di Gabriele Pedullà

 

[E’ appena uscito per Einaudi Certe sere Pablo, il nuovo libro di Gabriele Pedullà. Proponiamo le prime pagine del secondo dei tre racconti lunghi di cui il libro si compone].

 

June – too soon
July – stand by
August – you must

September – remember

October – all over.

Proverbio del Mar dei Caraibi

 

… ah, Pablo, Pablo. Senza dubbio la prima cosa che ti colpiva era la sua bellezza. Anni dopo, quando ormai appartenevamo entrambi alla stessa generazione di ex giovani, come succede sempre in questi casi i giornali hanno cominciato a raccontare che a quel tempo eravamo tutti belli, ma proprio tutti, con quei capelli lunghi che ci facevano assomigliare a tanti Cristi efebici, alti e magri, spirituali, probabilmente la prima generazione di italiani che grazie a una dieta variegata e alle proteine giuste aveva vendicato l’atavismo secolare di un popolo di nanerottoli e di Veneri tascabili – e qui penso soprattutto a noi del Centro-Sud (ma mica solo), i brevilinei per eccellenza. Sarà. Poi però mi dico che è soltanto merito dei fotografi, i nostri fotografi, che erano amici e che per questo sapevano catturare quell’immagine cosí allegra e spensierata che oggi gli scatti di quegli anni suggeriscono immancabilmente a chi, come te, non c’era ancora. Rivoluzionari ma allegri, rivoluzionari ma romantici: l’idea, un poco, credo fosse quella. O forse no (anzi, a ripensarci, no di certo): rivoluzionari perché allegri, rivoluzionari perché romantici. Ecco. Assai piú probabile fosse cosí: pure per loro.

 

I dettagli, in quelle foto, sono la cosa piú sorprendente. Facci caso. I baffoni minacciosi ma autoironici, le trecce lunghe da ragazza di campagna, L’accumulazione del capitale letto svagatamente sul prato in mezzo a una distesa di adolescenti spensierati, come in quella sequenza del Festival di Parco Lambro che rispunta inesorabile allo scoccare di ogni anniversario. Le gonne lunghe, le camicie a quadri. I girotondi delle femministe. I bambini, dappertutto, in una gioiosa confusione delle generazioni e delle età, anche se in queste foto i piú perplessi sembrano sempre loro, intimoriti dalla baraonda e a volte persino tristi, fuori posto, mentre i grandi, invece, hanno piuttosto l’aria di divertirsi un mondo. O magari la ragazza simbolo del maggio francese, la foto la conosci di sicuro pure quella: statuaria, lo sguardo fisso in avanti alle sfide di domani, il petto proteso come la carena di una nave, la bandiera vietnamita impugnata con la sinistra, sulle spalle di un uomo che non si vede e che per questo potrebbe essere chiunque, tu, io, il popolo di Francia, entrambi immersi nella folla, i cento, i mille studenti attorno a loro che avanzano compatti tutti assieme in direzione del punto archimedico da dove ci si attende sorga il sol dell’avvenire. Ho scoperto che i manuali delle scuole superiori la usano ancora per illustrarci il Sessantotto: sai certamente di che sto parlando. Con quei lineamenti, con quella luce negli occhi non potevamo che aver ragione noi.

 

Che vuoi che ti dica? Con tutto il tempo che è passato… Non so se fossimo davvero spensierati, ma a guardare quelle foto viene da crederlo sul serio. Di sicuro ci piaceva quella frase: «Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che è l’età piú bella della vita». Questo pure me lo ricordo bene. La conosci, no? Anche in francese, all’epoca ce la ripetevamo tutti, una sorta di biglietto da visita, un modo per presentarci al mondo e per far sapere agli adulti che non si facessero illusioni perché, nonostante i sorrisi a destra e a manca e quell’allegria ostentata, ci apprestavamo a mettere sulla bilancia della Storia tutta la nostra rabbia. Erano avvertiti: j’avais vingt ans, je ne laisserai personne dire que c’est le plus bel âge de la vie. Già… Da quanto tempo non la sentivo pronunciare! E devo confessarti che, a masticarla di nuovo, mantiene ancora un buon sapore. Un giorno però, tutto a un tratto, nessuno di noi aveva piú vent’anni e non c’era piú motivo di stare a discutere sulla felicità o sull’infelicità di una cosa che ormai ci eravamo lasciati tutti alle spalle e che, senza alcun merito o demerito particolare, aveva finito per non riguardarci. Allora abbiamo semplicemente smesso. Immagino che invece il nome di Paul Nizan a voi non dica nulla…

 

Dai, mica mi riferivo a te. Come sei suscettibile! Parlavo in generale, pensavo ai tuoi coetanei. Agli immemori del nuovo secolo. E poi ogni generazione è libera di scegliersi i propri portavoce, e voi avrete i vostri come noi avevamo i nostri, no? Piú che legittimo mi sembra doveroso. Perché, sotto sotto, certe cose non cambiano davvero: almeno questo, invecchiando, l’ho imparato. Un po’ come per la speciale bellezza dei ragazzi e delle ragazze di quegli anni. La verità è che i nostri fotografi sceglievano solo i piú fotogenici, esattamente come fanno ora. E, infatti, si è scoperto dopo che persino la ragazza simbolo del maggio francese era una mannequin professionista (la quale, per di piú, ha passato la vita a intentare processi a questo e a quello nella speranza di farsi riconoscere qualche diritto sulla fotografia che l’aveva resa cosí famosa per poi lucrarci sopra…) Oggi, certo, i loro scatti li possono ritoccare al computer, ci sono fior di programmi che fanno meraviglie a questo scopo, e domani li disegnerà probabilmente un algoritmo, ma all’epoca se eri un fotoreporter ti toccava andare in giro a cercarti i volti potenzialmente memorabili: quelli che, a occhio e croce, si sarebbero impressi con piú intensità nella retina dell’uomo del futuro. Direi anzi che, a conti fatti, ci sono riusciti piuttosto bene, quei nostri fotografi, non credi? Perché la famosa società dello spettacolo è innanzitutto questo, un’immensa accumulazione di immagini cosí potenti da sostituirsi addirittura alle cose e all’esperienza – tanto per citare un’altra espressione che aveva cominciato a circolare allora e che a quel tempo usavamo tutti per i fenomeni piú vari.

 

Pablo, invece, bello lo era di sicuro. Anche in mezzo a tanta gente non potevi non notarlo, per primi gli occhi (certo), neri neri, e quei capelli ricci, un po’ infantili, da Nazareno, o il suo sorriso, pacato e ironico: sicuramente la sua principale qualità. L’avevo conosciuto come il ragazzo di una compagna di classe del liceo. L’ultimo anno delle superiori Pablo veniva a prendersela in moto, un paio di battute e se la portava via, addio Clara e addio Pablo. Poco altro: lui ingranava la marcia e un attimo dopo erano già lontani. Cosí ogni volta. Deve essere stato l’autunno del Sessantasette quando hanno cominciato a farsi vedere assieme. A quell’epoca davano l’impressione di una coppia molto affiatata, lo capivi da come lei aderiva alla sua schiena dal sellino posteriore, le mani attorno alla vita e la testa appena reclinata sulla spalla, in quel modo inconfondibile di certe donne che è un dirti di sí con tutto quanto il corpo. Le canne cromate della moto scintillavano e loro sembravano felici: soprattutto lei non se lo nascondeva. Dopo la scuola o a conclusione di una pizza con gli amici lo vedevi comparire all’improvviso, cordiale, persino curioso di noi, ma, a dirla tutta – e qui non credo di esagerare –, quasi per partito preso. In fondo eravamo i compagni di classe della sua amata Clara: e come avrebbe potuto non trovarci simpatici e anche un po’ speciali, con una simile premessa? Il semplice riverbero di lei bastava a renderci ampiamente degni di quelle fuggevoli premure, ma non durava a lungo. In quelle situazioni Pablo parlava poco e annuiva molto, determinato a non lasciarsi coinvolgere davvero: una di quelle persone che senti che hanno sempre un altro posto dove scappare perché la vita è vita e va vissuta, e, anche se corri tutto il tempo, ventiquattro ore, per loro, comunque non saranno mai abbastanza. Sono sicuro che hai presente il tipo, dato che pure questa è una cosa che negli anni non è cambiata.

 

Quanto a Clara… che dirti? Clara era semplicemente numinosa: una bellezza che ti trafiggeva gli occhi e, se non stavi attento, arrivava a offuscarti la visione. Non esagero dicendoti che a scuola, in un istituto di quasi mille studenti spalmati su cinque classi e otto sezioni, ne eravamo tutti almeno un po’ invaghiti. Lei lo sentiva, ma non se ne sorprendeva affatto: anzi lo dava a suo modo per scontato, equanime e indulgente. Però… no, guarda, la parola appropriata non è questa. Non c’era traccia di indulgenza in Clara. Condiscendente, piuttosto: condiscendente esprime assai meglio quel modo suo cosí caratteristico di planare sulle cose sfiorando appena le persone e i sentimenti. Nella sua squisita gentilezza (di questo, bada, nessuno mai si è lamentato) Clara aveva qualcosa delle divinità benevole, disposte a concedere se non a concedersi. In fondo, potevamo dirci per consolazione, pur condividendo la stessa aula e gli stessi professori, a dividerci c’era un fossato senza ponte levatoio. Noi, i compagni di classe ancora impigliati nelle reti dell’adolescenza, troppo magri o appena sovrappeso, coi brufoli e quel sorriso sgangherato, un poco goffi per la velocità con cui continuavamo a prendere centimetri, ci saremmo sistemati solo piú tardi, tra la fine delle superiori e il primo anno di università, assumendo le fattezze antropomorfe che di lí in avanti ci avrebbero accompagnati per il mondo – mentre lei, Clara, la divina Clara, dai quindici anni in poi, non aveva smesso di tornare ogni settembre ancora piú proporzionata e sfolgorante di come ce la ricordassimo al momento di separarci per le vacanze, solo tre mesi prima. Quasi una maledizione. E, allora, che altro avremmo dovuto fare noi comunissimi mortali, se non idolatrarla di lontano? Di questo infatti si trattava. E, mentre noi la adoravamo con le opportune precauzioni (dato che una delle facoltà meno apprezzate degli olimpi è quella di incenerirti con un solo sguardo), lei poteva donarsi leggiadramente all’universo: magnanima e inaccessibile per tutti. Meno, ovviamente, che per il fortunatissimo prescelto. E questo era, per l’appunto, Pablo.

 

Almeno in parte, quella irresistibile miscela di volizione, impenetrabilità e cortesia doveva avere a che fare col modo in cui l’avevano tirata su in famiglia. Entrare la prima volta nella sua casa di Roma era un piccolo evento per chiunque, e solo allora cominciavi finalmente a capire certe cose sul suo conto. Era lo stesso termine «casa» a risultare pateticamente inadeguato. Avrebbero… avrebbero potuto chiederti di pagare il biglietto! Anzi, persino dopo anni che la frequentavamo, continuava a sembrarci impensabile che qualcuno abitasse davvero in un posto come quello: farci colazione ancora mezzi addormentati, temperare una matita, scoprire sul piú bello che è finita la scorta della carta igienica, avere il mal di testa nei giorni di canicola, chiamare un tecnico per la lavatrice che l’altro ieri, di punto in bianco, ha smesso, chissà perché, di funzionare… Le banalità di tutti i giorni. D’altra parte, i centri storici delle nostre città d’arte non possono essere soltanto scenografie vuote e se ci sono dei palazzi come questi qualcuno dovrà pure abitarci: anche lí, anche su piazza Navona, con i puttini sorridenti sul soffitto della camera da letto e la vista sulla fontana del Bernini, che ti porge, compunta, ogni mattino il suo saluto a pochi metri di distanza. Perché no? Non dovremmo sorprenderci. E in astratto sei pronto a crederlo: qualcuno ci vivrà di certo, come in precedenza ci hanno abitato già per secoli (se nel frattempo non è diventata pure questa un’ambasciata). Sicuro. Ma poi non riesci a immaginarti in quegli spazi una famiglia vera, una famiglia tutto sommato ordinaria e come a Roma ce ne sono tante. Questo è impossibile. Mentre, se ti dicessero: «Tutto il palazzo è di un emiro», o: «Se l’è comparato un oligarca russo per farne omaggio alla sua nuova amante», sono sicuro che ti stupiresti assai di meno (specialmente se l’emiro in questione non ci dorme che tre giorni all’anno e il resto del tempo lo divide con le quattro mogli e i suoi sedici figli tra il Golfo Persico e le altre dieci o dodici dimore egualmente spettacolari di cui ha fatto collezione in giro per il globo).

 

La famiglia di Clara era invece una delle infinite declinazioni possibili della piú anodina normalità domestica: un padre che faceva un lavoro tipico dei padri, per quanto nel suo caso estremamente ben retribuito (era un convenzionalissimo avvocato), una madre che nella vita di tutti i giorni all’occorrenza attaccava i bottoni del grembiule e confezionava di persona i sacchetti di lavanda per gli armadi, due normalissime gemelle rompiscatole, col supplemento di una vecchia nonna dura d’orecchio esattamente come legioni di nonnine e di ziette sorde uguali a lei, e di un gatto della piú ordinaria e consueta essenza felina, comprese le chiazze bianche e nere a imitazione dei fumetti della nostra infanzia. Anche a piazza Navona i termosifoni gorgogliavano producendo strani rumori con i loro fluidi invisibili e la linea telefonica era particolarmente sensibile ai temporali di primavera, apprendemmo a poco a poco negli anni del liceo, per la nostra piú grande meraviglia. Intanto, però, i trecento metri quadri del loro appartamento avevano i soffitti tutti affrescati e il terrazzo del salotto si apriva sulla cupola della chiesa di Santa Agnese, da dove gli ospiti venivano immancabilmente sollecitati ad affacciarsi, quando la notte era piú fonda e si era rimasti in pochi. Soprattutto alla madre di Clara piaceva osservare ogni volta il riprodursi dello stesso inevitabile stupore sul volto dei neofiti. Era lei stessa a guidarli. Un mezzo corridoio angusto e poi, senza preavviso, ecco la piazza in tutta la sua castigata maestà barocca… Da non crederci: ma soprattutto la fontana. Osservato da lí, sembrava davvero che uno dei quattro colossi di marmo attorno all’obelisco si stesse proteggendo dall’imminente crollo della chiesa con un gesto inconsulto di paura. È soltanto una leggenda, lo so: una leggenda sorta chissà come, ma ancora ripetuta dai romani. Come infatti le guide turistiche piú coscienziose non mancano mai di sottolineare in questi casi, Santa Agnese è venuta dopo, quando la statua era al suo posto già da parecchio tempo, ma dal terrazzo di Clara pareva lo stesso che Bernini avesse ideato quel movimento del braccio cosí strano appositamente per prendersi gioco dell’imperizia architettonica del suo eterno arcinemico Borromini. Cade, cade! La terra ci manca sotto i piedi: stiamo franando! Adesso il palazzo se ne viene giú davvero, e da domani Clara finisce con la sua famiglia a dormire all’addiaccio sotto un ponte. Ma non succedeva mai. Non succede mai a chi abita in una reggia principesca come quella.

 

Inevitabilmente anche la festa dei diciotto anni di Clara era stata all’altezza della sua leggenda. Da un paio d’anni la politica aveva preso a magnetizzare le nostre giornate come una gigantesca calamita e lo stato di perenne vigilia rivoluzionaria in cui avevamo consumato l’ultimo spicchio dell’adolescenza avrebbe dovuto vaccinarci almeno un poco. Che so? Renderci ironici e scettici e superiori dall’alto della nostra indignazione verso i privilegiati che si abbronzano incuranti sulla spiaggia mentre miliardi di persone in tutto il mondo patiscono la fame. Ecco: un pizzico di sano moralismo comunista in piú in quel frangente non ci avrebbe fatto male. Ma si trattava comunque della nostra Clara, e Clara, era inteso, non si discuteva: nemmeno la politica, con lei, giungeva a tanto. Cosí, una volta di piú, ci rassegnammo alla leggenda.

 

A Sabaudia non ci aveva mai invitati prima, perché quello invece era il loro buen retiro, il nido confortevole delle tante estati col papà e la mamma, dove amavano ritrovarsi ogni luglio assieme ai vecchi amici, bambini e bambine ormai fattisi praticamente adulti come Clara e le sorelle piccole, ma cresciuti piú belli e intelligenti all’ombra del Circeo e per questo abituati a riservare l’agosto ai primi viaggi impegnativi soltanto a patto che le vacanze per l’Europa, “da grandi”, non ostacolassero il piacere della ripetizione, il rassicurante riproporsi delle stesse facce e delle stesse cose, la gita in battello al Lago di Paola, la granitina della sera, insomma il gusto ancora infantile di una vita che di anno in anno si ricapitola senza infrazioni e scosse. Era lí che Clara accumulava proporzioni e luce in vista del ritorno a scuola di settembre, e ciò bastava a farne ai nostri occhi un luogo persino piú speciale. Dipendeva da quello che cucinavano in famiglia? Dalle insondate proprietà benefiche della locale falda acquifera? O era soltanto l’aria salmastra della zona a rivelarsi cosí indicata allo sviluppo armonico del corpo e della mente? Non ne avevamo davvero idea. Come se il resto non bastasse, pareva che la loro villa sulle dune non fosse lontana da quella dove passavano le estati Moravia e Pasolini, anche se Clara aveva ammesso una volta che non li conoscevano («Lo sapevi? La loro casa è quella», mi dissero in un paio d’ore non meno di cinque persone indicando alcune luci non proprio vicinissime nelle due direzioni opposte). Il compagno Moravia e il compagno Pasolini… Come no? A quei tempi li leggevamo tutti. Condividerci il bagnasciuga era un ulteriore segno di buon gusto, se non la prova che, in cuor suo, anche il padre di Clara segretamente simpatizzava per le battaglie degli oppressi.

 

Quanto a me, per qualche ora decisi di mettere da parte la politica e lasciarmi impressionare dalla perfezione della messa in scena. Da Clara (con Clara, per Clara, grazie a Clara) le cose piú trascurabili e insignificanti si caricavano ogni volta di qualità speciali. Quella sera, sulla spiaggia, magicamente pareva che le bevande non diventassero mai calde, persino la loro Coca-Cola sembrava di colpo piú frizzante e spiritosa di quella che mia madre acquistava alla nostra drogheria di zona, all’incrocio con via di Centocelle… E poi, incredibile!, nemmeno una zanzara: quasi che, da quelle parti, pure gli insetti avessero appreso a rispettare certe precise gerarchie sociali, fosse anche solo in occasione dei festeggiamenti piú importanti. Per i ragazzi come me, che avevano scoperto il mare agli stabilimenti di Ostia e di Fregene, la principale fonte di meraviglia era però un’altra ancora. Da Clara, sulla spiaggia non tenevano sedie e sdraio in legno e in plastica come avevamo visto fare in questi casi, ma dei veri mobili, divani con i cuscini imbottiti e tutto quanto il resto, perfetti per intonarsi ai colori chiari dei presenti, tra il lino bianco e la seta grezza. – Hanno addomesticato persino il mare, questi qui! – come disse Lucio a un certo punto (ma a bassa voce, e stando attento pure lui a non suonare irrispettoso). Finché, quando era calato il sole, le torce avevano illuminato l’intero spiazzo, consegnandoci a un’ebrezza che solo in parte era imputabile, suppongo, al prosecco che un omaccione del catering continuava a servirci a volontà in spregio alle istruzioni ricevute e con l’accompagnamento monocorde della stessa identica domanda, su una nota di complicità cameratesca: «Ancora gazzosa per voi, ragazzi?» Di colpo la sera era in fiamme, e il sole basso e rosso faceva anche lui piú che degnamente la sua parte. Tutto previsto, senza alcun dubbio: ma il padre di Clara, per sua figlia, sarebbe riuscito a ottenere il tramonto sull’acqua anche se il litorale del Lazio fosse stato esposto a oriente – di questo nessuno osava dubitare. Poi candeline e applausi. Qualche risata. La madre di Clara che si commuove mentre la figlia si offre piú ferma e impassibile del solito al verdetto benevolo dell’obiettivo: come se, in quell’istante destinato ai posteri, anche il movimento piú impercettibile minacciasse di disperdere nell’aria la nuvola di vaporosa bellezza che qui a Sabaudia, estate dopo estate, precedeva – diligente – il suo arrivo di cinque metri almeno… E dopo ancora devo essermi ubriacato con Cristiano Allegretti, Lucio Del Fabbro ed Enrico Palestro, i miei amici di allora, perché, a forza di gazzose, di quanto è successo da quel momento non mi ricordo assolutamente nulla.

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