di Elena Romano
L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto
1. Sonno dogmatico
All’età di 26 anni ho lasciato tutto e mi sono trasferita a Berlino. Arrivata nella capitale tedesca da una città di provincia del cosiddetto “Nordest produttivo” italiano, mi sono ben presto resa conto con delusione di quanto ristretta e spießig fosse la mia mentalità. Con spießig indento un atteggiamento inevitabilmente impregnato da convinzioni e pregiudizi tanto inconsistenti quanto potenti, conditi da una buona dose di superficiale intellettualismo e “sano” conservatorismo. Per chi ha familiarità con la reputazione di Berlino, città letteralmente venduta come la meta povera e sexy di artisti, clubbers, perdigiorno, e abitata da ogni tipo di sottocultura, l’inizio di questa storia non può che già suonare come un vero e proprio fallimento: “Berlin, you are great, but we don’t click”.
Per rafforzare l’impressione che io con Berlino c’entrassi davvero ben poco, non posso non menzionare che mi ci sono trasferita per motivi di lavoro e, purtroppo, non sono un’artista in cerca di ispirazione o di condizioni di vita favorevoli a far fiorire la mia creatività. Partivo guidata da un senso di necessità – lo dovevo fare – lasciandomi così alle spalle le poche e traballanti certezze che, secondo un comune cliché, oserei definire le mie radici: buon cibo, lo spritz, una certa idea di comunità e di cultura, e non da ultimo il ragazzo che pensavo avrei sposato una volta scaduto il contratto con la città. Un’illusione, quest’ultima, che si può tranquillamente aggiungere alla lista dei caratteri anti-berlinesi che mi porto tutt’ora appresso. Per farla breve, tutte le condizioni di partenza erano contrarie all’auspicato “good vibes only” che a Berlino mi pareva essere un vero e proprio sentimento comune.
Una volta arrivata, ero decisa, volente o nolente, a non cambiare assolutamente nulla del mio stile di vita. “Perché dovrei cambiare solo perché tutto intorno a me è cambiato? Non ho già abbastanza da gestire?” Così ho preteso per lungo tempo di continuare a condurre le mie giornate secondo i soliti vecchi e cari principi, come d’esempio “il principio di sonno sufficiente” (inutile dirlo, otto ore), quello del “prima il dovere, poi il piacere”, e simili. Come se stessi cercando di preservarmi dal rischio di rovinare una sorta di igiene mentale prescritta da chi sa quale dentista intellettuale. Senza saperlo, ero dogmatica, ed essere dogmatici è risaputo essere cosa molto grave per un kantiano. Anche senza aggiungere il fatto che essere kantiani a Berlino pare già sufficientemente ossimorico e imbarazzante.
Una questione in particolare mi ha scosso dal mio sonno berlinese. Le persone che incontravo sembravano non vedere l’ora di rivelarmi l’antidoto contro la solitudine, la sensazione di insistenza sociale, la formula per sopravvivere a Berlino senza morire di solitudine, di astinenza sessuale o affettiva. La ricetta era semplice e aveva un solo nome: online dating. “Mai! Altre persone potrebbero farlo, ma sicuramente non io!”. Giustificavo il mio rifiuto categorico con una serie di argomenti pronti all’occorrenza, dietro ai quali probabilmente si nascondeva il fatto che avevo solo paura di rovinare la mia reputazione, l’idea che volevo proporre di me quale persona sofisticata che non si sarebbe mai sporcata le mani con un gioco nel quale sarebbe verosimilmente stata molto scarsa. Ad ogni modo, a parte la consapevolezza dell’esistenza di una vasta letteratura accademica e aneddotica sul tema, io non avevo nulla di concretamente convincente con cui giustificare la mia appartenete irremovibile decisione di non prendere parte al gioco degli incontri. Semplicemente mi mancava l’esperienza necessaria per parlarne. Finché non è stata proprio l’esperienza stessa, la pietra di paragone della conoscenza, a dominare la mia curiosità. Dovevo sperimentare ciò che finora avevo solo dogmaticamente criticato.
A dire il vero, non è stato tanto per ottenere il diritto di avere un’opinione sull’online dating che sono scesa in campo. Non si trattava solamente di una mera esplorazione di un luogo sconosciuto a fini conoscitivi. Alla faccia di tutte le mie speranze e dei miei sogni romantici, mi rendevo conto sempre più che le nuove conoscenze non piovono da cielo. In tutto ciò, in onore al senso comune, cercavo di convincermi che, insomma, dopotutto ci dovesse pur essere una ragione per cui così tante persone impiegano così tanto tempo davanti allo schermo dello smartphone ad analizzare potenziali candidati per one-night-stands o per relazioni a lungo termine. Ci doveva pur essere un motivo per cui le persone impiegano tale incredibile quantità di energia nel mettersi in gioco incontrando perfetti sconosciuti, raccontando e ripetendo più volte e da capo la storia della propria vita o le solite bugie. Nella dolce sospensione delle mie convinzioni, non ho potuto non chiedermi: “Ma quindi, cosa stai cercando? Non lo so ancora”. Ciò, secondo la logica delle dating apps, anziché essere motivo di vergogna, sembrava una legittima mossa del gioco: una dichiarazione perfettamente ammissibile non solo a se stessi, per poi essere tenuta nascosta, ma universalmente comunicabile.
2. Scetticismo morale
“Cosa stai cercando? Non lo so ancora”. All’inizio ho provato un senso di liberazione. Per la prima volta nella mia vita romantica l’indecisione e persino l’ambiguità esplicita erano onestamente e forse persino orgogliosamente accettate dalla comunità del dating. Non avevo bisogno di giustificazioni o spiegazioni. Tutto sembrava legittimo, a seconda del gioco che si decideva di giocare, e quindi secondo le regole da seguire per perseguire il proprio obiettivo. Ma io giocavo il gioco degli incerti e quando si è trattato di iscriversi alla piattaforma, mi sono resa conto di non avere alcuna strategia. Dopo tutto non avevo nessun obiettivo. Stavo cercando solo sesso senza impegno? Non era niente che ero pronta ad ammettere, nemmeno a me stessa. Cercavo allora una relazione a lungo termine, un amore romantico ed esclusivo ? Mi aspettavo forse, volente o nolente, di innamorarmi, come prometteva la pubblicità delle apps? Non proprio. Pensavo che questa potesse essere finalmente l’occasione perfetta per costringermi a esplorare relazioni umane alternative, meno impegnative e forse addirittura più appaganti. Pensavo che avrei potuto imparare a mettere a tacere il mio atteggiamento giudicante, inevitabilmente modellato da preferenze meramente soggettive, idiosincrasie, interessi privati e pregiudizi. Pensavo avrei potuto astrarre da questi limiti e che sarei riuscita a costringermi ad essere aperta e disponibile a tutto e a tutti per evitare il rischio di diventare vittima della mia schizzinosa facoltà di giudizio. A fronte di tutti questi buoni proposti, non mi aspettavo che non sarei stata aperta all’immoralità. Ancora più sorprendentemente, non mi aspettavo che non sarei stata disponibile a confrontarmi con la mia di immoralità.
È d’altronde possibile essere morali in un’arena in cui tutti i partecipanti alla competizione non possono che curare i propri interessi personali? La domanda mi si è presentata spontaneamente come una forma di premeditatio malorum. Gli incontri online sono difatti una sfida. Tanto è facile entrare in contatto con le persone, quanto è facile rimanerne delusi, avvenga ciò in modi strani, o letteralmente in nessun modo. Secondo le fonti a me disponibili, il cosiddetto ghosting è difatti un’occorrenza frequente e un’esperienza comune. In fin dei conti, mi dicevo, il problema della moralità non può che valere in misura particolare nel territorio del dating, proprio per via delle speranze di felicità e di amore che promette, e che le persone sembrano disposte a raggiungere con ogni mezzo possibile. Ora, ci si potrebbe chiedere cosa ci sia di sbagliato. In fin dei conti tutti agiscono inevitabilmente secondo il principio della felicità, cioè tutti vorremmo essere felici e agiamo in base a questo desiderio. Ciononostante, l’idea di felicità varia radicalmente tra gli individui, così come i mezzi necessari per raggiungerla, e ciò non può che creare conflitti irrisolvibili tra le varie rappresentazioni del godimento e dei mezzi ad esso appropriati. Per non parlare della breve vita dei desideri nell’individuo stesso. Inutile dirlo, ciò che penso di volere ora non è necessariamente ciò che potrò desiderare tra 5 minuti. Non è possibile basare le proprie azioni su desideri di questa natura se si vuole che esse godano di una qualche coerenza interna e, a maggior ragione, se si vuole che esse siano morali.
Con il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me, sentivo che stavo per addentrarmi nella capitale mondiale dell’amore di sé. Ed ero decisa – ancora una volta in modo molto dogmatico e irrealistico – a non lasciarmi andare all’immoralità, a non accogliere alcuna occasione per agire meramente sulla base del mio interesse personale. In un certo senso, mi precludevo la possibilità di essere facilmente felice senza meritarmelo. Affrontare innumerevoli dilemmi e masturbazioni etiche mi era sembrata quindi la via più diretta per meritare il tipo di soddisfazione che si può solo sperare di ottenere in una vita futura.
Una volta stabilito il mio credo morale, ero pronta a iniziare. Fissai il mio primo appuntamento, al quale mi presentai con teatrale nonchalance. Come prevedibile, è stato piuttosto deludente. Abbiamo perso un film che volevo vedere al Babylon, e siamo pericolosamente finiti a parlare in un bar, dopo aver girovagato per un po’ per Prenzlauer Berg. Tutto quel pensare, quel preoccuparsi, quel rompere il ghiaccio per cosa? Cosa mi aspettavo? Senza volerlo, mi ero lasciata coinvolgere dalla narrazione. Alla fine, mi aspettavo forse che apparisse qualcuno di straordinario. Alla fine, mi aspettavo proprio il colpo di fulmine e di finire a versare un fiume di lacrime dopo essere stata scaricata bruscamente, come tutti hanno sperimentato almeno una volta nella loro carriera nel dating. Come minimo, mi aspettavo che mi venisse concessa almeno la soddisfazione di avere un’interessante storia qualsiasi da raccontare agli amici. Ciò che non mi aspettavo, che non avevo neanche preso in considerazione era la possibilità di un incontro ordinario con una persona ordinaria. Simpatica, ma poco attraente, almeno ai miei occhi. Insomma, ero preparata esclusivamente a circostanze straordinarie, nel bene e nel male.
Dopo due ore di inutili chiacchiere che non sono servite a cambiare minimamente la mia prima indebita impressione, l’unica cosa che mi è rimasta è stato un dilemma etico: “Devo rivedere questa persona?” Potrebbe non sembrare affatto un dilemma etico. Ma non potevo fare a meno di vederlo in questo modo. Se avessi seguito il mio intuito, non avrei mai fissato un secondo appuntamento. Tuttavia mi chiedevo: “Sono troppo esigente?” Era forse il mio sentire guidato da pregiudizi o inclinazioni, che mi portavano a giudicare questa persona troppo frettolosamente in base a pregiudizi inaffidabili e oscuri? Ho accolto la preoccupazione e ho fissato un secondo appuntamento.
3. La bellezza della contingenza e l’angoscia della personalità
È impossibile essere sicuri al 100% che la propria intenzione sia puramente morale. D’altra parte, se si teme che la propria azione sia determinata da un’intenzione moralmente spregevole, allora sicuramente lo è. A quanto pare, non c’è limite all’auto-condanna morale. Il secondo appuntamento ha confermato che non ero interessata a questa persona. Ma purtroppo ero costretta a mettere in discussione questo stesso disinteresse. Perché non ero interessata? E perché questo dovrebbe essere un motivo per non approfondire un rapporto umano? Quali erano le RAGIONI? Dopo il nostro secondo appuntamento il mio “date” mi ha purtroppo mandato un messaggio dal tono opposto alle mie preoccupazioni: “Ehi, come stai? Hai programmi per il prossimo fine settimana?” Il messaggio era innocuo esattamente come suona. Dio solo sa quanto mi sarebbe piaciuto ignorarlo. Per risparmiarmi lo sforzo emotivo e intellettuale di giudicare qualcuno senza alcun fondamento apparente se non la prima impressione. Il ghosting mi sembrava a quel punto così facile e forse nemmeno così immorale. Anche se, ovviamente, la moralità non dipende dalla fattualità di come agisce la maggioranza, la pervasività del fenomeno del ghosting in qualsiasi discussione sull’online dating è così impressionante che ci si potrebbe sentire a proprio agio nel concedere il seguente ragionamento: “Questa persona è solo un estraneo dopo tutto, non gli devo nulla. Non lo conosco, quindi non sono legata alla morale. Per far fronte a questo sentimento, il mio desiderio di agire moralmente ha preso quindi la forma di un ennesimo dubbio: “Non è forse vero che tutti, alla fine, meritano il tempo di essere conosciuti?” Più ci pensavo, più la mia risposta sembrava razionalmente obbligata ad acconsentire. Il che mi ha portato a trarre alcune considerazioni generali e caritatevoli sul dating online e, quindi, a sferrare l’attacco finale al mio pregiudizio.
Da dove nasce la sensazione che un incontro fissato online sia privo di significato? A un esame più attento, questa affermazione non regge. Il modello che si utilizza quando si condanna il dating online può essere quello della cotta per il compagno di classe, il compagno di squadra, il collega, cioè qualcuno che si vede per forza regolarmente senza poterlo decidere. In questa condizione, si ha l’impressione di conoscere già la persona per cui si ha un interesse sentimentale o di poter approfondire sensatamente la conoscenza sulla base di un terreno condiviso. Ma questa impressione regge finché nasconde il fatto innegabile che ogni incontro è, in fin dei conti, molto contingente. È un fatto meramente contingente che si sia capitati nella stessa classe o nello stesso posto di lavoro. In effetti, siamo circondati da persone che incontriamo per caso e che ci piacciono per caso. Così, se l’accento cade sulla casualità di un incontro, o ogni relazione è priva di significato o il dating online è solo un’esperienza radicale della contingenza che ci mette in contatto con le persone, con buona pace della logica algoritmica. Come esperienza, l’online dating ci chiede di coltivare la nostra fiducia nella contingenza e nel potenziale di trasformarla in ciò che potremmo osare chiamare destino. La trasformazione della contingenza in destino è difatti il trucco che escogitiamo ogni volta che ci troviamo di fronte all’inspiegabilità di ciò che accade. Ci sforziamo di riportarla su un terreno solido, di riconquistare il controllo contro la minaccia del non senso. Vogliamo che la contingenza abbia un senso. Vogliamo che la contingenza smetta di essere tale. Vogliamo credere che l’amore sia destinato ad accadere. Per quanto mi riguardava, non volevo rinunciare a questo pensiero. Volevo fidarmi della contingenza.
Ma c’erano le condizioni per fidarsi della contingenza nella mia situazione particolare? Ci si può davvero fidare della contingenza quando si gioca una partita in cui il trofeo del vincitore è l’amore in una delle sue diverse forme? La moralità richiede un fondamento stabile e la contingenza rappresenta solo un ostacolo per la sua affermazione. Questo vale soprattutto per gli esseri umani, tragicamente divisi tra due mondi, tra la dimensione sensibile e quella soprasensibile. Secondo Kant, all’essere umano è concessa piena cittadinanza essenzialmente nella seconda dimensione, poiché è in virtù del suo carattere razionale intelligibile che gli esseri umani sarebbero perfettamente uguali gli uni agli altri. Senza fare affidamento su questo terreno comune sovrasensibile, alla morale verrebbe negato lo status oggettivo e universale di cui pretende di godere.
Seguendo Kant, potrei quindi anche tentare di sostenere che volevo fidarmi proprio del carattere intelligibile di cui ognuno gode in quanto essere finito ma razionale, indipendentemente dalla stessa contingenza del suo carattere individuale e della sua storia personale. Sebbene possa sembrare un risultato controintuitivo, la mia fede nella contingenza aveva assunto la forma di un tentativo di astrarre da tutti gli aspetti contingenti di me stessa nel giudicare il mio date e dell’altra persona nel farsi giudicare da me. E questo proprio come strategia per affrontare la radicale casualità dell’incontro. Per raggiungere questo risultato, credevo mi sarebbe bastato semplicemente del tempo, il tempo di superare la prima impressione e di conoscere l’altra persona. Quindi, paradossalmente, negare a questo ragazzo il tempo necessario per essere apprezzato mi sembrava rappresentare non solo un tradimento della mia rinnovata fiducia nella mera contingenza, ma anche un mancato riconoscimento del rispetto che dobbiamo agli esseri razionali indipendentemente dalla contingenza delle loro individualità. Dopotutto, capita con molte persone che magari non ci piacciono a prima vista ma che finiamo per apprezzare grazie al tempo trascorso insieme. In effetti, è il tempo che crea significato. Arriviamo a provare affetto grazie al tempo trascorso insieme in classe, in un team, in uno spazio di lavoro, sia per l’esistenza di un comune di interesse, o di circostanze che ci sono imposte, o anche quando – come nel mio caso – tutto ciò che è disponibile è l’esperienza comune della contingenza radicale, il tipo di esperienza che ci ha fatto incontrare. Agli esseri umani dobbiamo il tempo, in tutte le diverse forme che può assumere.
Mentre mi interrogavo su tutto questo, il tempo stesso passava e non avevo ancora risposto al messaggio del povero ragazzo. Ho pensato che potesse essere la prova che la ragion pura pratica non può tutto sommato determinare immediatamente la volontà, come cerca di dimostrare Kant. In effetti, ci vogliono almeno un paio di giorni. A quel punti mi sono che visto che avevo già fatto lo sforzo di mettermi in gioco e di rompere il ghiaccio, forse avrei dovuto cercare di abituarmi a questo ragazzo, magari prima o poi saremmo potuti diventare amici. Gli ho quindi risposto dopo due giorni con un messaggio che mi pareva educato. Mi sono scusata per il ritardo della mia risposta. Gli ho detto che stavo bene. Gli ho comunicato i miei programmi per il fine settimana e gli ho chiesto dei suoi. Non ho mai ricevuto una risposta.
È l’intenzione di essere morali ad ogni costo essa stessa morale? È proprio vero che quanto più si riesce a forzare se stessi contro il proprio desiderio, discutibile e tuttavia immediatamente vero, tanto più si può guadagnare in moralità? Non lo so. Il punto è che, alla fine, qualcun altro ha scelto e io no. E a me andava benissimo così: “Lascia che gli altri siano immorali se puoi uscire da una situazione con la coscienza pulita”. La mia massima sembrava suonare così. Dubito fortemente della sua moralità, per non ribadire che la coscienza pulita è solo un’irraggiungibile “idea della ragione”. Tuttavia, mi è rimasto il sospetto che non siano solo le persone che incontriamo a non essere così entusiasmanti come vorremmo, ma che siamo noi stessi a non essere così particolarmente interessanti in primo luogo. Lo stesso vale per i giudizi sulla moralità. Da questo punto di vista, essere un kantiano, con tutte le masturbazioni morali da guastafeste che ciò implica, non è di certo un vantaggio. Ma contro questa condizione non c’è ancora un antidoto efficace.