di Laura Pugno


Tavola dei nomi e delle materie è un nuovo ciclo di interviste a scrittori e scrittrici, su un loro libro.

A ognuno di loro assegnerò una materia reale o immaginaria – sappiamo che è la stessa cosa –, visibile o invisibile, astratta o concreta, che il loro libro mi evoca, e chiederò di commentare questa scelta.
A ogni scrittore o scrittrice, poi, chiederò di scegliere un nome, alias di parlare di qualcuno, qualcosa, reale o immaginario – anche qui –: luogo o persona, soggetto umano animale vegetale minerale o all’incrocio di tutti questi mondi, del presente o del passato, o addirittura del futuro, che fa parte della materia del libro o che è stato determinante nell’innescare o nel far compiere il processo creativo che ha portato al libro stesso.



Ecco la tua materia


Sonia Aggio, nel romanzo “Nella stanza dell’imperatore” (Fazi), la tua materia è il rovescio e la notte della Storia. In che modo si scopre tutto il potere che è stato un tempo e che ora, dal nostro punto di osservazione abituale, è diventato invisibile? Che tracce ha lasciato questo potere? E in che modo il fantastico, per te, aggiunge fili di storia alla Storia letta in controluce e a rovescio?



La nostra conoscenza della Storia, delle varie forme assunte dal potere nel corso dei secoli è spesso mediata dall’insegnamento che riceviamo a scuola, che incasella fatti e persone secondo una scala di valori molto precisa. Prima di arrivare a Nella stanza dell’imperatore ho avuto la necessità di superare questo scoglio.
La domanda più forte che mi ha guidato nella scrittura è stata: come si racconta un impero che non ci appartiene (non del tutto, almeno) e a cui noi non apparteniamo?
Ci raccontano, ci raccontiamo di essere gli eredi di Giulio Cesare e di Augusto e ci vantiamo del fatto che zar derivi da caesar, ma in effetti ci manca un tassello, un’informazione vitale, perché il termine non è arrivato dalla Roma antica, ma dalla Nuova Roma, da quella Bisanzio che noi ignoriamo. Non a caso nello stesso Impero ottomano rivendica il titolo di qaysar-i Rum.


Sebbene sia triste e spaventoso che di un’entità simile rimangano pochissime tracce monumentali (penso alle mura teodosiane, a Santa Sofia), e che molti documenti preziosissimi siano andati perduti, confesso di aver amato molto questa ricerca per indizi, queste deduzioni partite da cose molto piccole – l’appellativo di una città, una moneta trasformata in pendente per collana, un oggetto rubato durante un saccheggio che mi riporta a uno dei personaggi – per riuscire a raccontare la storia di qualcosa di grande.
E poi, il fantastico!
Non appena lasciamo la sicurezza delle fonti storiche, con il loro lessico e le loro formule, e ci lanciamo nell’impresa di immaginare qualcosa al di là, la scrittura di un romanzo storico si trasforma in una pratica di negromanzia: invochiamo voci defunte, visioni passate.
E dunque, quando guardo nel pozzo del tempo per me è naturale che insieme ai morti si manifestino fantasmi, demoni, tutte le creature fantastiche e gli incantesimi, le premonizioni, le maledizioni di questo mondo – e di tutti gli altri.


Scegli il nome


Chi, o cosa, è stato determinante, per te – a parte l’influsso di Shakespeare e del Macbeth – nello scegliere quali voci, realmente esistite o meno, risvegliare dalla notte della Storia? E cosa ti permette di spaziare – tra il primo e il secondo romanzo, dalla campagna del Polesine negli anni Sessanta alla Bisanzio imperiale prima dell’anno Mille – tra le epoche come se non vi fossero confini?



Può sembrare paradossale, ma ti rispondo utilizzando due tag, due etichette che amo molto e che arrivano, in realtà, dal periodo folle e prezioso trascorso come autrice e fruitrice di fanfiction.
(Rubo la definizione di Wikipedia: Una fanfiction è un’opera di finzione amatoriale scritta dai fan prendendo come spunto le storie o i personaggi di un’opera originale, sia essa letteraria, cinematografica, televisiva, o appartenente a un altro medium espressivo.)
Ecco, l’esperienza di lettura – e di scrittura – in questo ambito mi ha permesso di dare un nome a tendenze che già mi appartenevano, ma che appunto non sapevo definire, e la più importante di queste è sicuramente la nozione di missing moments, che incapsula tutte quelle narrazioni che arricchiscono e completano la storia originale raccontando qualcosa che manca o che è stato a malapena accennato.
Nei miei romanzi cerco sempre questo spazio di manovra, questo vuoto, queste mancanze che mi permettono di introdurmi nella Storia, di aggiungere qualcosa di mio a un racconto già codificato.
Qui entra in gioco anche la seconda etichetta, ovvero What if…?, E se…?, che apre ulteriori possibilità e deviazioni anche in una storia che pare scolpita nel marmo.



Nel caso di Nella stanza dell’imperatore questa sensazione è stata molto potente, amplificata, perché sia la storia bizantina che la vicenda di Giovanni Zimisce avevano delle caratteristiche che mi hanno permesso di giocare molto con questi concetti; infatti la storia di Bisanzio si conclude nel 1453, con la caduta di Costantinopoli, una fine violenta, con l’assorbimento da parte di un altro Stato con una lingua, una cultura e una religione diversa.
Giovanni Zimisce subisce, all’interno di questo processo, lo stesso fato, per cui i documenti che parlano di lui, un imperatore minore, sono scarni, lacunosi, a volte contraddittori – ed è qui che mi posso incuneare, qui che abbandoniamo le certezze della Storia per far crescere il romanzo.

Per rispondere all’ultima tua domanda, la scelta di spaziare tra le epoche (un’espressione che mi piace moltissimo) arriva dalla combinazione di tre fattori: il mio interesse per personaggi ed eventi storici molto diversi tra loro; almeno un momento di vuoto – nel caso di Magnificat, ad esempio, si trattava una manciata di ore di cui non esiste una cronologia esatta – da cui sviluppare la narrazione; la fiducia che con lo studio e la cura si possa scrivere qualcosa di accurato e buono.

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