di Daniele Lo Vetere
Consigli di classe. Scuola, democrazia e società,
rubrica a cura di Mimmo Cangiano
Due anni fa, avevo dato conto qui su Le parole e le cose della prima edizione italiana di un libro di Gert Biesta, Riscoprire l’insegnamento, per Raffaello Cortina editore. Il 2023 ha visto la traduzione di altri due testi del filosofo dell’educazione: Il mondo al centro dell’educazione. Una visione per il presente, trad. di Alessandra Anichini e Laura Parigi, Tab edizioni, Roma 2023 (ed. or. 2021); Oltre l’apprendimento. Un’educazione democratica per umanità future, a cura di Chiara Carla Montà, Franco Angeli, Milano 2023 (ed. or. 2006).
Il mondo al centro dell’educazione può essere considerato una sintesi e un affinamento ulteriore della costellazione concettuale di Biesta: dall’idea di una «pedagogia dell’interruzione» alla critica della learnification, dalla centralità del concetto di soggettivazione al nesso tra educazione e arendtiano “mondo”.
Il più vecchio Oltre l’apprendimento, sicuramente il più denso di riferimenti filosofici fra i tre libri disponibili in italiano, chiarisce in modo inequivocabile come il discorso di Biesta si sviluppi lungo due registri, la reciproca implicazione dei quali non era immediatamente evidente alla sola lettura di Riscoprire l’insegnamento. Il primo registro è quello, già rilevato, della critica alle concezioni oggi egemoni di educazione – costruttiviste, centrate sull’apprendimento, evidence based, strumentalistiche, adattive – nel nome di una «pedagogia esistenziale». Il secondo è quello, più ambizioso, di un’indagine sulle aporie della concezione moderna dell’educazione come produzione di soggetti razionali, critici ed autonomi. In altri termini, quando Biesta critica la contemporanea reductio del più ricco concetto di educazione a quello ben più povero di apprendimento (è il fenomeno della learnification: rimando al mio precedente intervento) non critica soltanto un processo che è degli ultimi decenni – e si tratta certamente anche di questo –, ma sviluppa una concezione pedagogica complessiva che si faccia carico della crisi del discorso della modernità e che possa fornire risposte a quel «requiem per la scuola» (Bottani), che qualche anno fa si è ritenuto di poter intonare – e si trattava naturalmente di un requiem della scuola come incarnazione del progetto di modernizzazione.
(Per completezza, terrò presente in questa recensione anche a un testo non ancora disponibile in italiano, The Beautiful Risk of Education, Paradigm Publishers 2014).
Le aspettative tecnologiche dell’educazione
Ne Il mondo al centro dell’educazione Biesta torna a parlare della triade qualificazione, socializzazione, soggettivazione, formulata per la prima volta in un articolo del 2009 e ripresa spesso nella produzione successiva. Si tratta dei tre domini e scopi che, secondo l’autore, caratterizzano l’educazione. In questo ultimo libro il discorso su di essi è ripreso allo scopo di correggerne alcune interpretazioni inadeguate. È in particolare l’ultimo termine, «soggettivazione», che è obiettivamente il più sfuggente e complesso, a richiederne una migliore messa a punto.
Con «qualificazione» Biesta si riferisce all’insieme di conoscenze e abilità, necessarie alla vita sociale e al lavoro, con cui la scuola deve “equipaggiare” ciascuno studente; questo piano viene integrato da quello della «socializzazione» – grosso modo l’inculturazione dell’antropologia – ovvero l’acquisizione di valori presenti e tradizioni passate della società di appartenenza. Biesta sostiene che la maggior parte delle concezioni attuali dell’educazione – quelle “implementate” dalla governance globale dell’educazione, con i suoi quadri di riferimento, le sue classifiche sulla qualità dei sistemi scolastici, le sue misurazioni internazionali degli apprendimenti – si curino quasi esclusivamente del piano della qualificazione, includendo in second’ordine quello della socializzazione, ma ignorando sempre il piano della soggettivazione.
Le forme contemporanee del discorso pedagogico sono cariche di «aspettative tecnologiche», ovvero della richiesta di produrre risultati di apprendimento in modo efficiente ed efficace. Gli indicatori di qualità sono stati assunti come definizioni della qualità stessa, con una grave confusione tra l’oggetto e lo strumento: «nell’“era della misurazione” […] spesso valutiamo ciò che viene misurato, piuttosto che cercare di misurare ciò che apprezziamo dell’istruzione» (Il mondo al centro dell’educazione, pos. 616); sempre ammesso e non concesso che si debba necessariamente misurare. Gli ostacoli e l’intrinseca difficoltà dell’educazione sono percepiti come fattori di mero ordine tecnico, superabili in futuro in linea di principio con il reperimento di migliori strumenti. Il fallimento è una deviazione dalla norma. Questa logica della performance ha posto la scuola nella sgradevole condizione di rappresentare sempre un problema da risolvere, mai una soluzione da offrire, e genera alti livelli di insoddisfazione da parte di tutti: studenti, famiglie, docenti, opinione pubblica, politica.
È un discorso già sentito, si dirà, l’ennesima variazione sul tema della critica alla razionalità strumentale. Nient’affatto, se si colloca questa critica – comunque sempre e ancora necessaria – al più ambizioso secondo registro dell’opera di Biesta. Il concetto di aspettativa tecnologica va infatti inteso in senso molto più ampio di quanto l’espressione in sé non possa far pensare: anche le richieste di educazione della personalità e alla cittadinanza, o l’idea dell’educazione come lotta alla disintegrazione sociale, sono per Biesta aspettative tecnologiche, perché, anche se si illudono di operare sul piano della soggettivazione, si attestano soltanto su quello della socializzazione, ovvero della “produzione” di soggetti dotati di un set di attitudini, valori, competenze sociali adeguati alla vita democratica, alla razionalità pubblica, ecc., confondendo, come osserva in una pagina di The Beatiful Risk of Education, una società funzionalmente coesa con una società politicamente democratica.
L’inserimento del nuovo venuto nell’ordine della ragione: il progetto educativo della modernità
Ne Il mondo al centro dell’educazione, Biesta si spinge a scrivere che possiamo ritrovare una concezione tecnologica dell’educazione anche nel modello di scuola legato alla socialdemocrazia e allo stato sociale, una scuola che era chiamata a diffondere benessere, progresso individuale, avanzamento sociale, democratizzazione e che informa ancora in parte quella attuale. Non è perciò strano che perfino quei nobili obiettivi, oggi, in un contesto mutato – non più socialdemocratico ma neoliberale e governamentale –, siano potuti facilmente diventare standard da misurare.
In Oltre l’apprendimento, Biesta riflette sullo sviluppo e i destini dell’educazione universale nata con l’Illuminismo. A partire da quella data l’istruzione diventa uno degli strumenti, se non il principale, di emancipazione intellettuale e di conseguimento dell’autonomia razionale, secondo il noto motto di Kant, sapere aude. Il linguaggio dell’educazione è stato il linguaggio emancipativo per eccellenza della modernità. Attraverso l’educazione, il nuovo venuto veniva inserito nell’ordine delle istituzioni umane e della razionalità universale.
Questo progetto e questo linguaggio, per alcuni aspetti ancora validi, hanno però un difetto: si fondano su una definizione “forte” di che cosa significhi essere umani. Il soggetto può essere considerato pienamente tale solo se consegue l’autonomia e la razionalità, che rappresentano l’essenza e il destino a noi più propri. Esso, in altre parole, non ha potuto che essere concepito come un esemplare tra altri di una comune essenza umana, conosciuta e definibile in anticipo, di cui l’educazione dischiudeva l’accesso.
Dal punto di vista educativo, ciò ha significato, scrive Biesta, essere obbligati a specificare ciò che si dovesse diventare prima di dare al soggetto l’opportunità di mostrare chi fosse. Nemmeno le pedagogie critiche del Novecento e la pedagogia marxista sono riuscite a mettere in crisi la struttura logica di fondo della concezione del soggetto: pur comprendendo che l’emancipazione individuale non sarebbe stata possibile senza l’emancipazione collettiva, anch’esse avevano chiari in mente un’essenza e un destino “finale”.
Per riprende la triade dei domini educativi proposta da Biesta, l’inserimento del nuovo venuto nell’ordine della ragione moderna, declinato nella forma dell’educazione alla democrazia, non ha mai lasciato il piano della socializzazione, perché ha attribuito all’educazione il compito di dotare il soggetto del necessario corredo culturale e psicologico per essere cittadino, adeguandolo alla società e alla cultura che avrebbe abitato:
si corre sempre il rischio di dimenticare la soggettività degli studenti, trasformandoli in “oggetti da socializzare” e misurando il “successo” della loro istruzione in base a quanto i nostri ideali sono soddisfatti. Ed è su questo punto che molti programmi di socializzazione, anche con buone intenzioni, rischiano di fallire (Il mondo al centro dell’educazione, pos. 450).
Le implicazioni di questo discorso, tutte da sviluppare ma fecondissime, sono evidenti. Biesta ci fornisce una concettualizzazione adeguata non solo dell’insufficienza teoretica e pratica delle versioni più strettamente economicistiche e strumentali (conservatrici. Ma solo conservatrici?) della pedagogia oggi egemone (professionalizzazione che intacca la formazione culturale generale, produzione di capitale umano, cultura d’impresa inoculata in dosi sempre più massicce dentro la scuola, …), ma anche dell’insufficienza di quelle (progressiste. Ma solo progressiste?) che all’apparenza sembrano preoccuparsi della formazione dell’uomo e del cittadino, ma la fondano su blande “educazioni” e positivistici quadri di competenze. Tuttavia la produzione di lavoratori competenti e quella di cittadini competenti non sono due gesti diversi: l’uno ha l’apparenza dell’asservimento, l’altro della liberazione, il primo della riduzione dell’essere umano a una sua sola funzione, l’altro della salvaguardia dell’integralità della persona; entrambi presuppongo una fiducia costruttivista nella possibilità di “produrre” esseri umani secondo un ideale normativo. Inoltre, sovrappongono e confondono società e mondo, quindi socializzazione e soggettivazione. In uno degli exergo che aprono i capitoli de Il mondo al centro dell’educazione leggiamo:
Il luogo in cui la persona deve realizzare la propria vocazione non è la cultura e neppure la società, ma il mondo. Mentre gli esseri umani si sviluppano in quanto esseri naturali, e imparano a vivere in una società in quanto membri di quella società, l’educazione della persona si realizza avendo come orizzonte il mondo (W. Böhm, Die pädagogische Placebo-Effekt. Zur Wirksamkeit der Erziehung, Ferdinand Schöningh, Baderborn, 2016, in Il mondo al centro dell’educazione, pos. 2276).
La soggettivazione
Che cos’è questo «mondo» che è la dimensione propria dell’educazione e della soggettivazione e che secondo Biesta va posto al centro?
Quanto ho detto fin qui potrebbe far erroneamente pensare che l’alternativa a una visione tecnologica dell’educazione sia una scommessa “totale” sulla libertà del soggetto, nel nome di una critica alla sua alienazione da parte delle istituzioni sociali e delle necessità della razionalizzazione. Potrebbe, se non fosse che il fatto di stabilire una «relazione tecnologica» con il mondo, oggi, è questione che chiama in causa prima di chiunque altro il soggetto stesso, che non è solo vittima di questa logica, ma suo principale veicolo: un soggetto che interpreta la propria libertà come sovranità, che ritiene perciò di preesistere alla relazione con il mondo, interpretato come un oggetto a sua disposizione, da trasformare materialmente o cui attribuire i propri significati (anche su questo rimando alla mia recensione a Riscoprire l’insegnamento).
In Oltre l’apprendimento, Biesta recupera l’idea di Arendt dell’oscuramento del concetto di azione nella tradizione filosofica occidentale. Tutte le concezioni tecnologiche e strumentali dell’agire operano una riduzione della vita attiva alla sola sfera del lavoro, cioè della sopravvivenza e riproduzione biologica, e dell’opera, cioè della produzione di artefatti. Come è noto, per Arendt solo nell’azione si dischiude il senso più profondo della condizione umana, l’abitare un mondo plurale che è polis, in cui soggetti diversi tra loro, tutti capaci di iniziare qualcosa di totalmente nuovo, devono trovare un coordinamento tra le reciproche libertà. Il mondo è lo spazio della politica.
Mettere il mondo al centro dell’educazione significa allora sottolineare il carattere politico della soggettivazione e il fatto che si diventa pienamente soggetti solo quando si impara ad abitare, scrive Biesta, nel mondo e con il mondo, accettando una limitazione alla nostra sovranità. Gli altri soggetti sono infatti liberi di non rispondere e corrispondere alla nostra azione. Nel mondo troviamo sempre una resistenza, naturale e sociale, alla nostra presunta onnipotenza.
Un’«educazione soggettivante», pertanto, non è un processo innanzitutto attivo, che si origini dall’interno dell’io per investire poi il mondo; semmai è un processo che segue la direzione opposta, dal mondo a noi. Non ha a che fare con la costruzione dell’identità, con l’espressione dell’individuo, con l’invito a “essere se stessi”, con la sfera di ciò che consideriamo personale, come le nostre opinioni, valori, credenze; è un processo almeno preliminarmente “passivo”, che implica pratiche come l’ascoltare, l’aspettare, l’essere attenti, il creare spazio.
Come avevo già rilevato parlando di Riscoprire l’insegnamento, è evidente la distanza di questa concezione dell’educazione dal costruttivismo che “mette al centro lo studente” come artefice della propria produzione di significato. La relazione con il mondo ha, per Biesta, la forma di un appello o chiamata che il mondo stesso ci rivolge. Qui Arendt cede il passo a Levinas e all’idea che il soggetto abbia la responsabilità di rispondere a questo appello. Possiamo ignorare quella chiamata, ma la responsabilità, in ogni caso, è nostra: nessun altro può rispondere, o non rispondere, se non noi. Nell’esercizio di questa responsabilità si manifesta la nostra unicità e insostituibilità. Solo noi possiamo essere noi stessi, per quanto faticoso ciò possa essere.
La libertà di sottrarsi alla soggettivazione implica anche la possibilità di sottrarsi all’educazione, rispondere alla quale resta un compito che solo lo studente può assumersi. L’insegnamento non produce apprendimento secondo una linearità causale: non esistono tecnica, metodo, buona pratica, evidenza scientifica che garantiscano il risultato. Si può al massimo indicare qualcosa nel mondo (dunque anche nei curricoli, nei canoni culturali, nei contenuti disciplinari) sperando che chi “riceve il nostro insegnamento” diventi «consapevole dell’“atto di puntamento dell’insegnare” [Paul Komisar]» (ivi, pos. 1637): «la causalità educativa […] è una causalità evocativa» (ivi, pos. 2531).
Questo carattere di radicale libertà rende l’educazione difficile e rischiosa, innanzitutto per gli studenti, che vengono sfidati dall’insegnamento ad abbandonare il proprio guscio, a esporsi al mondo e all’alterità, a rendersi disponibili a «ricevere ciò che non si è richiesto», «innanzitutto perché non sapevano neppure di poterlo chiedere» (Il mondo al centro dell’educazione, pos. 1845). Gli studenti, osserva Biesta, non sanno che cosa debbano costruire, senza insegnamento: lasciati da soli con il proprio apprendimento, al massimo un insegnante “facilitatore” al loro fianco, possono mettere insieme dei materiali, mai costruire una casa. Questo è tanto più importante quanto più oggi l’istruzione tende a diventare un mercato di beni di apprendimento esigibili dalle famiglie.
Ma l’educazione è difficile e rischiosa anche per gli insegnanti (e gli adulti in generale), che devono rinunciare alla rassicurazione, oggi promessa da molti, dei risultati garantiti e della «piena efficacia degli “interventi” educativi» (ivi, pos. 1518). Le nostre intenzioni educative sono, secondo una bella definizione di un pedagogista tedesco citato da Biesta, «strutturalmente infrante» (Laus Mollenhauer).
Il “bel rischio” dell’educazione, quindi, ha a che fare con questo suo carattere strutturalmente debole. Ma è proprio questa condizione di debolezza che la rende possibile. Ogni concezione “forte” dell’educazione la distrugge in ciò che essa ha di più profondo. Derridianamente e decostruttivamente, Biesta osserva che la condizione di possibilità dell’educazione è insieme la sua condizione di impossibilità. Quanto può farla riuscire in quanto educazione è proprio quanto può farla anche fallire, ciò che “fa” l’educazione è anche ciò che può “disfarla”: la libertà del soggetto, una libertà non individualistica, non “tecnologica”, non assoluta, ma aperta al mondo e per questo in parte indeterminata nei suoi sviluppi.
È in questa comune condizione di debolezza che educazione e soggettivazione si incontrano. L’educazione è soggettivante quando è in grado, insieme, di fare e disfare il soggetto. La soggettivazione, giusta i suggerimenti di Rancière che Biesta raccoglie in The Beautiful Risk of Education, è contemporaneamente un processo di disidentificazione da ogni ordine naturale o sociale, da ogni identità socialmente definita, da ogni produzione obiettivante di noi stessi. L’educazione, come la politica, genera soggettività in atto, non parte da esse (anche se, ovviamente, non può fare a meno di costruire a partire dai materiali già forniti dalle identità naturali e sociali). Questa generazione di soggettività avviene nel qui e ora dell’educazione, in ogni suo momento presente. La soggettivazione è perciò una condizione da verificare ad ogni istante, non una precondizione – il soggetto sovrano della modernità – né un obiettivo verso cui tendere – che si tratti di obiettivi di apprendimento elencati in qualche documento europeo o dell’Ocse, o dell’emancipazione finale.