[Domani a Oviedo uno dei più importanti premi letterari spagnoli, il Principessa delle Asturie, verrà consegnato a Ana Blandiana, la più famosa tra i poeti rumeni, molto nota e amata nel suo paese e all’estero per i suoi testi e per avere dato vita con il marito Romulus Rusan al memoriale delle vittime della dittatura comunista in quello che era stato il famigerato penitenziario di Sighet. Per l’occasione proponiamo una conversazione che ha avuto luogo lo scorso luglio nell’ambito del progetto Variazioni su un tema dato, vincitore di un bando dell’Istituto culturale rumeno. Il titolo del progetto riprende quello dell’ultima raccolta di Blandiana, tradotta da Bruno Mazzoni e pubblicata l’anno scorso da Donzelli; per la stessa casa editrice nel 2004 era uscita la precedente, Un tempo gli alberi avevano occhi, a cura di Biancamaria Frabotta e di Mazzoni che l’anno scorso, in una nota dedicata a un bel testo tra memoir e saggio della poetessa, Falso trattato di manipolazione (a cura di Mauro Barindi, Elliot 2023), metteva in luce alcuni tratti distintivi della sua opera in versi e in prosa: la “modalità precipuamente interrogativa della scrittura”, il costante “bisogno di autenticità, di indipendenza etica”, lo “spietato esercizio di lucidità” – tratti che si ritrovano anche in questa intervista.]
di Ana Blandiana e Maria Teresa Carbone
Vorrei partire da una sua frase, riportata in un’intervista alla New England Review: “La poesia è un’arma, ma non è un buon strumento di pulizia”. Cosa intendeva dire?
Beh, sì, è una frase paradossale, ma credo sia vera: con la poesia possiamo combattere, ma non possiamo servircene per fare pulizia. In effetti, credo di avere scritto la prima volta questa frase una quarantina di anni fa, al tempo della dittatura comunista, e quello che volevo dire è che attraverso la poesia posso oppormi, ma non ho il modo di cambiare le cose. Vede, l’aspetto davvero straordinario della poesia è che la poesia usa la metafora come mezzo di espressione. E la metafora può essere trasformata in un’arma, perché è un paragone che manca di un termine. Questo termine non deve essere detto, è il lettore che lo inserisce, e questo significa che la poesia può passare dall’autore agli ascoltatori o ai lettori sotto il naso della censura.
Quindi, lei pensa che le poesie cambieranno il mondo, per ribaltare il titolo della raccolta d’esordio di Patrizia Cavalli?
No, non so se possono cambiarlo, ma lo possono salvare, questo mi pare chiaro. Anni fa ho ricevuto una laurea honoris causa dall’università di Sofia in Bulgaria, e il titolo del mio discorso era proprio questo: La poesia può salvare il mondo? E io ho detto che sì, può farlo, e ho citato delle situazioni in cui le persone hanno fatto ricorso alla poesia come mezzo di resistenza. Il primo esempio ci porta nelle carceri rumene degli anni Cinquanta e Sessanta, dove è avvenuto qualcosa che non ho trovato altrove: a scrivere poesie non erano solo i poeti che erano stati rinchiusi, ma tante persone che fino ad allora non avevano mai composto versi. La poesia era prima di tutto un modo per opporsi alla follia, e un indispensabile mezzo di espressione. A Sighet c’è una stanza dove tutte le pareti e il soffitto sono ricoperti di poesie scritte dai detenuti. E attenzione, non si tratta di poesie politiche, perché in condizioni come quelle in cui si trovavano i carcerati, sospesi tra la vita e la morte, la poesia era l’unico modo per elevarsi al di sopra della tremenda situazione in cui si trovavano. E la cosa straordinaria è che in prigione mancavano le matite, mancava la carta, e quindi per ogni poesia era necessario che qualcuno la componesse, qualcuno la memorizzasse, qualcuno la trasmettesse con il codice Morse. Centinaia di poesie sono passate in questo modo da una cella all’altra, e pure da una prigione all’altra. Tanti vecchi detenuti ricordano che quando un gruppo veniva spostato da un carcere all’altro, la prima domanda era: “Avete nuove poesie?”. A me sembra una cosa davvero emozionante. E anche dopo, alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta la poesia è stata straordinariamente importante in Romania, le raccolte avevano tirature incredibili. Ricordo che nel 1968 fui invitata in Francia da Pierre Emmanuel, che era un poeta e anche un uomo politico piuttosto famoso. Allora io ero giovane, avevo pubblicato solo due libri di poesie e durante l’incontro pubblico Pierre Emmanuel mi chiese quante copie erano state tirate, e io timidamente risposi: “Tremila”. E lui ripeté: “Tremila?”, come fosse incredulo. E io pensai che intendesse che erano poche, e solo dopo un po’ capii che al contrario, gli sembravano moltissime. Il fatto è che a quel tempo, soprattutto in Polonia, in Romania e in Unione Sovietica, i poeti erano famosi come i cantanti rock. E poi, anche oggi vediamo che il numero di festival di poesia continua a crescere. Per esempio, in Slovenia, che è un paese molto piccolo, con una popolazione di poco più di due milioni di abitanti, il festival di poesia di Vilenica è l’evento più importante dell’anno e gli spettatori e i lettori arrivano da tutto il paese, e anche dalla Germania, dalla Svizzera e dall’Italia, e dal Portogallo e dalla Spagna. Io penso che la ragione sia nel senso di minaccia che tante persone provano in questa società in cui bisogna lavorare sempre di più, guadagnare sempre di più, mangiare sempre di più e al tempo stesso perdere peso… André Malraux diceva che il ventunesimo secolo sarebbe stato in qualche modo religioso. Non so cosa intendesse, non credo avesse in mente l’Islam, ma anche la poesia è una forma di spiritualità.
A proposito del festival di Vilenica, vorrei sapere come spiega che questi incontri abbiano un pubblico numeroso, che le sale siano strapiene, se poi sembra che siano in pochi a leggere poesia, perlomeno in Italia? Non crede che la poesia abbia un seguito minore e in fondo sia più difficile da scrivere, perché rispetto a trenta o quarant’anni fa il contesto è cambiato?
Vede, rispondendo a questa seconda domanda, a me pare che oggi la libertà sia pigra: per molte persone non significa nulla, la danno per scontata, come l’aria che respirano, ma io credo che la poesia possa risvegliare delle reazioni, dei dubbi, che faccia capire quanto la libertà è importante nel momento in cui non ce l’hai. Ricordo una frase di Lech Wałęsa parecchi anni dopo le prime vittorie di Solidarnosc, quando ormai il Muro di Berlino era caduto da tempo e lui non era neanche più presidente. Ci fu una celebrazione e lui tenne un discorso che mi colpì molto perché fino a quel momento non avevo colto in pieno la sua grandezza. Parlando in modo semplice ma adeguato a quel momento solenne, disse: “Se mi chiedo che differenza c’è tra l’operaio che ero un quarto di secolo fa, e quello che sono oggi, l’ex presidente di questo paese, mi dico che allora, per me, la libertà era tutto, il sogno più grande, per cui ero pronto a dare la vita, mentre oggi tutto ciò che posso dire è che il male, più del bene, trae profitto dalla libertà”. È stata una conclusione straordinaria e terribile, ed è quello che davvero succede. Ma anche per questo, pensando ai festival, tutte le volte che partecipo, vedo davanti a me un’attenzione speciale, il desiderio di trovare qualcosa di diverso dalla vita che ti viene proposta ogni giorno. Per questo sono convinta, oggi più che mai, dell’importanza della poesia, e penso che con l’avvento dell’intelligenza artificiale questo sarà ancora più evidente.
Ho letto che qualche mese fa lei ha pubblicato un libro, Mai-Mult-Ca-Trecutul. Jurnal, 31 August 1988-12 Decembrie 1989, non ancora tradotto in italiano, che ha avuto un grande successo in Romania. Me ne vuole parlare?
Sì, il titolo indica, nella coniugazione verbale romena, il piuccheperfetto, ma qui lo si può intendere anche alla lettera come il piucchepassato, una specie di tempo distorto, e si tratta di un vecchio diario che ho ritrovato per caso dopo più di trent’anni: quattro quaderni di cento pagine ciascuno che ho scritto a partire dal 31 agosto 1988, fino al 12 dicembre del 1989. Quattro giorni dopo, a Timișoara, sarebbe scoppiata la rivolta che avrebbe portato alla fine del regime di Ceaușescu. Quel 31 agosto, quando ho cominciato il diario, avevo appena saputo che ancora una volta la mia poesia era stata bandita, che non avrei più potuto pubblicare, e questo libro è il resoconto di quell’anno terribile. Inizialmente sono stata incerta se portarlo allo scoperto, perché molte persone di cui parlo sono ancora vive, ma alla fine mi sono decisa, perché è il ritratto di un’epoca che i più giovani non hanno conosciuto, ma che è subito dietro di noi – un’epoca che qualcuno descrive come migliore di quella in cui ci troviamo, meno complicata, ma che, quando ho riletto il testo la prima volta, mi è parsa ancora più atroce di quanto la ricordassi. E di cui anche oggi, in contesti diversi, ritrovo paradossalmente delle tracce, e non solo nei paesi dove te le aspetteresti – la Cina, la Corea del Nord, il Vietnam – ma anche negli Stati Uniti quando, per esempio, ti imbatti nei tentativi di cambiare la storia, di correggere autori come Dante o Shakespeare, in nome della giustissima difesa delle minoranze. Ma se prima ho detto che continuo a essere convinta che la poesia mantiene un ruolo cruciale, è anche per l’accoglienza che questo libro ha avuto, per l’entusiasmo con cui è stato accolto soprattutto dalle ultime generazioni.