarsi sul futuro a cui un simile agire intellettuale conduce.

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