di Kinga Júlia Király
[Questa intervista, realizzata e trascritta da Kinga Júlia Király, è inedita in italiano. La traduzione dall’ungherese è di Andrea Rényi]
Nell’ottobre 2018 feci un’intervista durata alcune ore a Edith Bruck per conto dello United States Holocaust Memorial Museum. Fu una giornata difficile. Memorabile ma pesante. L’oral history, la storia raccontata, ha regole rigide che neppure la nostra amicizia poteva eludere. Nel corso dell’intervista, uno stralcio della quale il lettore trova qui di seguito, ci siamo date del tu dall’inizio alla fine, eppure non avevo la possibilità di entrare nel suo spazio, di abbracciarla mentre riviveva i momenti più angosciosi. Da scrittrice e sopravvissuta all’Olocausto, Edith ritiene suo dovere rendere testimonianza. Per i posteri. Sebbene avesse trovato una nuova patria nella lingua italiana, ci teneva a rilasciare l’intervista in ungherese. Oltre alle regole dell’oral history, nella trascrizione rispetto anche questo.
“Nella lingua che ho scelto non c’è ampiezza e profondità, manca il passato della mia madrepatria, la sua cultura, la sua storia, la comunità in cui sono cresciuta, e tutto ciò mi fa sentire leggera e libera. Nella lingua italiana non sento il sospiro della mia povera mamma, o i brontolii del mio povero padre, e mancano le parole dialettali dei vicini. È una lingua diventata orfana: non ha genitori né profumo e sapore che possano rievocare i ricordi più dolorosi”, disse all’Università di Teramo alla consegna della sua laurea honoris causa. Quest’intervista è priva di quella leggerezza e libertà che Edith ha trovato. Ritengo importante precisarlo. Ci parla nella lingua della sofferenza, del lutto, dell’estromissione e della privazione della patria che rispetto agli orrori di ottant’anni fa oggi è posterità, pur essendo noi contemporanei di Edith. Questo è il motivo per cui ho scelto quella parte dell’intervista che narra la sua vita in Ungheria. E ancora: la storia narrata non pone domande roboanti. Non anela a storie da copertina, ma prova a delineare storie di vita individuali, per farci comprendere che la comunità che si voleva cancellare dalla faccia della terra era composta di vite uniche e irripetibili di milioni di individui.
«Prima di entrare nei dettagli ti prego di presentarti. Come ti chiami, dove e quando sei nata?»
«Mi chiamo Edith Steinschreiber, Edith Bruck è il mio nome di scrittrice. Sono nata in Ungheria, a Tiszabercel, ma sono cresciuta a Tiszakarád. Avevo un mese quando i miei genitori vi si trasferirono. Sono nata nel 1931, non nel 1932. Scrivono tutti 1932, non so perché. Ero l’ottava dei figli, i primi due erano morti piccoli, siamo rimasti in vita in sei, io ero la più piccola. Avevo due fratelli e tre sorelle.»
«Cosa ricordi della tua infanzia? Come trascorrevano le vostre giornate?»
«Come si dice in yiddish, le nostre giornate passavano con zores[1]. Vengo da una famiglia molto povera, poverissima. Se non fossi nata ebrea, avrei dovuto affrontare le difficoltà di una famiglia povera media. Del resto in provincia tutte le altre famiglie ebree erano ugualmente povere, avevano negozietti, campavano tutti alla giornata. Io però sono nata nel mezzo dell’antisemitismo. Quando al vecchio antigiudaismo (ride imbarazzata: chiedo scusa, non sempre mi viene in mente in ungherese) si aggiunse il moderno antisemitismo. Da quando sono al mondo ho sempre avvertito l’esclusione, non sempre il disprezzo. Ero diversa dagli altri. In classe eravamo tre ragazze ebree, sedevamo sempre all’ultimo banco e avvertivamo che non facevamo parte della comunità a pieno diritto. Per giunta mio padre non praticava la religione, ce l’aveva con il mondo, mia madre era invece credente. Non era ortodossa, ma aveva una fede forte. Discuteva sempre con dio. Non parlava con noi figli, ma con dio. Alzava lo sguardo al soffitto e trattava con lui. Per non far piovere, per non far splendere il sole, per non far penetrare l’acqua dal tetto, per far guadagnare qualcosa a papà, perché potesse portare qualcosa a casa, per fargli avere un po’ di fortuna. Era in perenne conversazione con dio, purtroppo non con i figli. Non aveva tempo per occuparsi dei figli, perché a una madre di sei figli non avanza il tempo per loro. Per abbracciarli, per sbaciucchiarli, come fanno oggi i genitori che amano i figli. L’affetto si limitava al bucato, alla cucina, alla stiratura dei panni, e mamma pregava il buon dio di dare abbastanza cibo per la cena, perché potesse preparare il brodo di carne per l’attesa dello shabbat. Mamma rispettava la religione, a casa mangiavamo kosher. Io ero una ribelle. Dicevo sempre a mamma di non parlare con dio, che tanto non la ascoltava, non badava a noi. Perché già da bambina sentivo di essere nata in un mondo ingiusto, senza uguaglianza. Non capivo, per esempio, come mai ci fossero tanti poveri. Perché veniva mantenuto il sistema feudale, come potevano aspettarsi i feudatari che i poveri andassero a lavorare le loro terre per la metà o per un terzo. Durante le vacanze andavo anch’io a fare la giornaliera a raccogliere le patate, a spannocchiare, e la sera mi pagavano con due o tre chili di patate. Cercavamo sempre di aiutare mamma per raccogliere il necessario per la cena. E lei riusciva a compiere dei miracoli con il poco che mettevamo insieme: un primo, un secondo e anche una terza portata; ne parlo anche in una mia poesia.»
«Ti ricordi che cosa mangiavate?»
«Certo che ricordo. Mangiavamo spesso fagioli, patate, cavolo, cavolfiore, tutto quello che si trovava facilmente ed era a buon mercato. Mangiavamo carne solo il venerdì sera. Perché mamma riusciva sempre a prendere un’oca o un’anatra ingrassata, e arrivava lo shakter[2] ed erano tutti schierati nel cortile della sinagoga con una gallina, un’anatra o un’oca nell’attesa che lo shakter le ammazzasse. Quando ci andavo io, i cristiani stavano sempre fuori dalla staccionata e pregavano che fossero tréfe[3]. Noi invece pregavamo che fossero kosher.»
«Da che dipendeva se era kosher o tréfli?»
«Lo shajket toglieva sempre lo stomaco, lo gonfiava con il fiato e esaminava se c’era qualche macchia o sporcizia che non doveva esserci. Naturalmente temevo che trovasse qualche macchia. Che sia kosher, che possa essere kosher, ripetevo, mentre fuori ripetevano che sia tréfli, che possa essere tréfli. Mentre pregavo guardavo quella povera gallina o oca che si dibatteva, perché non morivano sul colpo – non voglio usare il verbo crepare -, e mi sentivo a disagio. La sera del venerdì c’era il brodo di carne: a me toccava l’aletta, la parte più piccola andava alla più piccola perché il cibo doveva avanzare anche per il giorno dopo, che era sabato. Poi c’era sólet[4], che mamma preparava il giorno prima, e noi eravamo felici perché la sera del venerdì e il sabato mangiavamo meglio. A volte faceva anche un dolce con la ricotta, con i semi di papavero o con le noci, quando le cose andavano un po’ meglio e papà guadagnava qualcosina. Papà faceva il trasportatore, portava gli animali dei vicini al mercato, qualche volta ci guadagnava pure ma per lo più tornava a mani vuote. A volte loro due litigavano un po’, neanche poco, perché il dovere di papà sarebbe stato quello di mantenere i figli: quest’era l’aspettativa nei confronti di un uomo. All’epoca le donne non lavoravano, certamente nessuno considerava che lavoravano già abbastanza in casa. Lei lo accusava di non essere capace di dare a mangiare ai cuccioli – diceva cuccioli -, e papà scaraventava il cappello in terra, sbatteva la porta e se ne andava. Casa nostra era molto piccola: finché visse nostra nonna, la mamma di mamma, quasi non c’entravamo, avevamo due camere e cucina e il tetto di paglia. Alla fine pioveva a catinelle dal tetto, mamma metteva pentole ovunque e quando le gocce di pioggia colpivano i fondi delle pentole i nostri cuori balzavano quasi fuori dal petto. Mamma alzava gli occhi sul tetto con uno sguardo che sembrava dire “Come fa dio ad assistere a questo zores”. Poi nel 1942 mia sorella, io e uno zingaro buon amico di papà insieme costruimmo una nuova casetta. Aveva il tetto di tegole rosse ed ero molto felice. Tornando a casa dalla scuola mi riempiva di orgoglio il fatto che finalmente avessimo anche noi una casa con il tetto di tegole. Era fatta solo di una camera e della cucina. Impastavamo noi l’argilla, lo zingaro ci aiutava, e non avevamo un pavimento ma solo terra battuta. Mamma e papà dormivano in cucina su un lettino, che ogni tanto si rompeva. Noi tre nella camera. Ormai in casa erano rimasti solo tre figli perché due sorelle studiavano da sarte a Budapest e mio fratello era apprendista sarto a Nyiregyháza. Quindi in casa ero rimasta io con mia sorella Adél e mio fratello Laci. Dormivamo in tre in un letto, due da un verso, uno dall’altro.»
«In che lingua parlavate in casa?»
«In ungherese, ma mamma e papà parlavano in yiddish se volevano nasconderci qualcosa. Noi capivamo qualche parola ma non il significato. Usavano lo yiddish più spesso soprattutto negli ultimi anni, quando ci circondavano di più segreti. Perché da noi non giungevano le notizie, arrivava il banditore che al suon di tamburo comunicava le cose più importanti, e noi apprendevamo le notizie in questo modo. Nel paese non c’erano giornali, qualche volta papà portava un giornale di Sárospatak, quando vi capitava come trasportatore con il carro e il cavallo. Ma sapevamo ben poco del mondo. Vivevamo le nostre piccole vite felicemente o infelicemente, come tutti i bambini poveri. Io per esempio avevo compiuto già dodici anni quando ricevetti la mia prima bambola. Me la portò mia sorella da Budapest. Una bambola e un paio di orecchini. All’alba, quando ci vennero a prendere, portai la bambola in soffitta e le dissi: aspettami qui, finché non sarò tornata. Giocavamo con quello che ci dava il bosco o il Tibisco. Intrecciavamo le margherite per farne una ghirlanda, impastavamo l’argilla, scivolavamo e schiamazzavamo nel fango. Non ero una bambina del tutto infelice. Poi capitava che mamma fosse molto mite e gentile. Per Pasqua mi comprava sempre un vestito nuovo. Le feste erano sacre, per l’occasione mi faceva trovare un nuovo vestito anche a costo di scendere agli inferi. Veniva da noi una sarta e io facevo le prove in cortile per far vedere a grandi e piccini che avevo un nuovo abito. Era un vestito rosso con i cuoricini e credo che fossi la bambina più felice del mondo. I poveri sanno essere felici anche con poco. Del resto non ero portata per la tristezza, ma rimuginavo sempre. Notavo tutto e mi sembrava tutto sbagliato. Anche la discriminazione, molto presto. Avevamo alcuni vicini gentili, altri meno. Capitava che ci sputassero addosso. O sputavano nel secchio quando andavamo a prendere l’acqua. Una volta ruppero anche la testa a mio fratello.»
«Quando è successo esattamente?»
«Nel 1942 le cose cominciarono a prendere una brutta piega. Nel ’43 era ormai tutto degradato. I bambini si erano ringalluzziti, sentivano di avere potere sugli ebrei. Potevano fare qualsiasi cosa a giovani e vecchi e non succedeva nulla. I bambini si erano montati la testa. Nel secchio sputò un bambino di due anni, per fare un esempio. Spingevano nel fossato gli ebrei con la barba. Il 99% degli ebrei locali era credente, erano hasidim con le peòt, la barba, la kippah. Quando li vedevano tornare dalla sinagoga li trascinavano tenendoli per la barba, dopodiché li spingevano nel fango.»
«Quante famiglie ebraiche vivevano a Tiszakarád?»
«Undici, dodici. Ma tutte con molti bambini. Più erano povere, più figli facevano perché, come diceva mamma, il bambino è il dono di dio ai poveri. Era una questione culturale. Sei, otto, dieci, tredici figli per famiglia. Nella famiglia della mia amica, con la quale andavo a scuola, erano tredici.»
«Avevate un rabbino?»
«No. C’era un maestro che veniva regolarmente in paese e per far piacere a dio con un mitzvah[5], in una sala della sinagoga ci insegnava l’ebraico. Io però non volevo andarci perché era molto severo. Aveva i capelli rossi e la barba rossa e mi dava dei colpi in testa con una verga mentre elencava le lettere dell’alfabeto: alef, bet, gimel, dalet… E io dissi a mamma che non volevo tornarci perché il maestro era un uomo molto cattivo e non capivo come si potesse considerare credente in dio una persona tanto cattiva. Al che mamma disse che era un santo e che non mi dovevo permettere di dargli del cattivo. Un santo che ti insegna gratis perché per ora sei analfabeta. Io però non volevo andare. Trascinarono per terra mio fratello per portarcelo, io invece non ci andavo. Per questo conosco poco l’ebraico. Perché non riuscivo a capacitarmi di come mai qualcuno che stava facendo un mitzvah volesse picchiarmi in testa. Avevo paura di lui. La stessa paura che sentivo del padre della mia amica. Poiché papà non era praticante, gli altri ebrei non ci volevano bene. Eravamo estromessi da due parti: dai cristiani e dagli ebrei praticanti, perché papà accettava di andare in sinagoga solo in occasione delle feste principali. Andavo a trovare la mia amica Éva, a cui ho dedicato anche una poesia, e giocavamo sotto casa nella polvere. Avevano una piccola drogheria e ne usciva questo Reismann, si chiamava Izidor Reismann, anche lui aveva i capelli rossi, usciva in camicia da notte bianca perché era sabato pomeriggio e stava riposando, e quando scorsi la sua mano che indicava me e disse che dovevo andare a casa, saltai fuori dalla scatola della macchina che macinava i semi di papavero dove mi ero nascosta, e saltando fuori la maniglia della macchina mi squarciò la gamba: si vede ancora oggi la cicatrice. Corsi a casa da mamma come una forsennata e lei mi cosparse la ferita di aceto. Mi terrorizzava quell’uomo che mi vietava di giocare con sua figlia solo perché non vedeva di buon occhio che papà non andasse a pregare tutte le mattine.»
«Che esperienze hai avuto con i bambini cristiani nella scuola pubblica?»
«Non particolarmente cattive. Sono andata a scuola finché non ci hanno portati via. Ho fatto i primi sei anni e un pezzo del settimo. Dove andava mia sorella gridavano già ‘heilhitler’, dove andavo io c’era un maestro di nome Bocsor che era molto benevolo con me e le altre due ragazze ebree della nostra classe. Esisteva già la leggel ma le autorità del paese non sapevano interpretarla, non la capivano nemmeno i gendarmi, il giudice, perché avevamo anche un giudice. Si avvertiva l’antisemitismo ma non ci impedivano di andare a scuola. Per altro nella Prima guerra mondiale papà era rimasto ferito ed era stato prigioniero di guerra per un anno a Trieste, ed era stato insignito di qualche onorificenza. I figli dei combattenti della Prima guerra mondiale potevano frequentare la scuola. Ma andavano a scuola anche Éva Reismann e Piroska, anche se i loro padri non avevano combattuto, quindi al paese non rispettavano severamente la legge. Forse non vi badavano proprio.»
«Com’era la situazione durante le feste cristiane? Vi capitava di essere invitati?»
«No. Una volta volevo un po’ di addobbi natalizi, ho preparato un ramo ma mamma l’ha gettato via. I bambini cantavano spesso sotto la nostra finestra e ho memorizzato le parole (canta: Alla nascita benedetta di nostro Signore Gesù/Recitiamo alla festa santa un verso angelico/Che un tempo nel campo di Betlemme/Suonava così:/Gloria a Dio nell’alto dei cieli/Pace in terra agli uomini/Buona volontà a tutte le genti/E alle nazioni!). “Che Dio ci doni una buona vigilia, tanti auguri”, dicevano infine, e allora bisognava dare loro sempre un dolcetto o denaro. Papà racimolava sempre qualche spicciolo in tasca, mamma dava un po’ di dolciumi perché io li credevo miei amici. “Papà, dagli qualcosa, anche tu, mamma”, e allora scendevano dal letto e glielo davano. A Pasqua venivano ad annaffiare[6]. Con acqua saponata. Quando avevo undici-dodici anni, anch’io aspettavo l’arrivo dei ragazzi. Tuttavia celebravamo le feste del tutto separati. Una volta andai in una chiesa cattolica, mamma aveva detto di non andare ma io facevo sempre l’esatto opposto di quello che lei diceva. Mi sono molto spaventata perché non avevo mai sentito altro in tutta la mia vita che frasi come “Avete ucciso voi Gesù Cristo”, “Siete degli assassini”, e quando sono entrata ho visto Cristo in croce: il braccio era tenuto con un fil di ferro perché era scostato dalla croce e credevo che da un momento all’altro mi sarebbe caduto in testa. Per lo spavento sono corsa fuori. Avevo paura, perché quell’accusa antica mi si era insinuata dentro. Non gli veniva neppure in mente che anche Gesù era ebreo. Erano persone ignoranti e più volte avevano sparso la voce che a Pasqua gli ebrei facevano il pane azzimo con il sangue dei cristiani. Una volta un bambino morì affogato nel Tibisco intorno a Pasqua, e la notizia riprese a circolare. I bambini a scuola crescevano così, e i preti predicavano continuamente contro gli ebrei. Una volta sono stata a un funerale in cui il prete parlava male degli ebrei: ho preso e me ne sono andata.»
«Come ti trovavi con i compagni di classe cristiani?»
«Non ci frequentavamo più di tanto. Ero molto amica di Éva Reismann ma avevo molta paura di suo padre. Lei non veniva a casa mia a giocare ma a scuola eravamo sempre insieme e ci sentivamo in punizione, in quanto sedevamo sempre nell’ultimo banco. A volte nessuno ci chiedeva niente, come se non fossimo lì, eravamo trasparenti. C’era un prete che insegnava religione, non uscivamo dall’aula, quindi ho imparato tutto quello che il prete diceva e se qualche compagno non sapeva rispondere mi alzavo io, ma il prete mi sgridava: “Non ho chiesto a te, siediti, ebrea”. Mi mettevo a piangere. Piangevo molto. Poi nel 1942 e 1943 non si poteva neppure più esistere, al paese ci aizzavano i cani contro. Liberavano i matti che prima avevano tenuto legati in cantina e li scatenavano contro gli ebrei. E quando camminavamo in strada, alle nostre spalle cantavano: “Viva Szálasi e Hitler/colpiamo l’ebreo con il nerbo/uno squittio, due squittii, è crepato il rabbino capo/coraggio: viva Szálasi!” I matti e tutti gli altri. Eravamo completamente indifesi. Avevano ricevuto un po’ di potere grazie alla loro identità e questo potere lo percepiva anche un matto. Ci gettavano addosso delle pietre sulla banchina, perché c’era un terrapieno, ci inseguivano, prendevano la mira e cantavano. Tutti avevano la libertà di fare quello che volevano e ne approfittavano.»
«E c’è stato un momento quando avete sentito che il guaio presto sarebbe stato ancora più grosso?»
«Sì, anche se non sapevamo nulla. Nel 1941 mamma urlava e piangeva perché aveva un fratello in Ucraina dove ci fu un grande pogrom. Mamma camminava in cucina avanti e indietro piangendo a dirotto e gridava “Che fine avrà fatto Záli”, e “Che fine avrà fatto Rózsi”. Era la prima volta che anche noi bambini capivamo che c’era un guaio, ma non ci dissero quale. In casa regnava un’atmosfera nebulosa, minacciosa. Come se negli angoli si fossero nascoste delle persone che in qualsiasi momento avrebbero potuto attentare alla nostra vita. Non potevano sapere con precisione neppure loro che cosa stesse succedendo, ma un giorno all’alba ci buttarono giù la porta (era il giorno dopo Pasqua): avevamo già riposto le stoviglie pasquali ed entrarono i gendarmi ungheresi, non i tedeschi. Io ho visto il primo tedesco al ghetto. Questi erano gendarmi ungheresi, uno aveva venticinque anni, papà lo conosceva, insomma quando entrarono in casa mamma tirò fuori dalla zuccheriera le medaglie della prima guerra mondiale di papà e quel gendarme gliele fece cadere di mano con un colpo e le calpestò dicendo: “La tua vita non vale nulla, anche queste non valgono niente, non sei nessuno”. Era terribile sentirlo dalla bocca di un compaesano ungherese. Allora abbiamo sentito che era tutto finito. Dicevano che potevamo portare con noi solo un cambio ed entro cinque minuti dovevamo trovarci in cortile. Mamma non sapeva che fare, andava avanti e indietro, perse completamente la testa e uscimmo in cortile dove era già schierata tutta la famiglia Reismann. D lì ci portarono in sinagoga, dove arrivavano in ogni momento e urlavano che dovevamo consegnare loro tutto il denaro e i nostri valori. I valori, tu capisci. Non avevamo nulla ma ci perquisivano, rovistavano dappertutto. In seguito, al ghetto, feci un’esperienza molto interessante, se la si può definire con questo termine. Perché al ghetto ogni famiglia fu messa in una stanza. In un appartamento di cinque camere venivano collocate cinque famiglie, se era di quattro camere, quattro famiglie. C’erano anche delle liti, naturalmente, ma lì, al ghetto, era realizzata la democrazia. Perché un ebreo che aveva una situazione economia un tantino migliore diede un cappotto a mio padre. Un altro un paio di scarpe, un terzo una sciarpa. Fino a quel momento gli ebrei borghesi non prendevano nemmeno in considerazione quelli come noi, che potevamo essere chiamati ebrei proletari. Al ghetto però avevano tutti lo stesso valore, loro venivano trattati come venivamo trattati noi. I sorveglianti ora erano tedeschi. Eravamo tutti uguali, il figlio dell’ingegnere non si vergognava di giocare con me, mentre al paese questo non sarebbe mai successo. E nacque in qualche modo una pacifica convivenza. Se c’erano bambini piccoli, in cucina avevano la precedenza. Sperimentai lì per la prima volta la solidarietà. Valevo tanto quanto il figlio dell’ingegnere o del medico. Giocavamo insieme a un gioco simile al tennis che però non lo era, e per la prima volta sentivo di valere tanto quanto il figlio di un medico.»
«Quanto tempo avete trascorso nella sinagoga prima di essere deportati al ghetto?»
«Un giorno, anche lì ci aspettavano fuori i cristiani per toglierci tutto quello che potevano. Ma non c’era più nulla, perché arrivavano continuamente i gendarmi e ci portavano via sempre qualcosa. Perché non potevamo possedere due cappotti o tre cambi di abbigliamento. Solo un cambio di tutto. Eravamo più o meno in centodieci o centoventi là dentro. Posso elencare i nomi di tutte le famiglie. Erano dodici-quattordici famiglie. Da lì ci trasportarono al ghetto di Sátoraljaújhely. Dove sperimentai quella sorta di democrazia. Ci accettammo a vicenda. Avevamo tutti lo stesso valore.»
«E vi dissero qualcosa su dove vi avrebbero portato dal ghetto?»
«No, nulla. Ma lì, e so che dico un paradosso, abbiamo avuto qualche momento felice… (le si deforma il viso, lotta contro il pianto.) Chiedo scusa, un attimo e lo dico… (Si fa forza, guarda nella telecamera.) Per la prima volta chiamarono papà in sinagoga alla Torah. (La voce è velata, fa fatica a parlare, deglutisce più volte.) Perché essendo povero prima non lo avevano chiamato mai. Ora invece lo chiamarono a recitare le preghiere prima degli altri perché papà aveva una bella voce, cantava bene e mamma ne era tanto felice. Mi disse che per lei vedere papà chiamato alla Torah era tutto, sovrastava tutto. Al paese non era mai successo. Mi disse che vedere papà alla Torah era stato il più bel momento della sua vita. (Lungo silenzio) Eravamo stati cinque settimane al ghetto e dopo venne… venne… il vagone. Eravamo almeno in ottanta in un vagone e lì cominciò l’inferno. Anche l’inferno fra noi. I bambini gridavano, tutti noi dovevamo fare la pipì e la cacca nell’angolo. Lì cominciò la disumanizzazione. Gli adulti imploravano acqua, urlavano, molti svenivano. E io in questo frangente terribile fui felice di nuovo. Perché mamma mi pettinò per tutto il tempo, mi fece due trecce e vi mise un fiocco come non era mai successo prima, mi tenne abbracciata e mi accarezzò per tutto il tragitto. Allora mi voleva molto bene. Può darsi che sapesse che mi avrebbe persa. Non so cosa sapeva, ma in quel momento era una madre calorosa, affettuosa. E io le volevo bene più che mai. Da come mi stringeva capivo che il pericolo era grosso, che sarebbe successo qualcosa. Ero terrorizzata perché non capivo come mai mamma fosse tanto buona con me. Mi accarezzava, mi pettinava, mi stringeva e io stringevo lei, non mi allontanava come era solita fare. Mi teneva stretta finché non scendemmo ad Auschwitz, per quatto giorni e tre notti. Fu il momento più terribile. Fummo cacciati fuori dal vagone, sbraitavano, liberavano i cani, c’erano almeno quattro-cinque SS, a mamma caddero gli occhiali, non vedeva, prese a gridare: “Trova tuo padre, trova tuo padre, non lo vedo”. Poi ci separarono in un battibaleno. Gli uomini dalle donne. Volevano mandare subito al crematoio i minori di 16 e i maggiori di 45 anni, ma non chiedevano l’età, decidevano a occhio quanti anni potessimo avere. Rechts, links, rechts, links. E mi fecero cambiare colonna… (serra le mani, le porta al mento, pungola il mento). È la parte più dolorosa, non so come potrò raccontarla…. Mi misero con mamma … nella colonna (fa cadere le mani davanti al corpo, osserva a lungo il dorso della mano, deglutisce, mi guarda, guarda nella camera, fa cenno con il capo che non riesce a raccontarlo, rimaniamo sedute così a lungo, infine si fa forza). Mi misero con mamma nella colonna di sinistra. Noi però non sapevamo che cosa significava la sinistra e che cosa la destra. C’era una fila di soldati tedeschi da un lato e dall’altro e noi camminavamo in mezzo. Adél era già stata mandata a destra, ai lavori forzati. Io invece con mamma a sinistra… E l’ultimo soldato della fila si sporse e mi disse di andare a destra. E io non volevo andarci. Mi aggrappavo a mamma, affondavo le mani nel suo corpo e gridavo che non mi dovevano allontanare da lei. Il soldato mi trascinava con sé. Mamma supplicava affinché non le togliessero la figlia più piccola (piange a dirotto per qualche minuto). Mamma non sapeva che avrebbero portato anche me al crematorio. Il tedesco, che voleva salvarmi, non sapeva che fare. Continuò a picchiarmi con il calcio del fucile finché non passai nell’altra fila. Colpì anche mamma con il calcio del fucile e mamma cadde in terra. Non l’ho mai più vista. Mai!
Quel “Mai!” e il pianto dirotto durato per minuti, il gesto della mano con cui indica che non può continuare sono indescrivibili, come anche l’impotenza all’altra estremità della camera, mentre si vorrebbe saltare in piedi, andare da lei per abbracciarla e lasciar perdere tutto, ma non si può, non si deve, perché questo “Mai!”, questo pianto ininterrotto sono parti della testimonianza, del lutto e del dolore che durano tutta la vita, che faranno da monito alle prossime generazioni, perché non si lascino fuorviare, e non lascino diffondere l’odio.
Edith e sua sorella Adél si tennero strette insieme e sopravvissero a quello al quale non si sopravvive, ma quando tornarono a Tiszakarád furono circondate dalla stessa incomprensione e ostilità degli anni precedenti la loro deportazione. C’era chi voleva farsi restituire da loro un debito del loro padre, altri si tenevano distanti per una forma degenerata di senso di colpa che è la dissonanza cognitiva, e presto divenne evidente che la casa era persa anche dal punto di vista geografico. Dopo una breve deviazione in Israele, Edith trovò casa in Italia. Nelo Risi non poté mai sostituire la sua famiglia soppressa, ma fece di tutto affinché Edith potesse sentirla con sé ogni giorno. Nella casa di villeggiatura costruita con decenni di duro lavoro allestirono tante stanze quanti erano i membri uccisi della famiglia. Tuttavia Edith non ha potuto dimenticare lo zores di Tiszakarád e la fame ad Auschwitz. Ancora oggi compra tanto pane quanto quello con cui potrebbe saziare la sua famiglia perduta.
Note
[1] Zores o tsores: termine yiddish per difficoltà, pena, calamità, tragedia. NdT
[2] Shakter o shajket: macellaio kosher. Edith Bruck nel testo usa il termine shajket che è la versione dialettale di shakter. NdT
[3] Tréfli è il cibo impuro. Tréfé è la versione dialettale di Trèfli. NdT
[4] Sólet: variante ungherese del piatto tradizionale ebraico sholent o schalet.
[5] Mitzvah: una buona azione.
[6] Usanza popolare in Ungheria: i ragazzi cospargono le ragazze di acqua di colonia o di acqua.
[Immagine di copertina: Foto di Dino Ignani (particolare)]
L’immagine di Edith Bruck, arbitrariamente tagliata a metà, è una mia fotografia. Per favore, inseritela per intero altrimenti chiedo di toglietela. Grazie
https://www.dinoignani.net/edith_bruck_3.html
Caro Dino, segnalato, come abbiamo sempre fatto. Oggi ci era sfuggito. Il taglio della foto è dovuto alle dimensioni della finestra, che è fissa.
Ciao, Massimo Gezzi