di Marco Salucci
Sono docente di storia e filosofia nei licei e so che la scuola è un luogo complicato e delicato. In questo articolo non ho intenzione di parlarvi della scuola italiana ma di quella finlandese, che ho osservato per 10 giorni a metà settembre insieme ad alcuni colleghi e grazie al programma Erasmus+. Questo articolo è pensato sotto forma di diario, scritto osservando le lezioni e organizzato per giornate e luoghi.
Giorno 1 ore 9,30. Arriviamo davanti alla scuola Manakaan di Porvoo, cittadina nella periferia ovest di ad Helsinki costruita dopo gli anni 50 da urbanisti che avevano intenzione di integrare la città alla natura, con il risultato che l’architettura, il design e la foresta sono lo sfondo di tutto quel che succede. Siamo in anticipo, l’appuntamento con il nostro tutor è alle 10 ma qui siamo al nord. Ne approfittiamo per guardare gli esterni: la scuola è una costruzione in cemento e vetro degli anni 70, in mezzo a un bosco, fa bel tempo ma davanti all’entrata non c’è nessuno. Allora facciamo delle foto dei dintorni, alle panchine, al campo da calcio e agli spazi verdi intorno, le strutture sono un po’ datate e il cemento a terra ha delle crepe, ma il tutto sembra curato.
Si avvicina una ragazza, è giovane tonica e bionda, ci sorride. Si presenta come la Prof. di sport e ci accoglie con entusiasmo, sapeva del nostro arrivo. Dopo di lei ci raggiunge un signore che ci saluta a grandi gesti. Scopriamo che è il guardiano e che si chiama Aziz, è di origini marocchine e vive qui da 20 anni. Ci parla inglese ma preferisce il francese. È molto gentile, ci dice che qui ci si annoia un po’ perché non c’è niente da fare, non gli crediamo molto, sappiamo che la natura e lo sport ritmano la vita dei finlandesi e da qualche parte ho letto che qui in inverno si viene a scuola con gli sci.
Sono le 10 entriamo e visitiamo gli spazi che ci diventeranno familiari. La scuola accoglie circa 240 studenti, dai 12 ai 15 anni, famiglie facoltose, classe medio alta. L’interno ha forme geometriche, molta luce, linee spezzate, l’edificio ha 3 piani ma non uno sopra l’altro, piuttosto sovrapposti a zig-zag. Immaginatelo come volete, doveva essere bello. Ora è un po’ datato ma mantiene il suo fascino. Alla fine del giro entriamo nell’aula docenti, qui inizia il diario a luoghi.
L’aula docenti. Ricordate quelle italiane? Banchi nel mezzo, cassetti sulle pareti, manuali in giro, vecchie locandine su muri e Prof. che discutono di didattica o dell’orario che non va. Niente a che vedere. Due docenti stanno facendo un enorme puzzle da 3000 pezzi, un’insegnante sta facendo la maglia “ci rilassa”, dicono. Le vetrate fanno entrare la luce del sole, i Prof. discutono e ci ignorano, ma con benevolenza, sono abituati agli stranieri. L’arredo: un divano a isola, due divanetti, tre poltrone, una cucina all’americana con lavastoviglie, stoviglie, lavandino, piatti e bicchieri, frigo e congelatore. Una varietà di caffè da fare invidia, un lungo appendiabiti pieno di scarpe perché si cambiano una volta arrivati al lavoro. Penso che qui ci si potrebbe vivere, l’atmosfera è accogliente. Ci sono due cesti di mele sul bancone della cucina, sono piccole e dolci, di quelle che si trovano comunemente negli alberi del bosco e nelle ceste di fronte alle case. La gente le raccoglie per i passanti. Intanto il puzzle è sempre più grande e la Prof. con i ferri in mano continua la sua calza. Abbiamo grandi aspettative, la Finlandia risulta sempre tra i primi paesi nelle classifiche internazionali per quel che riguarda le discipline tecniche e informatiche.
Ore 11, aula di cucina. Il nostro approccio con la pedagogia finlandese avviene con il corso di cucina. Ci ritroviamo al piano terra della scuola. L’insegnante ha circa 35 anni, si muove rapida tra i banchi, il forno, i fornelli. Si ferma e proietta alla lavagna una ricetta, sembrano biscotti, i 12 ragazzi seguono attenti. Poi la Prof. dice qualcosa, tutti si alzano e a gruppi di 4 iniziano a cucinare. Il burro, la farina di avena, lo zucchero, la padella e il fornello. Così inizia a diffondersi l’odore dolce e zuccherato del burro che fonde. Poi i ragazzi accendono i forni apparecchiano, aspettano. Sono calmi, si muovono con naturalezza tra padelle, coltelli placche che scottano, forni a 200 gradi. Pericoloso? Eppure non pare ci siano regole, se non quelle del buon senso. Il pericolo è dappertutto ma sembra lontano. Guardo i ragazzi e penso che si sentono liberi, e forse è questo essere liberi, quando qualcosa è dappertutto e sembra lontano.
Ore 13, aula di tecnologia. Adiacente al laboratorio di cucina c’è il laboratorio di tecnologia, di fatto un’officina divisa in tre grandi spazi: uno per il lavoro su ferro, uno il legno, un terzo che sembra verniciatura. Entriamo e siamo sorpresi da un rumore forte e ripetitivo, un martello che batte il ferro, un’azione che richiede forza, stabilità e destrezza. Al banco degli attrezzi c’è una bambina bionda, piccola e graziosa, con il grembiule blu sporco di polvere e il martello in mano. Ci metto un po’ a realizzare che è lei che batte il ferro e produce quel gran rumore. Non mi capacito ancora come una così piccola creatura possa produrre un così grande effetto di forza. È il principio del judo, il debole usa la forza del forte contro il forte, mi pare che quella bambina faccia qualcosa di simile con il suo martello. Il Prof. che ci mostra il laboratorio ha circa 60 anni e veste come un elettricista, è soddisfatto del suo lavoro perché dice che i docenti come lui sono rari. Ci sono attrezzi dappertutto: bracciali non finiti sul banco, sgabelli per terra, scacchiere, cacciaviti disseminati e studenti che si muovono e scherzano con naturalezza tra le cianfrusaglie. Il tutto sembra molto caotico. Qui gli studenti possono portare il tostapane rotto, la maniglia del frigo che si è staccata, la sedia con la gamba divelta, e il Prof. insieme agli studenti aggiusteranno tutto. È una sorta di lavoro collettivo per la cura di un bene personale, un po’ come un socialismo ma inteso al rovescio.
Giorno 2. Arriviamo a scuola presto, sono le 8. Le lezioni iniziano alle ore 8,15 e le ore di lezione sono di 45 minuti. Siamo di nuovo in anticipo, allora ci rechiamo in sala docenti e ci prepariamo il caffè con la macchina americana. Mentre aspettiamo il caffè che cola, arriva la professoressa di arte, sorride, ci saluta, parliamo un po’ della sua famiglia. Ha un cottage a 3 ore di macchina da qui, nel parco di Kintulammi, la regione di Tampere a circa 200 km a nord di Helsinki, si trova nella foresta e vicino al lago Rajasaari. Lo ha costruito suo marito, non ha acqua corrente e poca elettricità, quella dei pannelli solari. Ma hanno una barca e una sauna ed è lì che vanno per scappare dalla città e dallo stress del lavoro. È lì che si ritirano e ritrovano se stessi. Ed è una bella lezione di vita che mi da la professoressa: ritrovarsi significa ritirarsi.
Ore 8,15, aula di arte. Entriamo in l’aula, la Prof. tira fuori dei disegni già iniziati e gli studenti iniziano a dipingere, è un lavoro già iniziato che continua. Gli studenti, ci dice l’insegnante, devono disegnare una casa o un palazzo che riflette il loro modo di sentirsi. E poi dipingerlo ma non in maniera realistica. Osservo la classe: disegni sulle pareti, armadietti, banchi disposti in due isole da otto, i maschi sono seduti separati dalle femmine. Una ragazza nera e con il velo è sola. Un’altra arriva in ritardo nella più grande indifferenza di tutti, è molto carina ed è vestita sexy, si siede di fianco alla ragazza velata e iniziano a parlare, sono amiche e le vedremo spesso insieme.
Non smetto di stupirmi della libertà che si respira in questa struttura, i ragazzi possono entrare in ritardo, uscire senza chiedere il permesso, studenti di altre classi entrano, discutono con gli amici e escono; penso anche a Foucault e alle istituzioni disciplinari. Foucault dice che nella modernità le istituzioni disciplinari si aprono e si tende a lasciare liberi gli internati, ma è una libertà che inganna, si libera per controllare meglio. Mi chiedo se anche qui è così: sono più liberi per controllarsi meglio, chissà.
Ore 12,30, aula di inglese. Immaginate una finlandese e immaginatela giovane e bella, ecco, la Prof. d’inglese è così: si chiama Saara è bionda, sorridente, rossetto rosso e occhi azzurri. Entriamo nella classe insieme agli studenti che immediatamente prendono i banchi e li spostano come vogliono loro, alcuni si mettono dietro, tutti arretrano, ragazze truccate vicino a ragazze truccate, ragazzi avvolti da un forte odore di deodorante vicino a loro compagni di profumo, i più lenti e meno reattivi stanno davanti. L’insieme non ha geometria, alcune file sono lunghe altre meno, alcuni ragazzi rimangono isolati. La lezione è abbastanza tradizionale, regole, lettura, esercizi. Presto ci accorgiamo che i ragazzi sono agitati e la chiamiamo la classe dei monelli: le ragazze chiacchierano, i ragazzi ridono, alcuni tirano fuori il cellulare, altri si tolgono le scarpe e si fanno scherzi. C’è confusione. La Prof. guarda chi da fastidio e fa dei segni sul suo quaderno. Ma non li richiama né tantomeno urla. Mentre va avanti con la sua lezione io sono in imbarazzo per lei, so come funziona e mi pare che non gestisca la classe. Ma ho anche dei dubbi, forse è voluto, forse è la pedagogia. Qui gli insegnanti sono molto più pedagoghi che sapienti, e sanno che educare i giovani all’età adulta non significa prepararli ad essere adulti ma liberarli dallo sguardo degli adulti.
Giorno 3. Oggi piove, è il 13 settembre e qui in Finlandia è arrivato l’autunno. Per gli studenti non cambia molto, li vediamo arrivare a scuola uscendo dal bosco, a piedi o in bici, indifferenti all’acqua, contenti di andare a scuola.
Ore 9, Aula docenti. Dovevamo seguire una lezione di chimica ma è stata annullata, il laboratorio non è agibile, anche qui i lavori hanno spesso ritardi. Decidiamo di restare in aula docenti e sbrigare un po’ di burocrazia che i progetti europei sono sempre molto attenti a non far mancare. La ricreazione è suonata ma l’aula è vuota. Poi d’un tratto si riempie di Prof. con gilet gialli addosso, per 10 minuti i docenti sono rimasti nei giardini e corridoi a sorvegliare, si tolgono il gilet, cambiamo le scarpe, si fanno il caffè in cucina, si siedono sul divano e si mettono a fare un nuovo puzzle da 3000 pezzi. “Ci permette di non pensare a nulla”, dicono. Penso di proporre la stessa attività nel mio liceo, fare in modo che i Prof. non pensino a nulla. Desisto quasi subito dal mio proposito. Chissà se è accettabile, chissà cosa penserebbero i colleghi se dico che faccio un puzzle per non pensare prima di una lezione. Tempo perduto? Penso a Proust e mi dico che il tempo perduto non è mai tempo perso.
Ore 11, aula di inglese. Ci troviamo nella classe degli studenti STEM, quelli bravi. L’insegnante chiede cosa è successo, questo perché durante la notte negli Stati Uniti c’è stato il dibattito per le presidenziali tra Trump e Harris, allora si discute: “Cosa vi ha colpito di questo dibattito?”. Alcuni studenti alzano la mano, sono interessati e vogliono esprimersi. Poi viene mostrato un video con dei passaggi del dibattito e i ragazzi devono dire chi secondo loro è stato il migliore e perché. Per le ragazze ha vinto Harris perché difende il diritto all aborto, per i ragazzi ha vinto Trump perché difende le frontiere. Mi stupisco della risposta ma poi mi viene in mente che la Finlandia ha più di 1000 Km di frontiera con la Russia, uno Stato in guerra. Alla fine della lezione pongo la domanda alla professoressa e le chiedo come i finlandesi sentono la questione del vicino russo, è chiaramente imbarazzata e vuole cambiare argomento. Secondo Heidegger la paura si differenzia dall’angoscia perché ha un oggetto ben preciso, della paura si può parlare. La questione della frontiera è più di una paura, è qualcosa senza oggetto che si avvicina all’angoscia.
Giorno 4. Ore 9, aula di ginnastica e bosco. Questa mattina ci aspetta la Prof. di sport, in programma c’è una sessione di orientamento nel bosco intorno alla scuola. Mi sono portato i miei panni sporchi, sperando di trovare una lavanderia a gettoni nei dintorni. Ma Porvoo è una città ricca, ha un bel museo di arte moderna un parco naturale, campi da golf, aree per lo sci di fondo, ma nessuna lavanderia a gettoni. Appena davanti alla scuola Aziz vede la mia borsa Ikea con dentro i miei vestiti, capisce e mi propone di usare la lavatrice della scuola. Carica lui la lavatrice, lo ringrazio, parliamo un po’ francese poi mi reco in palestra. È simile alle nostre, pareti bianche con attrezzi appesi e il pavimento in legno. I ragazzi ascoltano le spiegazioni, poi i Prof. danno loro una cartina del bosco con i rilievi, i corsi d’acqua, le parti rocciose. Partono spediti alla ricerca delle bandierine e si orientano con facilità, hanno familiarità con la natura. Noi li seguiamo ma siamo impacciati, ci perdiamo subito, non capiamo in che punto siamo. Mi separo dai miei colleghi e mi ritrovo in una strada sconosciuta, così tiro fuori google maps, alcuni studenti mi incrociano e vedono che ho il telefono in mano, sorridono. Mi vergogno un po’. Dopo mezz’ora mi ritrovo a scuola, ritrovo gli studenti che sono arrivati prima di me, sorridono ancora. La lavatrice ha finito, Aziz ha ritirato i panni, lo ringrazio e li metto nell’asciugatrice che ha una forma di frigo ma che invece di raffreddare scalda. Vicino a noi c’è un cane, di grossa taglia e bianco, lo accarezzo e gli chiedo se è il suo cane. Mi dice che no, è il cane del Prof. di Matematica, ha dei problemi e non può stare a casa da solo, allora passa le sue giornate a scuola e gli e permesso di spostarsi nelle parti comuni. Da noi tutto questo non sarebbe fattibile perché tutto è regolato, qui invece è fatto tutto con naturalezza: i ragazzi nel bosco, il cane a scuola, la lavatrice.
Giorno 5. Pioggia, nella stazione metropolitana di Tapiola ci fermiamo per comprare delle paste da offrire a tutti i colleghi per dire grazie della loro accoglienza. Quando arriviamo ci accorgiamo che siamo un po’ tristi, è l’ultimo giorno in questa scuola i cui volti ci sono diventati familiari. Riconosciamo gli studenti bravi e quelli più agitati, facce che ci sorridono e Prof. che ci salutano col tono della routine, facciamo ormai parte del loro paesaggio come loro del nostro.
Ore 9, aula di matematica. Si lavora sulle frazioni, gli studenti hanno dodici anni, sono piccoli ma sono tutti concentrati. Mi soffermo sulla lavagna luminosa e noto che ha qualcosa di strano. Qui ci sono lavagne ma nessuno le usa, la Prof. scrive sul suo quaderno, sopra c’è una telecamera e il quaderno è proiettato sullo schermo. È così in tutte le classi. Usano la tecnologia, ma quella semplice e buona, quella che non cambia ogni anno e che non si blocca ogni giorno per aggiornarsi. Quella slow e non performativa.
Ore 12,30, aula di musica. Il laboratorio di chimica è in ristrutturazione allora la lezione si tiene nell’aula di musica. Entriamo e salutiamo, ma non riceviamo nessuna risposta. Sono distratto dai materiali: un piano a coda e un piano verticale, una pianola, una batteria, 8 chitarre elettriche e 23 acustiche appese al muro, un sistema di registrazione. È un’aula che da energia. La Prof. spiega il sistema atomico in generale, poi tutti gli studenti aprono il computer fornito dalla scuola e lavorano su Classroom. Ognuno deve studiare e comprendere il suo elemento. Ognuno in maniera diversa. Anche la natura funziona così: ogni elemento funziona come i suoi simili, ma si posiziona in quel tutto che lo fa risultare diverso.
Giorno 6. È passato il week end, è lunedì e questa mattina ci rechiamo alla seconda scuola, Kouvuklan koulu, si trova nella cittadina di Vantaa, periferia nord est di Helsinki. Foreste e case tra i boschi ma anche grandi palazzine di urbanistica popolare. È una cittadina dove parte della popolazione è formata da immigrati. La scuola sembra un grande hangar, circa 400 studenti e 40 docenti, il 40% degli studenti ha origini straniere.
Dentro ci sono lunghi corridoi e lampade bianche al neon; ci accoglie Taru, la Prof. di inglese. Ci offre il caffè con delle paste alla cannella, parla italiano e ci fa vedere la scuola. Visitiamo le aule e mi stupiscono le differenze. Qui i laboratori di chimica e fisica hanno un’anti-aula aperta solo ai docenti e dove preparano le loro lezioni, i loro miscugli e i loro esperimenti. Tutto è polveroso e un po’ caotico. Poi c’è l’aula di cucito, noi l’avremmo chiamata economia domestica, si lavora con i tessuti ma ci sono anche ferro da stiro e aspirapolvere perché gli studenti devono imparare a fare le cose di casa. È così: qui non è la famiglia a trasmettere la cultura della casa ma la scuola. Mi stupisce come la pedagogia più avanzata si coniughi con le attività più tradizionali.
Ore 10, cucina. Iniziamo con due ore di cucina e ormai sappiamo come funziona: ricetta, zuppa di pomodoro e cornetti salati, temo gli odori di fritto. Qui però si fa lezione scalzi e la Prof. tiene molto al binomio verdure di stagione, prodotti local e etica della salute. Abbiamo lasciato le scarpe nell’anti-cucina, trovo molto scomodo stare scalzi in un luogo dove si usano olii e si maneggia cibo allora mi distraggo e penso che è il primo giorno di scuola in Italia. Come non pensarci, qui la scuola è iniziata il 10 agosto, poi penso che ormai l’effetto meraviglia è finito e che non riuscirò più a cogliere i dettagli come nell’altra scuola, che oltretutto ci manca. Ci mancano i volti degli studenti, ci manca Aziz, ci manca la bella prof di inglese.
Ore 11, Aula di geografia. Entriamo nell’aula dopo la ricreazione e siamo al centro dell’attenzione. La classe ha circa 20 studenti, l’aula è molto buia, la sola finestra è coperta da una tenda. La Prof. vuole che si parli dell’Italia, ci lascia carta bianca e si mette in fondo. Rimarrà in silenzio per tutta l’ora. Iniziamo a parlare e cerchiamo di interagire con gli studenti. Quale è la capitale? Cosa conoscete dell’Italia? Gli studenti non rispondo. Ci saranno i lunghissimi momenti di imbarazzo. Poi alla fine 2 ragazze di origine africana si aprono, ci dicono come si vive in Finlandia, cosa fanno i giovani, che gli inverni sono troppo lunghi e che vorrebbero venire a vivere in Italia, o in Spagna, non sanno. Parliamo di Bologna, la nostra città, del suo cibo, mostriamo le immagini e ci attendiamo un effetto meraviglia. Ma ci sono poche reazioni, la noia e l’indifferenza sono sensibili. Eppure devono avere fame perché sono quasi le 11,45 e qui è l’ora di pranzo. Capiamo che il cibo non struttura la loro vita, che è piuttosto un’attività funzionale e non fa parte, come per noi, dell’affettività.
Ore 12,15. Aula di spagnolo. Entriamo, ci presentiamo, la Prof. ritira i cellulari e li mette in un cestino in plastica dove sono posizionati nelle apposite feritoie, in verticale. Inizia la lezione di grammatica che mi pare tradizionale. 12 studenti fanno esercizi con l’aiuto dell’insegnante, si lavora sui complementi, non facile perché in finlandese le preposizioni non ci sono. Mi guardò in giro e noto l’arredo dell’aula. C’è un lavandino, un poster con l’agenda 2030, c’è un divanetto, l’aula è grande. Sono le sedie che mi incuriosiscono. Ho sempre pensato che le classiche sedie in legno delle classi italiane siano estremamente scomode, e a ragion veduta perché gli arredi ci dicono molti dei non-detti della scuola. Ci dicono che il corpo non trova bene il suo posto a scuola, anzi che è un ostacolo al conoscere e che quindi, se non può essere dimenticato, per lo meno deve essere trattato un po’ male. Qui invece le sedie sono in plastica, hanno forma ergonomica e sono comode. Nel paese delle saune il corpo ha una sua cura perché viene usato per conoscere: cucina, attrezzi, cucire. Il corpo è un prolungamento e non un ostacolo alla conoscenza.
Giorno 7. Ore 10, aula di musica. All’appello gli studenti sono 10, è una materia a scelta e la scelgono in pochi. Prendono ognuno una chitarra, di quelle appese alle pareti e che decorano l’aula facendola assomigliare a un negozio di musica. Rumore di accordi, siamo curiosi di vedere come funziona la lezione. Mentre per le altre avevamo aspettative, qui non ce la immaginiamo affatto. L’evento puro. I ragazzi tirano fuori i cellulari e accordano le chitarre con un’applicazione.
L’atmosfera è rumorosa, la Prof. gira tra i banchi, una ragazza suona dando fastidio. Nessuna reazione. Poi inizia la lezione vera e propria, piacevole vedere come gli studenti cercano di suonare in accordo e dietro la guida dell’insegnante che scandisce le note a voce. Mi distraggo, passa qualche minuto e mi accorgo che suonano in concerto, qualche stonatura ma tutto sommato nella classe c’è stata una progressione. Teoria, prove individuali, melodia a pezzi e infine il tutto tutti insieme. Qui si fa in modo che gli studenti si sentano progredire verso la collettività.
I corridoi. Cosa ho imparato oggi? Ho imparato che i corridoi permettono di meglio comprendere un popolo. Qui in questa scuola sono larghi e si incrociano in atri anonimi, difficile distinguere un corridoio dall’altro. Il solo elemento distintivo sono i grandi insiemi di armadietti posti a ridosso delle pareti. Sono tutti uguali e tutti chiusi, divisi in blocchi colorati con i colori primari e secondari: rosso giallo blu verde. Servono agli studenti per tenere le loro cose e a noi per orientarci. Osservandoli capisco che questa scuola è più complessa della prima. Non c’è un’architettura, come i corridoi essa è anonima ma percorsa da gruppi di studenti divisi dai loro codici sociali. Il codice più evidente, l’abbigliamento: ragazze indiane con vestiti larghi e colorati camminano a braccetto sorridendo discretamente, loro parlano piano. Giovani dalla pelle scura che si muovono scomposti, corrono, ai piedi portano ciabatte con calzini di spugna, gridano. Ragazzi neri e alti dal passo sicuro in tuta da ginnastica e scarpe da tennis dai colori visibili, loro occupano lo spazio. Infine ci sono ragazze nere con sorriso in bocca e cellulare molto visibile in mano. I ragazzi più biondi e bianchi si vedono poco in questi corridoi, li si trovano invece in classe. Ricordo, dalle lezioni all’università, che i corridoi nascono nel 1600 nelle case dei borghesi, per avere privacy. Qui in questa scuola il corridoio ha una funzione esattamente contraria, è luogo pubblico, luogo di incontri, luogo appannaggio delle classi popolari.
Ore 12, aula di matematica.
Mentre rifletto sui corridoi sono a lezione di matematica, distratto. La lezione sulle addizioni consiste in un lavoro individuale, il Prof. si chiama Toni, è sorridente e parla un po’ italiano. Va da un banco all’altro e a ogni studente chiede come va, se ha bisogno di qualcosa, se ha capito. Sorride sempre e lo chiamiamo Tony sorriso. Passa anche da noi, ci chiede come va, se abbiamo bisogno di qualcosa, se abbiamo capito. E sorride. Il tempo si dilata, i pensieri se ne vanno, manca poco alla fine della lezione che non finisce mai. Mi guardò intorno e improvvisamente mi rendo conto che c’è uno studente sdraiato sulle sedie, la scena merita riflessione ma improvvisamente da dietro un grido femminile mi penetra nella testa. Il grido è lungo e straziante, forte al punto che ne siamo scossi. Guardo il Prof., Toni sorriso rimane indifferente. Non capisco. All’improvviso qualcosa si muove. Una Prof. di geografia che si trovava anche lei nella classe (non chiedetemi cosa ci faccia una Prof. di geografia alla lezione di matematica), va dalla studentessa dal grido facile e l’accompagna fuori dall’aula. Mi aspetto grida di rimprovero e invece nulla, qualche secondo dopo la porta si apre, la Prof. indica me, devo uscire. Sono imbarazzato, capisco che è una dinamica pedagogica ma l’urlo non ha disturbato tanto me quando la classe intera. Esco e entro nel ruolo, la ragazza mi deve chiedere scusa e io devo accettare le scuse. Tutto suona falso ma il risentimento e la frustrazione della ragazza sono veri. Dico che non fa nulla, che non ci sono problemi e la scena finisce con la Prof. e la studentessa che si abbracciano. Sono sempre più in imbarazzo, rientro e ritrovo i miei colleghi che se ne stanno andando, ne approfitto per uscire anche io e incrocio la studentessa che ritorna in classe, ha il volto stravolto.
Giorno 8. Ultimo giorno. È una giornata particolare, la nostra esperienza si sta concludendo, è il giorno dei saluti ma siamo meno nostalgici rispetto all’altra scuola. Ci abbiamo passato meno giorni, eravamo sempre in classe e ogni volta una classe diversa. C’è stato poco tempo per discutere coi Prof., insomma ci siamo legati meno. E poi c’è la voglia di tornare a casa, bere un buon caffè e mangiare alla mediterranea. Ci sono anche le ultime cose da vedere. Inoltre oggi a scuola c’è teatro e dalle 10 non ci sono lezioni.
Ore 10, il quartiere. Siccome non c’è lezione la nostra tutor ci ha consigliato di visitare il quartiere “Per capire il contesto della scuola”, dice. Così usciamo. Una scuola è sempre in un contesto, lo si sente dire spesso ma a me piace di più pensare alla prospettiva contraria, non quella che va dalla scuola al contesto, che poi è il percorso degli studenti che escono da scuola, ma quella che va dal contesto alla scuola. Mi piaceva di più la strada verso la scuola che quella verso casa. Anche adesso che insegno è così. E allora penso che è il contesto che ha sempre la sua scuola, un luogo dove dentro c’è Dante, Spinoza, ci sono la matematica e la storia dell’arte. E questo in ogni contesto, villaggio, città, periferia che sia. Dante Spinoza Pitagora ci sono sempre, così, decontestualizzati, perché ogni persona, non importa quale sia la sua estrazione sociale, ha il diritto di uscire dal suo contesto, dalla sua casa, dalla sua vita minuscola per passare un po’ di tempo, anche una sola manciata di minuti, coi Dante coi Spinoza coi Pitagora.
Usciamo, fa freddo e ci dirigiamo verso la parte residenziale, le villette in legno con giardino hanno l’accesso al bosco, prendiamo un sentiero e ci ritroviamo tra gli alberi. Qui ci rendiamo conto che i sentieri sono tanti, tutto è piatto e simile allora ci perdiamo: vediamo un vecchio mulino, un fiume, un laghetto, anziani che passeggiano, chiediamo informazioni e scopriamo qualcosa. Il concetto di libertà è ben diverso da quello della rivoluzione francese per cui è permesso tutto quello che non è vietato. Qui nei parchi è il contrario, cioè è vietato tutto ciò che non è permesso. Se non c’è un cartello con scritto che si può piantare la tenda o accendere un fuoco allora non si può fare. È un divieto ma che di fatto sento come libertà, non una una libertà del fare ma dal fare, qui nella natura si sta con la natura, è tutto qui e mi basta.
La mensa scolastica. Ho deciso di finire questo articolo con un luogo di cui non ho ancora parlato, e che tuttavia abbiamo frequentato tutti i giorni alle ore 12: la mensa della scuola. L’uomo è ciò che mangia dice Feuerbach e allora è magari nella mensa che si trova l’essenza di questo popolo, vediamo. Si mangia presto, in teoria la pausa pranzo è dalle 12 alle 12,30 ma a quell’ora in mensa non c’è mai nessuno, di fatto gli studenti mangiano dalle 11 alle 11,45. Il Prof., finito l’esercizio, può decidere di mandare gli studenti a mensa quando vuole, e se gli mancano 20 minuti alla fine della lezione può farlo, solo che subito dopo aver pranzato i ragazzi tornano a lezione per concludere. Non mangiano molto, ecco un menù tipo: un solo piatto che si può riempire di insalata e pomodori, a scelta delle polpette vegetali o di pesce, una salsa alle verdure da mettere sopra, molto curry. Da bere: acqua o latte. Infine una tartina di farina di segale dove con una spatola ognuno spalma la quantità di margarina che vuole. Buono? No, ma nemmeno cattivo, sono sapori che non rimangono, tranne per la tartina, in compenso il tutto è nutritivo. Dopo 10 minuti il pasto finisce, gli studenti prendono i piatti e li depositano su un pass o su dei vassoi che andranno nella lavastoviglie, dividono carta da umido, sistemano le forchette sporche nell’apposita vaschetta e impilano i bicchieri. Tutto è pronto per essere messo in lavastoviglie. In generale sono calmi, il Prof. con gilet giallo può stare tranquillo. Riassumendo le dinamiche della mensa: flessibilità, rapidità, funzionalità, organizzazione, semplicità. L’uomo è ciò che mangia, ecco forse l’essenza di questo popolo.
Interessantissimo ma …
l’Italia è un paese di 60 milioni di persone, quindi la classe dei paesi europei con i quali eventualmente paragonarsi più o meno direttamente sono forse la Francia, la Germania e l’Inghilterra…
Moltiplicate queste visite. L’ Italia affoga in carte che rubano tempo e che nessuno probabilmente legge!!!!
Grazie, molto interessante, anche per la scelta efficace del diario.