di Mariangela Caprara

 

La natura germinale dell’età giolittiana rispetto a molti aspetti salienti dell’Italia contemporanea rischia, quanto meno nella coscienza storica diffusa, di essere offuscata dal suo infrangersi sul ventennio fascista. Similmente, la storia della pedagogia italiana è dominata da due nomi che assorbono quasi totalmente i suoi percorsi novecenteschi, ossia Maria Montessori e don Lorenzo Milani. Il libro di Luisa Tasca, in uscita per Carocci, si inoltra nell’età liberale per mostrare come si sia compiuto in Italia il passaggio da una visione negativa, quasi mostruosa, dei bambini, a una visione positiva, nella quale trovano valore le potenzialità di sviluppo del bambino al di fuori di regimi educativi costrittivi. Questo approccio consente in primo luogo di misurare con maggior precisione il rapporto tra la tradizione educativa italiana e la pedagogia nera, magistralmente illustrata da Katharina Rutschky nel libro eponimo Schwarze Pädagogik del 1977, una raccolta di fonti di vario genere dall’Illuminismo all’età contemporanea. L’età liberale rappresenta infatti in Italia un momento di tensione tra l’educazione familiare tradizionale, tanto borghese quanto popolare, e la creazione di un sistema scolastico che si vorrebbe esteso, omogeneo ed efficace, in vista della trasformazione del paese in senso moderno. Tasca mostra come la scuola diventi il laboratorio principale di una ricerca sul bambino che non è solo filosofico-pedagogica, ma anche medica, antropologica, psicologica, anche perché in Italia non era molto diffuso un modello tipico di altri paesi europei, ossia l’osservazione del figlio bambino di una famiglia borghese, alla maniera dell’Emilio rousseauiano; grazie alla nuova organizzazione scolastica, su cui il neonato stato unitario andò ad investire con energia (se non economica, quanto meno ideologica), fu possibile per gli scienziati raccogliere un numero imponente di dati da classificare e confrontare, il tutto sotto la spinta del positivismo che si andava affermando. Va detto che nel discorso storico diffuso anche rispetto al positivismo italiano si percepiscono delle lacune, per la soverchiante forza dell’idealismo che in sé ha finito con l’assorbire tanti altri percorsi della cultura e della scienza nell’Italia del progresso.

 

Luisa Tasca recupera questi percorsi in un racconto teso ed efficace, che parte dalla ricezione dell’opera di Bernard Perez, il cui lavoro divulgativo La psicologia dell’infanzia. I primi tre anni, tradotto nel 1886, ottiene un successo straordinario e attira l’attenzione di Cesare Lombroso. Inizia da qui, attraverso le traduzioni, un dialogo sempre più intenso con la ricerca che si va compiendo in altre nazioni; un moto affine caratterizza la discussione sull’organizzazione scolastica, per cui la cultura del nostro Paese non rivela, a cavallo tra i due secoli, tratti nazionalistici, e anzi si mostrerà piuttosto aperta ad imparare da quelle realtà che sente più progredite negli aspetti dell’organizzazione statuale. Una volta conclusa questa fase di apprendimento, la ricerca italiana assume, secondo Tasca, due tratti peculiari: da un lato, la preferenza per un metodo antropometrico, da cui l’importanza della raccolta dei dati ricavati dalle misurazioni; dall’altro l’attenzione ai bambini ‘anormali’. La famiglia viene inquadrata da questi ricercatori come un agente nefasto, e si capisce bene quale lotta sia da essi tentata contro il familismo tradizionale e l’educazione cattolica. Il teatro di ricerca privilegiato che è, in Italia, la scuola, metterà infatti tutti gli scienziati (perché si tratta di un movimento che abbraccia discipline dal carattere più scientifico che umanistico) a contatto con una massa di bambini poveri o poverissimi, che venivano per la prima volta fatti oggetto di indagine. E se era pur vero che si trattava, a loro avviso, di delinquenti nati (così Lombroso padre e figlia, Sighele, Ferriani), questi avrebbero trovato la via della guarigione grazie all’intervento di misure preventive e educative.

 

Nel terzo capitolo (I bambini vanno a scuola), ribadendo la centralità dell’organizzazione scolastica nella prospettiva dei ricercatori italiani e dunque la loro scarsa attenzione ai problemi degli individui, Tasca approfondisce in un’intensa narrazione alcune ambiguità e mostra come prendano forma due utopie divergenti: da un lato la fiducia nella scuola come strumento organizzativo e razionalizzatore dell’intera società, dall’altro la fede, con tratti di irrazionalismo, nell’operato degli insegnanti,  visti come ‘ipnotizzatori’ che attraverso la suggestione avrebbero il potere di modificare l’indole degli scolari. Tra le due utopie si dibatte comunque un bambino passivizzato; ma non sfugge quanto questi due estremi siano caratterizzanti, ancora oggi, del dibattito nazionale sulla scuola e sui suoi mezzi per cambiare gli uomini e il mondo. L’osservazione dei bambini conduce ad un progresso comunque rilevante rispetto a un tema caldo nel dibattito sulla scuola dell’età giolittiana, ossia il ‘sovraccarico’, la fatica intellettiva degli scolari, alla quale l’organizzazione dell’orario e delle discipline deve offrire risposte: è noto che fino agli anni Dieci si assiste ad una fase convulsa della legislazione scolastica, dove riforme e controriforme sono il riflesso di tensioni sociali in cui s’intrecciano l’erosione dell’educazione familiare e religiosa, i processi di industrializzazione, l’ascesa del ceto borghese, la disoccupazione intellettuale. Nei bambini e nelle bambine lo Stato cerca di estirpare i futuri ‘spostati’, individui falliti nel tentativo di un’ascesa sociale attraverso i gradi dell’istruzione: Luisa Tasca mostra come, in parallelo a queste vicende e dunque alla riflessione sul crescente disagio sociale, il bambino cattivo venga inquadrato più come il prodotto di precise circostanze ambientali che non come una forma primitiva e selvaggia del vivente. L’immagine del bambino schiacciato dal suo ambiente porta a rivalutarne tutte le manifestazioni affettive, ma in particolare quelle che possono giovare alla sua liberazione, tra le quali si collocano la simpatia e anche i detestati capricci e le bugie: la figura di Pinocchio catalizza tutto questo insieme di riflessioni, e non va liquidata come emblematica di un’italianità immatura, vacua, retorica, come ad esempio nelle analisi di Stewart-Steinberg (L’effetto Pinocchio, Elliot, Roma 2011, citato a pag. 125).

 

L’agitarsi del conflitto sociale, che trova poi una sua strada nel vitalismo e nel nazionalismo pre-guerra, induce una parte della ricerca psicologica a pedagogica italiana a cercare una conciliazione tra obbedienza e indipendenza, tra inibizione e volizione. Qui l’analisi di Tasca appare assai raffinata nel cogliere in età giolittiana «il tentativo di delineare un nuovo individuo, dotato di un certo margine di autonomia, capace però di usarla in modo costruttivo e non conflittuale, adeguata alla trasformazione in corso dei rapporti sociali» (pag. 125), anche come antidoto liberale all’ascesa del socialismo. Nel giro di pochi decenni si compie dunque il passaggio da una visione del bambino fortemente legata al corpo a una più complessa e problematica, nella quale Tasca assegna un posto importante all’emersione del «bambino artista» (capitolo 5), principalmente disegnatore, intorno al quale si delinea il conflitto tra sostenitori di un’educazione estetica che valorizzi l’espressione spontanea e sostenitori di un approccio più ‘culturale’, ossia imitativo di modelli. Il bambino giolittiano segna così «il passaggio dall’immagine di un’umanità concepita come vicina alla natura, a quella del bambino come individuo libero, membro a pieno titolo del mondo culturale» (pag. 162). L’ultimo capitolo è dedicato da Tasca ai «margini», ossia all’insieme dei fenomeni di anormalità, fatti oggetto anch’essi di uno spasimo classificatorio in cui si sente l’influenza di Lombroso. Criminali, disabili e adolescenti sono inquadrati sotto il profilo primariamente biologico, allo scopo di prevenire il danno che la loro devianza dalla norma può portare alla comunità; di qui la spinta organizzativa e amministrativa (nel 1907 vengono istituite le classi differenziali), sempre nello spirito dell’epoca, per gestire l’educazione di questi individui, anche se non per loro stessi. L’Italia arriva a esprimere diversi primati in questo ambito, che poi è quello in cui opera la giovane Maria Montessori.

 

Si vede bene qual è dunque il valore della restituzione storica di Tasca nell’interpretazione complessiva dei fermenti culturali del primo Novecento italiano, i cui riflessi si proiettano su tutto il secolo e oltre; la studiosa si astiene tuttavia (ed è un suo merito grande) dal far precipitare i fenomeni osservati nell’insieme delle ‘premonizioni’ del ventennio fascista, restituendo all’età liberale il suo ruolo di punto di progresso e di svolta dell’Italia, malgrado tutto, nei settori scientifici, che forse andrebbero indagati dalla ricerca storica con più ardore rispetto a quelli umanistici, anche nel loro rapporto con l’insegnamento scolastico. La sua sintesi poderosa, che esprime in un’architettura chiara il risultato di un’indagine su fonti sparse e diverse, si dipana in una scrittura limpida e avvincente, di cui il lettore le sarà vivamente grato.

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