di Stefano Raimondi
[Esce in questi giorni per Valigie Rosse un nuovo libro di poesia di Stefano Raimondi, L’Atalante, terzo volume della ‘Trilogia dell’abbandono’ (Per restare fedeli, 2013, Il cane di Giacometti, 2017). Ne anticipiamo i primi otto testi]
Dimmi da quale grazia partire
per rendere conto alla luce
alle tue mani, al fiato slegato.
Eppure ti ho creduto fino alla fine, fino
a quando il capogiro non si è fermato
sopra un’alleanza tolta dalla carne.
Ti ho creduto senza che nessuno
lo sapesse del giorno tolto, piano piano
dalle lenzuola, dai bordi della casa.
*
Si cominciano così le preghiere:
a testa alta, con le mani premute
sulle gole, come per non morire mai.
…eppure non lo si sapeva
di essere perdonati, di tornare
a fare i conti con le ore serene
con i respiri perduti tra le gambe
che non fossero le nostre, quelle
sbandate verso il basso, verso l’inferno.
*
Tenerti a memoria come chi scompare
come l’insistere delle ferite sotto
le cicatrici, come fossi solo tu
il taglio, il sangue, il sale.
Ma non è questo il vero
il patto fatto a neve appena sciolta.
Si tengono vicini gli orli della sete
i baci, come gli annegati
la loro bolla d’aria.
*
Si tengono le parole
strette come salvagenti.
L’avresti ripetuto
un giorno intero, aggrappandoti
tremando per il silenzio arrivato
fino alla gola e tu non lo sapevi
ancora, delle bracciate fatte controcorrente.
L’avresti cercato dall’altra parte
l’orizzonte, se non ti fosse
mancato il fiato.
Si giunge a riva sempre
come da una prima volta, sempre
con un respiro tolto in più, da benedire.
*
I perdoni si chiamano per nome:
si tengono vicini come le barchette
– inseguite nelle vasche dai bambini –
che si allontanano, si sgridano
che si guardano nei cerchi perdonarsi
come da rotte fuoribordo
scendere, scendere e non sai più
se aspettarle dall’altra parte
o credere ai fondali.
*
Siamo qui e non possiamo dirci
cosa abbiamo amato la prima volta
cosa c’è rimasto in cambio quando
l’acqua ci è arrivata addosso come
un tempo e si sono arrese
in un dirupo d’ossa
le nostre boe girate piano.
Fanno appelli le carezze
dei volti che si scordano
uno dopo l’altro, in fila
e poi è un imploro solo
a ritornare come una marea.
*
E non si osava più neppure vedere
il niente, il torto, il dolore
di un seme uscito a fiotti.
Lasciamolo il male del perdono
il rancore, con il suo secondo
in più per l’odio.
*
Si tengono ferme le nostre identiche paure:
una vicina all’altra per confonderle, salvarle.
Eppure era per la gioia che si tremava
che si teneva intatto il cerchio, l’entrare
e l’uscire della luce dagli abbracci lasciati
sugli stipiti per immergervi le mani.
Lo si faceva per scavare, scavarci
per restare.