di Andrea Cortellessa

 

Dalla mitica «scarpiera» di Manganelli, disseminata per vero in differenti più o meno pubblici archivi, proseguono a zampillare inediti, «almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi». E se non sono nuovi di zecca si provvede a rinfrescarli, ampliarli, propagginarli: proprio come farebbe, da vivo, un riscrittore della schiatta di Manzoni Gadda Arbasino Pontiggia (il che peraltro Manganelli non faceva: per lui, sempre buona la prima). Le Lettere familiari che fa uscire adesso nottetempo (dopo le Lettere senza risposta a Viola Papetti pubblicate nel ’15, alle quali sono seguite – l’anno scorso da Sellerio, a cura di Silvano Nigro – quelle non meno erotiche alla Ebe Flamini di Mia anima carnale) erano in effetti già note, agli aficionados più maniacali, stampate com’erano nel 2008 in un pochissimo circolato libretto Aragno che, per ironia della sorte, s’intitolava Circolazione a più cuori. Lietta Manganelli, che nel frattempo – nel centenario di due anni fa – ci ha regalato una fragrante biografia non solo aneddotica di suo padre, Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, tira fuori per l’occasione una ventina di addendi preziosi: oltre a sette fogli coi disegnini istoriati dalla non disprezzabile mano del Manga, quattro lettere alla fidanzata (poi per breve tempo moglie) Fausta, e undici alla madre Amelia (spesso anche al fratello Renzo, che s’era accollato in casa l’ingombrante genitrice «capace di rendere luttuoso un ballo a corte sotto Luigi XIV», scrisse una volta l’esasperato Giorgio a Giovanna Sandri nel primo suo carteggio pubblicato: Costruire ricordi, curato da Graziella Pulce per Archinto nel 2003). Completano il lotto le lettere alla stessa Lietta (figlia a lungo de lonh che nella vita – e a casa – di suo padre, giusta un’arcinota aneddotica, mette piede solo adolescente, all’uscita dell’opera prima Hilarotragoedia) e le due straordinarie scritte alla cognata Angiola, nel ’73, in morte di Renzo (anticipate da Adelphi, fuori commercio, in morte dello stesso Manganelli diciassette anni dopo).

 

Queste due prodigiose “consolatorie”, la cui tessitura retorica – dalle volute ampie e dalle agudezas solenni, d’un barocco “ambrosiano” ben diverso da quello flamboyant che faceva scoppiettare il Manganelli “pubblico” – non le farebbe sfigurare fra quelle di Boezio, testimoniano come la fosca educazione cattolica della madre «luttuosa», sebbene abiurata con violenza in età adulta («non c’è critica che non sia criti­ca dell’idea di Dio, non c’è libertà che non sia libertà da Dio. Siamo tutti sulla strada di Lucrezio», aveva scritto nel ’52 negli Appunti critici), fosse rimasta ben acquattata in fondo alle sue ossessioni: in quel «luogo terribilmente oscuro e luminoso» dove, ha scritto una volta Pietro Citati, «abitava la parola Dio, la parola mai nominata, che costituiva il suo argomento essenziale». Con contrappasso eloquente – scopriamo nelle lettere ora desecretate – proprio a sua madre (che, digrignava al fratello, «mi camminò sopra storpiandomi per sempre») doveva chiedere un aiuto economico, il Manganelli «avventizio» più che trentenne degli anni Cinquanta, per potersi comprare un cappotto o, peggio, per «curarsi». Finché non s’imbatterà (grazie a Cristina Campo) in «un anziano tedesco» che «vive a Roma da molti anni»: l’incontro del ’59 con Ernst Bernhard, lo psicoanalista-mentore che gli «insegne a mentire», risolverà molti di questi nodi (a Fausta scriverà d’aver capito finalmente, allora, «che sia stato un bene che la nostra famiglia si sia sciolta»).

 

In testa al libro, però, la novità più sollecitante sono senz’altro le quaranta pagine prefatorie di Giorgio Vasta. Sul culto tributato a Manganelli dagli scrittori d’oggi ha ben scritto il giovane Emiliano Ceresi (negli omaggi centenari delle riviste «Riga» e «L’Illuminista»), ed è fenomeno che meriterebbe un discorso a parte. Qui mi limito a osservare che, come nel caso “parallelo” di Zanzotto in poesia, le cose più interessanti su Manganelli le scrivono quelli che in termini strettamente stilistici sembrano, o sono, più distanti da lui. È il caso per esempio di Giorgio Montefoschi, fra i pochi a rendersi conto – proprio su queste pagine – della portata delle famose lettere alla cognata. Per parte sua, Vasta si presenta nei panni del «ladro» che, proditoriamente ammesso all’intimità febbricitante del prestigioso estinto, fruga fra le sue carte (un po’ come farebbe, se solo potesse, lo «scribacchino» filologo di Henry James in quelle di Jeffrey Aspern) con un «senso di colpa che non si distingue dall’euforia».

 

In questi casi però lo scrittore-ladro in genere sbriga la «violazione di domicilio» (come chiama la sua Vasta nell’opera di Manganelli: mimando chi vagheggiava certo suo pasto, viaggiando nei diletti Orienti, efferatamente prossimo al «vilipendio di cadavere») sgraffignando con sé quanto gli serve, o solo lo incuriosisce, e via. E invece stavolta l’effrattore nel domicilio violato s’attarda, come quello acciuffato quest’estate al quartiere Prati (a due passi, cioè, dall’ultimo domicilio di Manganelli, in via Chinotto numero otto interno otto) perché messosi a leggere un certo libro sugli scaffali del derubato. L’insistenza di Vasta è sospetta: in questa casa deve aver trovato qualcosa che lo riguarda da vicino.

 

Dice una cosa molto giusta, intanto, riguardo alla porzione più imbarazzante del repertorio: proprio come i rigurgiti di cattolicesimo, il registro infantiloide delle lettere scritte a ventiquattro anni (non a quattordici) alla severa Fausta («mamina è lontana, lontana… e il cuoricino di Piccolino è pieno da anta, anta nostalgia. Spallina, paroline, capelini, faccina bellina, tutta mamina manca lui per essere felice») non viene mai annichilito del tutto, dal Manganelli maturo; e non solo perché il suo sarcasmo salutare, nei confronti d’ogni sentimentalismo, è controveleno che scende dritto dal desengaño d’allora, ma perché vi resta sottesa «la nostra fisiologica bêtise», il «suono di falsetto» che «piangendo e ridendo scaturisce sottile dal ceppo di legno all’inizio di Pinocchio». L’assiderante censura del «qualcosa da dire», nella Letteratura come menzogna, provvede a cancellare (e non solo a «ridurre», come predicato dai soci del Gruppo 63) l’io; ma se a «Giorgio» si sottrae «io» quello che resta è «grg»: «un ruggito piccolo piccolo, un brontolare d’intestini», scrive Vasta, che di quelle smancerie è rovescio simmetrico e sintomo eloquente.

 

Lo aveva intuito in tempi non sospetti, e verosimilmente senza nulla sapere di tutto questo viluppo biografico, un lettore di proverbiale acutezza come Enrico Filippini. Quando anche lui coltivava una vocazione da narratore che provvide poi a nevroticamente inibirsi intralciarsi e «coartarsi» per conto proprio (se ne salvarono due soli racconti, ma mirabili, come Settembre e In negativo), Filippini prese parte al secondo convegno del Gruppo 63, a Reggio Emilia nel ’64, e venne dunque invitato a dire la sua da Eugenio Battisti, sulla rivista semi-ufficiale del Gruppo «Marcatré». Prima di lui aveva parlato appunto Manganelli, in un intervento divenuto poi discretamente celebre, sugli «amici dissidenti» dell’avanguardia (dissidenti non solo nei confronti dell’establishment, ma l’uno contro l’altro e anche, possibilmente, ciascuno con sé stesso). Filippini dice invece che «il problema dell’avanguardia è quello di stare sempre bene attenta ad essere proprio nuda»; Battisti lo interrompe dicendo che «è il contrario di quanto dice Manganelli» e allora Filippini risponde: «Non credo che sia il contrario. Manganelli mi sembra proprio bello nudo».

 

In un’altra delle lettere pubblicate qui per la prima volta, alla fine di quel decisivo ’59, facendo il vago («è una mia vecchissima curiosità») Manganelli chiede alla madre l’ora «quanto più possibile esatta» della propria nascita. È stato Bernhard a chiedergliela, certo, per fargli il quadro astrale (come a Emanuele Trevi, neonato del discepolo Mario, racconta lui nella Casa del mago; e chissà se quello di Manganelli è rimasto fra le carte del «mago» venuto di Germania). Quella domanda, angosciosa nella sua levità apparente, è la stessa che si fa ciascuno di noi. I topici chi siamo da dove veniamo ecc. Ma ha ragione Vasta: nessun «segreto» viene svelato, da queste carte pur così rivelatorie. La vita privata di un artista è fatta della stessa materia vile, dello scialo di triti fatti di cui è fatta anche la nostra: «tutto l’ovvio imprevedibile – la littorina passa all’una e mezza; abbiamo ricevuto adesso un espresso; stamattina ho visto il professore; non ti immagini nemmeno cosa è successo!». È questa la «verità», sciocca e decisiva come ogni verità, che bisogna prendere per i capelli «e trascinarla in una regione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso». È solo così che un «piccolino» qualsiasi, ahilui, può diventare un genio.

 

Giorgio Manganelli, Lettere familiari, con un testo di Giorgio Vasta, nottetempo, 2024, 280 pp. ill. b.n., € 18,50

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita sulla «Lettura» del «Corriere della Sera»

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