di Luca Vettori

 

La pratica sportiva determina un bacino di utenza enorme.

In un’età cruciale come quella dell’infanzia e dell’adolescenza praticano attività sportive in Italia il 58,0% della fascia 6-10 anni, il 60,6% di quella 11-14 e il 50,1% dei 15-17enni (dati Istat 2021).

Per lungo tempo è stata un’occasione per crescere, per stare in relazione, per imparare a rapportarsi con delle regole predefinite e per divertirsi.

Tuttavia molte cose sono cambiate rapidamente e l’età evolutiva è divenuta un parterre di selezione dove si brama di individuare campioni, atleti da medaglia, scegliendo dunque di scommettere sulle giovani promesse sportive del futuro in età sempre più precoce.

Questo approccio, come rilevano pedagogisti e sociologi, non può che provocare una grande frattura: lo sport sta chiedendo a bambini e bambine di compiere scelte di vita adulta che non sono ancora in grado di assumere consapevolmente (Alberto Pellai).

 

E non solo. In un meccanismo di questo tipo, lo sport agisce nel tentativo di iperspecializzare un* giovane atleta – promettendo futuri rosei e scintillanti di cui non si possiede ancora alcuna certezza, ed escludendo quello che viene considerato superfluo all’interno della sua carriera sportiva.

Occorre dunque situarsi in un solco.

Dove l’assemblaggio dello sportivo è precoce e macchinizzato, s’intende far scomparire le possibilità di inefficacia di un percorso, si vuole escludere categoricamente una carriera senza successi.

Il fastidio più grande per la cosiddetta società sportiva, composta da organizzazioni, comitati, federazioni, associazioni, genitori, atleti, pubblico, giornalisti, è infatti scoprire di aver investito – speculato – su un talento che accetterà la possibilità di perdere, ovvero che per qualche motivo metterà in discussione se stesso – la propria tecnica.

“Sai quanti vorrebbero stare al tuo posto?”, “Sai quanti sacrifici abbiamo fatto per te?”, “Arrivi quarto e hai anche il coraggio di sorridere?”… “Sarebbe davvero uno spreco: rappresenteresti la volatilità di un investimento andato in fumo, nonché una possibilità di guadagno mancata”.

 

Si tenta perciò di correre ai ripari con grande anticipo, ci si trasforma in algoritmi artificiali: si calcola, si massimizza, si produce, si annulla la possibilità che il talento abdichi al successo e lo manchi – per qualunque ragione. “Tu performi per me, tu devi vincere.” Lo si aliena.

Un atleta alienato, legato ben stretto alla sella del proprio talento, deve solo essere foraggiato e spronato, ha meno probabilità di fallire.

Il successo, per un talento macchinizzato – assemblato in questo modo, non è nemmeno più assunto, non è divenuto neppure per un istante un desiderio intimo e proprio, una gioia riservata o una destinazione emotiva.

Quando arriva, se arriva, la vittoria è una tappa dentro cui ci si infrange, che si subisce, un frame che viene celebrato con le iridi vuote, la mascella che mastica rigida e gonfia una medaglia opaca: si è già pronti al prossimo traguardo.

 

Sono stati numerosi i casi in cui atleti e atlete si sono trovati a raccontare esperienze molto simili in seguito, ad esempio, a diverse edizioni dei Giochi Olimpici. Luciano De Cecco, dopo il bronzo ai Giochi di Tokyo con la Nazionale di pallavolo argentina, in un’intervista riporta di aver sofferto di depressione. “Ho affrontato le partite come se nulla fosse, ma poi sono tornato a casa e ho passato tutto il tempo sdraiato sul letto, con la luce spenta, a vedere film”. Così come la ciclista su pista Victoria Pendleton, oro nel 2008 e nel 2012, la judoka tedesca Anna-Maria Wagner o la nuotatrice britannica Cassie Patten, entrambe medaglie di bronzo a Tokyo, raccontano di essersi sentite smarrite, di aver perso ogni desiderio, che nulla più contava per loro.

L’alienazione determina un’identificazione totale con ciò per cui si sta concorrendo, riempie il tempo di lavoro e il tempo libero come una sostanza liquida e melmosa: un atleta più performa, “meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio (Guy Debord).”

 

L’immagine del vivaio diviene così piuttosto precisa, dal momento che il vivaio sportivo si può definire al pari di un centro di reclutamento, promozione e formazione di giovani talenti.

Le modalità di produzione di un vivaio – sia esso di natura ittica, arboristica o anche sportiva – sono oggi sempre più associate ad una produzione di tipo intensivo.

Quando una formazione sportiva poggia le sue basi su un sistema tecnico capitalistico come questo, il rischio – naturalmente – è che si preferisca un modello unico di atleta, considerandolo più adatto, più forte e quindi più performante, reclutato e formato con standard “funzionali” alla sua crescita sportiva. Doti fisiche. Carattere. Forza d’animo. Attaccamento, onore, sacrificio. Devozione alla causa. Abnegazione.

Il sistema attuale propende per una convenienza realistica – ovvero per lo scopo di massimizzare un’opportunità.

 

In un simile percorso – escogitato per escludere il dubbio, l’oscillazione emotiva, il ripensamento, la fragilità, il desiderio – non si tiene però conto della magia.

“La Magia”, riporta Federico Campagna ne La ricostruzione della realtà, “non solo come alternativa alla Tecnica, ma nello specifico come quel sistema cosmogonico che è in grado di occuparsi terapeuticamente dello stato di annichilimento a cui la Tecnica ha ridotto l’individuo contemporaneo, il suo mondo e la sua rivendicazione di una realtà vivibile.”

La magia è un apparire. È un’emanazione.

Il fantastico, il sacro, il poetico, l’inatteso sfarfallio asincrono dentro a una quotidianità sistemica.

La magia, seguendo anche i pensieri di Edoardo Camurri nel densissimo Introduzione alla realtà, è il palesarsi di un varco che consente una possibilità decisiva: “hackerare se stessi.”

“La realtà”, suggerisce infatti Camurri, “ci sta chiedendo di rimodulare la nostra vibrazione personale sulla frequenza media su cui viene trasmesso il gran programma del mondo. È una richiesta di conformismo, ma è anche soprattutto, l’invito a un sacrificio. Devi essere più realista, ti diranno.”

 

Ovvero, tu, giovane atleta, devi eliminare le scorie, le incertezze potenziali: fatti sedurre – distenditi nel comfort dell’alienazione, è per il tuo bene.

Perché un adolescente che possiede un talento sportivo dovrebbe proseguire l’attività di studio? Perché, anche se ne sentisse il bisogno, dovrebbe coltivare interessi artistici, sociali, politici? Perché togliere tempo – dedizione – al suo imperativo reale di adesione alla sua potenziale carriera?

Nel realismo tardo-moderno le emanazioni sono da estirpare, la magia, così come il pensiero critico, il tempo ludico o l’immaginazione creativa, sono perdita di tempo, un lusso superfluo, dal momento che la fantasia, il lavoro intellettuale, il gioco, vengono accettati unicamente se funzionali, se monetizzabili, se portano rendita, successo, appeal – plus-valore.

Eppure, come si diceva, la magia trapassa, filtra. La magia che è sogno, che è respiro intenso, che è anche malumore incompreso e irrisolto, la magia che è incontro – riaffiora.

Si potrebbe dire, attraversando di nuovo le pagine di Camurri, l’esperienza della magia “non è un esperimento scientifico in cui la prova con i fatti serve per verificare una teoria. È invece il rendersi disponibili a incontrare se stessi. Non è un meccanismo, ma una rinuncia a essere un meccanismo. […] Gli spiriti vengono sempre a trovarci per stabilire con noi un vincolo in una realtà che si dà come scommessa, non in una realtà che si dà come pianificazione e previsione di ciò che riteniamo sia necessario e giusto che la realtà sia.”

 

La magia, quella sua capacità di aprire allo stupore e di uscire dall’abitudine, viene trattata al pari di un’erbaccia – emarginata, un’erba vagabonda e clandestina, uno stelo nel cemento del frangi traffico. Qualcosa che non ci sarebbe dovuto essere. Eppure cresce.

Quando la magia è sia un imprevisto, un’intermittenza, sia un barlume, una traccia, è come un terzo paesaggio.

 

Terzo Paesaggio, secondo il paesaggista e teorico Gilles Clement, è ciò che riesce a vivere malgrado il capitalismo.

“Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente. Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.” Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio

 

Nel 2019 Laura Pugno, scrittrice, docente, artista, all’interno del blog Le parole e le cose proprio a partire da questo Manifesto propone una rubrica che muove attorno ad una domanda: “L’inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio? ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément. Può valere, quest’analogia col Terzo Paesaggio, per le arti, per il teatro, per la filosofia, per altre pratiche?”

Ed ecco qui, per noi, un’intuizione che consente un salto tra discipline. Può questa indagine, questa analogia, aiutarci a porre la medesima questione in ambito sportivo? Cos’è il terzo paesaggio nello sport?

 

Se magia è emanazione selvatica, ovvero quell’arrivo spontaneo e trasformativo che altera un paesaggio reale (tecnico, funzionale, utilitaristico, capitalizzato) rendendolo un “terzo” paesaggio, allora magia è anche quel germoglio vagabondo che dissente, differisce – lotta – che spalanca “lo spazio comune del futuro”. Quello spazio alterato che inceppa l’omologazione dei corpi atletici alienati, delle passive menti celebranti.

A costituire il mondo sportivo sono idee diverse: nuovi raduni, nuovi valori – pluralità di corpi, pluralità d’intenti, moltitudine di sogni e umori. La magia può spodestare il reale uguale.

L’essenza della magia, secondo Ernesto de Martino, “consiste esattamente in questa forma di intervento, che tenta di ripristinare le condizioni nelle quali sia il mondo che l’individuo possono riguadagnare la loro presenza, e possono dunque continuare nella loro comune relazione attiva e immaginativa.”

Può esistere infatti un diverso tipo di assemblaggio in un’età di formazione e di crescita: una somma composta che non intende macchinizzare, ma creare un pattern complesso.

 

Un* giovane atleta ha la necessità di trovare – scoprire – il proprio assemblaggio. Ha bisogno di sviluppare pensiero critico e di costruire la propria presenza, necessita di nutrirsi di intrecci in diverse direzioni.

Cosa può, in una carriera sportiva, essere reputato funzionale e cosa disfunzionale per il raggiungimento di un determinato traguardo – così come in un’intera biografia?

La magia, secondo il realismo imperante, è un ronzio di disturbo che guasta quell’omologazione eretta con dovizia destinata ad un presunto successo.

 

In quanto sportivo professionista mi sono trovato più volte a dover giustificare le mie attività extra sportive (creative, culturali, solidali, politiche) perché recepite come un contro-valore alla prestazione sul campo. Le mie attività fuori dalla palestra – i miei giochi fuori dal mestiere – venivano giudicati come una sorta di rifiuto all’immersione totale dentro ad un ruolo, ad uno status, ad un’adesione.

Ritengo che ci sia bisogno di aprire questo varco: la fatica e il sacrificio non sono le uniche soluzioni che accompagnano a traguardi importanti. Occorre invece favorire il più possibile scambi con altre discipline (più o meno affini al mondo sportivo) e sovvertire questo malinteso: è quanto mai necessario, già a partire dalla giovane età, miscelare i propri contenuti, arricchire le proprie scoperte.

 

La magia dentro una carriera sportiva dovrebbe significare assumersi la libertà di scegliere ciò che si vuole essere, ovvero decidere di intraprendere un percorso di studi, di praticare volontariato, di definirsi una persona queer, di impegnarsi in forme di attivismo. Scoprire di amare la lettura e il pensiero, al pari dell’allenamento, senza sentirsi in colpa, senza doversi giustificare o nascondere. Ampliare le proprie nervature, accogliere la totalità del sé.

Ed allo stesso tempo è scegliere di non assecondare il proprio talento sportivo, quando non è ciò che rende felici. È preferire la squadra del proprio quartiere piuttosto che quella più prestigiosa nel comune accanto. È non tollerare discriminazioni, insulti. È schierarsi.

La magia è sviluppare cura di sé, accogliere ambizioni impensate o auspici imprecisi.

 

Spegnere la magia, estirpare le erbacce – il selvatico che ci è proprio, per preferirgli soltanto l’utile a tutti i costi, potrebbe proprio determinare quell’esaustità che pone fine ad un percorso sportivo, potrebbe essere esattamente ciò che ottunde le possibilità di un talento. Spegnere la magia significa non permetterci di essere ciò che siamo.

Si può parlare di sport adeguato all’età evolutiva quando non diventa usurante per il fisico, quando non favorisce alienazione ed estraneazione, ansia di successo, ovvero quando è vocato a costruire corpi sani e allo stesso tempo menti allenate al pensiero stupito, aperto, trasversale.

 

Anna Lowenhaupt Tsing indica la vitalità curiosa come primo obiettivo per uscire da uno stato di soggiogazione permanente. “L’alienazione evita che gli spazi di vita si intreccino. […] L’alienazione produce rovine, spazi abbandonati dalla produzione di beni. I paesaggi globali di oggi sono cosparsi di rovine simili. Ma questi luoghi possono essere vitali nonostante la loro morte annunciata; campi abbandonati a volte accolgono nuova vita multispecie e multiculturale. In una condizione globale di precarietà non abbiamo altra scelta se non quella di trovare vita tra queste rovine. Il nostro primo passo è di risvegliare la curiosità.” (Il fungo alla fine del mondo, Anna Lowenhaupt Tsing)

Hackerare se stessi non significa dunque disconnettersi dal mondo, assentarsi o abdicare. Ma significa accogliere la propria intimità, orientare l’accadente, assemblarselo addosso come un mosaico, scommettere sulla propria curiosità e sulla propria magica presenza.

 

Lottare per ciò che conta davvero per noi, a un certo punto, travalicherà qualunque talento. Resistere all’alienazione, al monopolio della Tecnica sulla magia, è la sola direzione che possiamo augurarci di percorrere.

Franz Kafka, con la precisione del poeta, sembra descrivere questa trasmutazione come una dissoluzione nella storia e nel tempo, descrivendo un desiderio di creature senza inganni, senza gerarchie, selvatiche, vagabonde, presenti – sembra narrare questa direzione, questa magia.

“Ah, se fossi un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, obliquo nell’aria, scosso da brevi sussulti sul terreno sussultante, fino a gettare gli speroni, perché non c’erano speroni, fino a buttare le briglie, perché non c’erano briglie, fino a intravedere appena la prateria rasata innanzi a me, ormai senza più collo né testa di cavallo.” (Desiderio di diventare un indiano, Franz Kafka)

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