di Francesco Brancati

 

Dopo gli interventi di Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Andrea Inglese, Marilena Renda, Marco Pelliccioli, Antonio Perozzi, Andrea Accardi, Dimitri Milleri e Mariagiorgia Ulbar, giunge all’ultima puntata il dibattito sui possibili rapporti fra autenticità e poesia con l’intervento di Francesco Brancati. Proprio oggi, a PordenoneLegge, avrà luogo la tavola rotonda che ospiterà oltre alle due ideatrici del progetto, Laura Di Corcia e Maria Borio, il poeta e drammaturgo Giorgiomaria Cornelio.

 

Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?

 

Riflessioni e interpretazioni relativistiche come quelle che si sono sviluppate durante il postmoderno sono compatibili con una visione nichilistica della realtà. Una parte di queste idee, come si sa, risponde alla crisi delle ideologie novecentesche variamente fondate su un principio di conoscenza frammentato e schizofrenico quanto si vuole eppure di tipo positivo poiché, al contrario del pensiero debole, ipotizzava ancora un’azione da compiere, una rivoluzione da fare, un abisso della coscienza da perlustrare. Il crollo di un mondo dove, seppure parziali, esistevano ancora delle verità da proteggere, come recita l’ultimo bellissimo verso di E questo è il sonno, da Composita solvantur («Proteggete le nostre verità»[1]), ha agevolato una forma di deresponsabilizzazione dell’individuo di fronte alla storia, che peraltro si postulava finita. Cos’altro restava da fare nella sterminata landa del progresso liberale se non constatare che la forma occidentale del vivere aveva vinto più o meno ovunque? Opere come Ok Computer o Dummy trasmettono bene questa sensazione di alienazione e paura, vi contrappongono una sorta di rabbia malinconica. Il passaggio del decennio, simbolicamente sintetizzato dall’attentato alle Twin Towers, ha causato un brusco risveglio dall’amnesia: di colpo ci si è resi conto che la storia esiste ancora e che a farla possono essere benissimo popoli e luoghi diversi da quelli imposti dalla logica della guerra fredda. Avere tredici o quattordici anni nel 2001 poteva essere strano; da un lato le idee di movimenti come quello di Seattle o libri come No logo di Naomi Klein circolavano ed erano discussi anche in Italia, dall’altro si assisteva impauriti e inerti al massacro di ragazzi di qualche anno più grandi in televisione. Per la mia generazione i fatti di Genova, l’omicidio di Carlo Giuliani e la mattanza alla Diaz hanno reso concrete le letture del mondo in cui il vissuto sopravanza di molto le possibilità del realismo, al confronto con la cronaca i cannibali (e non tutti) apparivano giusto un tantino più credibili di Piccoli brividi.

 

Se, a maglie larghissime, questo è lo sfondo politico-sociale che ha agito più o meno direttamente a stabilire le coordinate di una formazione durante il periodo della primissima adolescenza, devo dire che quanto è successo dopo, durante gli anni zero e dieci, ha amplificato la necessità di aprire uno spazio di creazione a livello individuale e collettivo in qualche modo ‘autentico’. La parallela indistinzione tra i due piani ha favorito l’affermazione delle poetiche queer: a differenza dei movimenti pre-G8 il corpo è diventato la base di partenza per una rifunzionalizzazione che aspira a essere comune, dal momento che in un’epoca di individualizzazione estrema e di privatizzazione forzata il proprio corpo è l’unico spazio che si è in qualche misura certi di possedere, il luogo dove un cambiamento è percepibile. I movimenti LGBT+ e il pensiero ecologico sono stati e continuano a essere i catalizzatori di esperimenti dove la ricerca dell’autenticità si è unita a un bisogno di eticità diffusa fondata sulla volontà di superare la dimensione antropocentrica.

 

Nel contesto del paesaggio appena sbozzato è necessario che la ricerca del potenzialmente autentico, per essere davvero tale e non rivelarsi l’ennesima superfetazione dell’io, venga condotta con i materiali che l’esperienza concreta mette a disposizione. Se la vita è avvertita come franta e la coscienza percepisce l’invasione di narrazioni del sé esterne che contribuiscono a costruire una personalità, parlare di autenticità come se si trattasse di un territorio perduto, pensarla come un’originaria purezza da ritrovare, non ha senso: anche l’idea che ciascuno di noi ha di sé stesso è una costruzione fondata su una serie di compromessi tra mondo esterno e mondo interno. Non a caso, credo, i primi due decenni del secolo sono stati letti alla luce dell’hauntologizzazione del passato, un modo di guardare al futuro attraverso lacerti, barlumi, riconfigurazioni di mondi che non si è nemmeno sicuri di avere effettivamente vissuto. Il potenziale simbolico, ambientale e narrativo di tale proiezione nostalgica apre a territori poetici ancora non esplorati. Come ha confidato Burial durante un’intervista a Mark Fisher: «Una ragazza mi ha raccontato la storia più terrificante che abbia mai ascoltato. Alcune di queste storie restavano in sospeso. Non vanno a finire come i film, che sono troppo semplici, troppo normali, fiacchi. Quelle storie sembravano vere e non riuscirò più a dimenticarle. Certe volte magari vedi degli spettri»[2]. Trovo questa dimensione molto vicina a quella della poesia, un genere che per suo statuto scopre lo stato ideale della sua espressione nello spazio aperto tra una percezione consapevole della coscienza e del mondo e il rimanente onirico, l’inconsapevolezza e la paura che ti fa camminare in mezzo ai fantasmi. In questo senso l’autenticità può legarsi al tentativo di esplicitare il vissuto psichico di una persona in quanto individuo infestato da una serie di ossessioni che, come hanno insegnato Deleuze e Guattari, non sono mai soltanto una questione privata, esauribile nell’ambito della psicanalisi. In alcuni casi, come è successo per esempio a Kafka, questi procedimenti riescono a rappresentare lo zeitgeist di un’epoca proprio perché chi li ha concepiti si è posto prima degli altri il problema di essere spietato, più che autentico, con i propri incubi, senza farsi sconti.

Penso che la poesia possa tenere conto di tutto ciò per condurre una riflessione su cosa sia e cosa non sia autentico, tenendo sempre presente che una declinazione ingenua del concetto di autenticità scade spesso nel patetico e nel confessionale. Penso pure che i poeti dovrebbero ascoltare di più Burial.

 

L’autenticità sembra distinguersi dalla verità: la prima partirebbe da una spinta interiore, dalla necessità individuale di poter esistere e agire secondo il proprio sé, mentre la seconda sarebbe legata a un orizzonte esterno, dal momento che il discorso della verità deve comunque poter essere condiviso. Seguendo, però, le riflessioni che abbiamo ereditato da Jacques Lacan, il desiderio presenterebbe un duplice volto, ovvero giungerebbe sempre dall’altro (il Grande altro), ma manterrebbe anche delle sue caratteristiche intrinseche (il desiderio è anche mio, e di nessun altro). Che rapporto c’è fra desiderio e autenticità?

 

L’autocitazione è una pratica inelegante e che finora non mi era mai capitato di adottare, ma un verso del primo testo con cui si apre il mio primo libro, L’inesploso, dice: «l’attesa del vero uccise il reale»[3]. Che cosa volevo dire con questa frase? Ripensandoci adesso ritengo che fossi infastidito da tutte quelle posture che in poesia, o più generalmente in letteratura, reputassero il concetto di verità come un qualcosa di inamovibile e assodato. La stessa idea di «esistere e agire secondo il proprio sé», come ho già parzialmente detto nella risposta precedente, mi sembra del resto problematica e non corrispondente al mio modo di intendere le varie modalità di espressione estetica del sé. Le forme dell’autobiografia moderna occidentale hanno inseguito il mito fondativo della scrittura dell’io per oltre due secoli. Nella seconda metà del Novecento tanto l’autenticità quanto la verità hanno necessitato di una convalida da parte dei mondi al di fuori del soggetto, proprio perché si è giunti a un sufficiente livello di consapevolezza riguardo alle strategie di autoinganno della coscienza. Per fare un esempio: in questo momento sto scrivendo le mie considerazioni sul rapporto tra autenticità e verità sforzandomi di essere quanto più possibile ‘autentico’, ossia cercando di trasferire nella lingua l’insieme di idee e conoscenze sull’argomento che sento di avere. Tuttavia, poiché le possibilità di comunicazione tra sinapsi sono precluse (forse soltanto il suono costituisce un linguaggio quasi assoluto), il processo deve compiersi attraverso una serie di mediazioni. Ciascuna mediazione determina una perdita, per così dire, di autenticità. La prima mediazione è la lingua stessa. Per quanto possa sforzarmi di adottare uno ‘scarto minimo’ tra scrittura ed esperienza, il diaframma dato dall’astrazione simbolica del linguaggio rimane un ostacolo in gran parte inaggirabile. Di ciò occorre esserne consapevoli, anche in quei casi in cui si opta per una sorta di grado zero della comunicazione letteraria, dando vita cioè a una mimesi iperrealista dei processi psicologici e fisiologici che portano all’articolazione linguistica di un pensiero (Finnegans Wake lo ha testimoniato in maniera esemplare). D’altra parte, il classicismo modernista concepiva lo stile come l’insieme dei tratti tipici di un autore, la somma di lingua, metro, ritmo e concezione del mondo conduceva a un risultato che era qualcosa di più di una mera sommatoria dei dati, poiché la particolare configurazione di una materia linguistico-sonora e al contempo semantica garantiva la non falsificabilità dell’esperienza che in quella sola espressione poteva darsi. L’idea di raggiungere l’autenticità mediante una forma ultra individualizzata di artificiosità (gli stili singolari) ha da tempo evidenziato i propri limiti, perciò chi oggi ha la pretesa di elaborare una poetica che tenga conto dell’autenticità in quanto valore deve necessariamente essere consapevole della parzialità della propria elaborazione. Questo assunto non conduce per forza di cose a un esito negativo, al contrario: dalla consapevolezza della parzialità del proprio sguardo e della propria lingua derivano incontri e ibridazioni. Il desiderio di ciò che è ignoto rispetto al sé aumenta le possibilità cognitive dell’uomo e ciò è valido anche per quanto riguarda la ricerca poetica. Gli esperimenti ibridi sono oggi le tipologie di testi che sembrano maggiormente consapevoli di decifrare la realtà, purché non si rinunci a priori all’inseguimento di una forma. Sono affezionato all’idea di forma così come la concepiva Amelia Rosselli, e cioè come una struttura la cui tenuta, per essere effettiva, non può discendere da un a priori imposto dall’autorità di una tradizione, bensì è frutto di un compromesso tra lingua, ritmo, biografia personale e storia collettiva.

 

La seconda mediazione si incontra al livello dell’elaborazione semantica e ideologica di un concetto. In qualsiasi attività che comprenda l’interazione con l’altro si realizza un’azione di oggettivazione di istanze che non esistevano prima della loro messa a punto scritta o parlata. È lecito interrogarsi sull’effettivo tasso di ‘autenticità’ di tali istanze. Per essere fino in fondo sinceri con sé stessi, in altre parole, penso sia conveniente tenere presente che ogni narrazione di sé trattiene una più o meno estesa componente di narratività coartata dalle altre storie con cui nei modi più disparati siamo venuti in contatto e che spesso assumiamo come tratti originari della nostra identità, dimenticando la funzione modellizzante delle pressioni esterne nella fisionomia di un carattere umano. Questa soggezione modella il desiderio e può assumere una valenza sia positiva che negativa. Il motivo per cui tale processo spesso non viene messo a fuoco è in fondo logico da comprendere e riguarda il fatto che fare i conti con la banale riproducibilità della propria esistenza è un atto doloroso per chiunque. Ciascuno di noi si considera un essere dotato di pensieri, sensazioni ed emozioni uniche: comunicarle al prossimo rappresenta il momento in cui l’aggregato di identificazioni si sottopone a una verifica esterna. In un testo della Pura superficie Guido Mazzoni traduce il concetto heideggeriano di Eigentlich (corrispondente a quello di ‘autenticità’) come «Ciò che è sempre mio». Il paradosso delle odierne società occidentali è che «ciò che è sempre mio» è contemporaneamente di mille altri individui che si percepiscono come legittimi depositari di un’identità: «Ciò che è sempre mio è addosso a quelli che mi siedono davanti, dentro vestiti fatti come i miei, nei gesti di questo secolo, nel mio linguaggio». Il valore di questa poesia consiste proprio nell’impiego di un procedimento in fondo lirico (l’io alla ricerca di sé stesso) da parte di un soggetto iperconsapevole circa la dimensione sovrapersonale dell’individualità. Da tale consapevolezza derivano le possibili strategie di reazione; per Mazzoni queste coincidono con la dispositio poetica della punta dell’iceberg della coscienza, la pura superficie è l’inautentico-autentico comunicabile agli altri («Sono quello che vedete»), mentre il vissuto e i pensieri costituiscono la sterminata landa del non dicibile («Io vi fronteggio pensando cose casuali, pezzi di infanzia, significanti puri; voi potete guardarmi mentre nulla mi appartiene»[4]).

 

Sul rapporto tra autenticità e desiderio, del resto, penso siano ancora fondamentali le riflessioni di Judith Butler riguardo alla natura compromessa del soggetto e alla relazione che questi intrattiene con il potere che lo assoggetta: «Se il soggetto si costituisce attraverso una forclusione, ciò significa che il soggetto è il prodotto di una condizione dalla quale prende le distanze e si differenzia. Il desiderio tende a dissolvere il soggetto, ma è allo stesso tempo contrastato proprio da quel soggetto nel nome del quale agisce»[5]. Il meccanismo del desiderio da parte dell’io, in altri termini, avanza secondo spinte di soggezione e di immedesimazione con l’oggetto desiderato e successive fasi di reflusso dove il soggetto prende le distanze dall’oggetto, avendone assimilato quanto è necessario alla costruzione della propria individualità. L’autenticità può coincidere con il gradiente di consapevolezza maturato intorno ai modi con cui il desiderio si manifesta. Non si tratta di determinismo, ci si può solo perdere, e perdendosi si raggiungono spesso i risultati migliori. Basta, come direbbe Vitaliano Trevisan, avere il coraggio di dire la (propria) verità, anche quando la ricerca di questa rivela cose non belle su noi stessi.

 

Utilizzando il filtro problematico dell’autenticità, credi che le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia possano essere ripensate o ristrutturate?

 

I tempi sono più che maturi per superare la stretta dicotomia con la quale, a volte, si guarda al problema del soggetto in poesia. Mi riferisco alla noiosa questione tra lirica vs avanguardia, un’impostazione binaria che ha oramai esaurito la sua funzione storica risalente agli anni Sessanta del Novecento, nonostante ancora oggi qualcuno tenda a riproporla, magari per non perdere il proprio posizionamento nel contesto di micro-micro-micro-bolle comprese nella già non propriamente estesa bolla della poesia contemporanea. La generazione poetica alla quale appartengo, così come quelle immediatamente precedenti e successive, hanno espresso la loro insofferenza verso questa lettura del campo poetico. Letture fondamentali per gli attuali trentenni sono per esempio la poesia di Mario Benedetti e quella degli autori di Prosa in prosa. Entrambe sono percepite come ‘autentiche’ perché secondo stili e necessità espressive diverse hanno tenuto conto delle mediazioni di cui dicevo prima per esprimere e raccontare la realtà personale e sociale a loro circostante. L’autenticità può allora diventare una categoria stilistica? Non saprei fino a che punto, dal momento che è pur sempre facile scambiare per autenticità quel tipo di poesia che tratta di gabbiani al tramonto e di altre chincaglierie del poetichese. Penso che, ancora una volta, il discrimine si ponga nei termini di un’attitudine e di un esercizio vòlto alla verifica delle necessità espressive e al contrasto alle miserie del narcisismo che ciascun poeta inevitabilmente porta con sé.

 

Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?

 

Naturalmente molto di cui ho detto ha un peso nelle diverse fasi di scrittura di un testo, sia esso poesia o prosa. Con L’inesploso ho tentato il procedimento inverso a quello con cui nella terza domanda ho letto La pura superficie, provando cioè a descrivere il movimento dei pensieri trattandoli alla stregua di qualsiasi fatto narrativo che accade al di fuori della coscienza. L’assedio della gioia sperimenta la simultanea presenza di interno ed esterno. Ho applicato un procedimento compositivo proprio del romanzo contemporaneo alla stesura di testi poetici.

Non saprei dire tuttavia fino a che punto proponimenti di natura teorica possano trovare conferma in un’opera letteraria. In genere, quando la simmetria tra i due momenti è perfetta, il testo artistico risulta scadente o comunque non regge al processo di invecchiamento della teoria. Ho scoperto di recente che la mia scrittura si muove sempre su un crinale dove l’ultra consapevolezza lascia il passo allo smarrimento e alla paura. Quando succede, arrivo in posti dove io per primo non sapevo di poter arrivare. Quanto ho appena scritto mi fa pensare a Carlo Bordini. A quel momento a Isola Polvese quando io e Riccardo Socci osservavamo i suoi grossi piedi dentro i sandali nella sabbia del cortile e lui ci diceva che aveva paura del caldo. In futuro mi piacerebbe scrivere testi linguisticamente spasmodici, e un romanzo.

 

 

[1] Franco Fortini, Composita solvantur, in Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, pp. 497-582 (562).

[2] Mark Fisher, Angelo sconsolato. Intervista a Burial, in Id., Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, traduzione di Vincenzo Perna, Roma, Minimum fax, 2019 [2013], pp. 143-153 (151).

[3] Francesco Brancati, L’inesploso, in Roberto Batisti, Francesco Brancati, Marco Malvestio, Hula apocalisse, Rovigo, Prufrock SPA, 2018, 30-67 (33).

[4] Guido Mazzoni, La pura superficie, Roma, Donzelli, 2017, p. 74.

[5] Judith Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, a cura di Federico Zappino, Milano-Udine, Mimesis, 2013, p. 48.

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