di Angelo Ferracuti
[E’ uscito da qualche giorno per Mondadori Il figlio di Forrest Gump, il nuovo libro di Angelo Ferracuti. Ne proponiamo un estratto].
Rocky Marciano e Toro scatenato
Il giorno che Vito Lauri morì era in febbraio, quando lo venni a sapere mi ricordai dell’ultimo film che aveva voluto fortemente che vedessi. Intanto qualche mese prima, dopo aver letto un mio articolo sugli scrittori scandinavi dove parlavo del mio grande amore per il teatro e la narrativa di Strindberg, aveva mandato suo figlio Vittorio a casa mia con un grande quadro che teneva appeso da anni nel suo studio, il ritratto del grande scrittore nel manifesto di una mostra di suoi disegni che avevo visto giovanissimo a Venezia. Il ragazzo era arrivato con questo quadro enorme che gli nascondeva il corpo. Vito voleva che da lì in poi lo tenessi nel mio studio. Era lui che aveva accompagnato con il cinema i nostri anni giovani.
Il nostro amico poeta Adelelmo Ruggieri aveva un modo tutto suo, direi elegiaco, di partecipare ai dibattiti che seguivano le proiezioni. Dissertava senza mai arrivare al nocciolo, ma soprattutto alla conclusione, che rimandava di continuo, mentre nel suo racconto tutto diventava sempre più vertiginoso e sfilacciato. Non si capiva se fosse una riflessione o più una descrizione lambiccata e surreale, un’invenzione che partiva dal film e cresceva per conto suo perdendosi in un fiume carsico. Quando finiva e tornava a sedere, non c’era chi osasse riprendere la parola al suo posto, era come se si desse degna sepoltura a un discorso di cui nessuno aveva capito niente. Alla fine, mi avvicinavo a lui e gli chiedevo disorientato e un po’ provocatorio: «Sei sicuro che abbiamo visto lo stesso film?».
Se so qualcosa di Herzog, di Fassbinder, di Wim Wenders, se ho potuto vedere quel capolavoro che è Lo stato delle cose, oppure Shining, se conosco i film di Rossellini, quelli di Bergman, lo devo a Vito.
Mi viene in mente un ciclo su Truffaut, quelli che lui chiamava affettuosamente «cicletti», ricordo il momento esatto in cui mi sono alzato commosso dopo la fine dell’Ultimo metrò, e lui che era al fondo della sala, vicino alla tenda rossa, come tante altre volte, la giacca marrone e i jeans, era felice della nostra soddisfazione, e gli bastava, tanto che i suoi tentativi di introdurre la serata si spegnevano presto dentro il terrore di cadere nella retorica. Spariva chissà dove, probabilmente in un posto in cui poteva fumare una delle sue sessanta sigarette. Era forse la spia di una antica timidezza, di un senso di inadeguatezza, mancanza assoluta di narcisismo, che era la sua vera grandezza.
Se faccio mente locale mi vengono in mente altri film, I pugni in tasca, Professione reporter, La notte, Zabriskie Point. Di tanto in tanto riaffiorano le immagini a cui sono più affezionato, e sono lampi, frammenti, frantumi di sogni. In un giorno eravamo capaci di vederne tre di fila.
Vito legava i film ai destini delle persone, il cinema per lui non era solo arte, ma anche storie che avevano a che fare con quelle vissute da ognuno di noi. Ricordo quando mi invitò a vedere Postacelere, un film norvegese con protagonista un postino, Roy Amudsen, che non rubava le lettere per sapere della vita degli altri, come il protagonista di un mio romanzo, ma entrava proprio nelle case delle persone, in questo caso mettendosi fortemente nei guai. La posta, quel portalettere norvegese, non la consegnava per niente: in una delle prime sequenze del film, si vedeva lui che entrava in una galleria della stazione di Oslo e scaricava al buio, in terra, tutto il contenuto della sua bolgetta.
Ci fu una volta in cui Vito mi invitò a presentare la pellicola restaurata di Toro scatenato di Martin Scorsese.
Non avevo nessuna voglia di rivedere quel film, mio padre era morto da poco lasciandomi una forte inquietudine dentro, ma a Vito non potevo dire di no, e adesso a distanza di anni dovrei ringraziarlo anche di questo.
Quando muore qualcuno che è stato importante per noi, ci attraversano i ricordi, i rimorsi, soprattutto gli atti mancati. È come se si mettesse la parola fine a una storia che non possiamo più scrivere, alla quale non possiamo aggiungere o togliere niente, perché è tutto detto, è tutto fatto, e allora si avverte un senso profondo d’impotenza e di perdita.
In quei giorni avevo cominciato a fare i conti con mio padre, forse stava prendendo corpo l’idea di scriverne, forse stavo cercando una forma e una voce, sapevo che quella sto- ria avrebbe vissuto dentro di me come una trama vivente.
Ero l’unico spettatore, il film era tutto per me, quel giorno, una situazione già abbastanza inconsueta. Da una fila in alto guadagnai un posto più in basso, a metà sala: distesi le gambe in avanti, mi guardai intorno, ero davvero da solo, e questa cosa mi emozionava, e allora il film cominciò. C’era Jake La Motta che saltellava sul ring, l’accappatoio di raso addosso, che boxava coi guantoni mulinando colpi nell’aria, in sottofondo la Cavalleria rusticana di Mascagni, poi arrivava la scena di lui vecchio nel 1964 al declino, quando alla fine della carriera, dopo aver perso tutto, si esibiva ubriaco e imbolsito nei locali, il sigaro in bocca, l’aria fintamente strafottente che nascondeva una straziante malinconia.
C’è sempre qualcosa di ridicolo nella decadenza di un uomo, i fallimenti fanno anche ridere, non sono solo dram- matici, hanno questa miscela umana di doloroso e comico.
Come scrisse Willy Pep, il peso piuma italoamericano: «Il declino di un pugile? Prima si perde il movimento di gambe. Poi si perdono i riflessi. Poi si perdono gli amici». Era proprio così, valeva per qualunque categoria umana. Dai perdenti ci si tiene alla larga, ci ricordano le nostre sconfitte, abbiamo terribilmente paura di diventare come loro.
Ecco, una cosa che per anni avevo fatto insieme a mio padre era guardare gli incontri di boxe, avevamo visto insieme fino a notte tarda Nino Benvenuti contro Griffith, quando il pugile triestino divenne campione del mondo dei medi, poi quando aveva perso il titolo con Carlos Monzon stavamo seduti sul divano senza dire una parola. Erano belli quei momenti. Non succedeva niente di particolare, ma stavamo uno vicino all’altro, tutti e due con gli occhi fissi sullo schermo a guardare la stessa identica cosa, cioè due uomini sopra un quadrato che si sfidavano mandando a segno dei colpi uno contro il corpo dell’altro.
Per te Benvenuti era troppo tecnico, ti piaceva di più Mazzinghi, che era un vero combattente del ring, ma il tuo vero idolo era sta- to Rocky Marciano, che si era ritirato imbattuto dopo aver difeso il titolo sei volte. Quarantanove vittorie e nessuna sconfitta, quarantatré per KO, aggressivo e potente, un destro terrificante. Era il tuo idolo perché non aveva perso mai.
Ricordo quando Benvenuti andò al tappeto durante il primo match con Carlos Monzon, dopo averlo braccato e colpito più volte, fu raggiunto da un destro del messicano all’angolo nel corso della dodicesima ripresa, poi crollò implodendo su sé stesso, si rialzò barcollando e finì con l’abbracciare le corde senza riuscire più a combattere.
Il momento della caduta di un uomo è l’aspetto che mi ha sempre appassionato e commosso. Che fosse un fallimento economico, il declino di un pugile, la caduta di un motociclista, una lettera di licenziamento, la sconfitta al tavolo verde, lì era il nodo che mi stringeva la gola.
Quei ricordi mi attraversarono la mente quel pomeriggio mentre al buio stavo guardando il film, e osservavo anche la sala intorno, ancora incredulo di essere l’unico spettatore. Il film non c’entrava niente con mio padre, era la storia di un uomo visceralmente violento che fuori dal ring era incapace di vivere e alla fine perdeva tutto, restando senza affetti e solo come nessuno. Quello era il mio eroe, diverso dall’idolo di mio padre, che non perdeva mai: il dio di mio padre non cadeva mai al tappeto, vinceva sempre, scattava sulla pista e superava tutti come un fulmine, alla Pietro Mennea, saltava con l’asta più in alto di tutti e sulla vasca doppiava gli avversari vincendo sette medaglie d’oro olimpiche come Mark Spitz. Alla fine del film, quando Jack La Motta è dentro il carcere in una cella buia e si dispera tirando cazzottate e testate contro il muro, ho cominciato a piangere come mai avevo pianto negli ultimi anni.
Ho pianto per noi, babbo, credimi, per noi due, ho pianto le lacrime che non avevo versato al tuo funerale, scendevano sulle guance, scendevano a mia insaputa come se piovessero dal cielo. Fuori dalla sala, finito di piangere, ho cominciato a ridere e ancora a ridere come un folle, quasi per liberarmi dall’ansia che avevo accumulato. Ridevo ma era come se continuassi a piangere.