[Esce il 25 ottobre per Marietti1820 la nuova edizione dei racconti di Tillie Olsen, Fammi un indovinello. Presentiamo come anteprima il primo racconto del libro]

 

 

Sono qui che stiro, e quello che mi ha chiesto si muove tormentato avanti e indietro insieme al ferro.

«Sarebbe opportuno che trovasse il tempo di venire da me per parlare di sua figlia. Di certo può aiutarmi a capirla. È una ragazza che ha bisogno di aiuto e che è mio sincero interesse aiutare».

«Che ha bisogno di aiuto»… Se anche venissi, a cosa servirebbe? Pensa che solo perché sono sua madre io abbia una chiave, o che in qualche modo potrebbe usarmi come chiave? Vive da diciannove anni. C’è tutta una vita che si è svolta fuori di me, oltre me.

E quando mai c’è tempo per ricordare, vagliare, soppesare, valutare, tirare le somme? Se inizio, qualcosa di sicuro mi interrompe e devo rimettere tutto quanto insieme un’altra volta. Oppure vengo travolta da tutto quello che ho o non ho fatto, da ciò che doveva essere e ciò che non si può evitare.

Era una bambina bellissima. La prima e unica dei nostri cinque figli a essere nata bella. Non immagina neanche quanto sia nuovo e scomodo per lei abitare la graziosità di adesso. Non l’ha conosciuta in tutti quegli anni in cui era considerata bruttina, non l’ha vista studiare le fotografie di quando era piccola, costringendomi a ripeterle di continuo quanto fosse bella – e quanto lo sarebbe stata, le dicevo – e lo era anche adesso, a un occhio attento. Ma gli occhi attenti erano pochi o inesistenti. Compresi i miei.

L’ho allattata. Oggi la considerano una cosa importante. Ho allattato tutti i figli, ma con lei, con lo spietato rigore della prima maternità, facevo come dicevano allora i libri. Anche se i suoi pianti mi scuotevano fino a farmi tremare e i seni mi dolevano tanto erano gonfi, aspettavo finché l’orologio non decretava che era ora. Perché comincio da questo? Non so neanche se importi, o se spieghi qualcosa. Era una bambina bellissima. Soffiava scintillanti bolle di suono. Amava il movimento, amava la luce, amava i colori e la musica e la diversa consistenza delle cose. Se ne stava distesa con la sua tutina azzurra a battere in estasi mani e piedi sul pavimento finché quasi non si distinguevano più. Per me lei era un miracolo, ma a otto mesi fui costretta a lasciarla durante il giorno con la signora del piano di sotto, per la quale non era affatto un miracolo, perché io lavoravo, cercavo lavoro o cercavo il padre di Emily, che «non sopportava più» (così scrisse nel biglietto di addio) «di condividere con noi la miseria». Avevo diciannove anni. Era il mondo pre-sussidi e pre-assistenzialismo della Depressione. Scendevo di corsa dal tram, di corsa salivo le scale, l’odore di rancido in casa, e lei già sveglia o svegliandosi di soprassalto, quando mi vedeva scoppiava in un pianto ingolfato che non si riusciva a consolare, un pianto che sento ancora. Dopo un po’ trovai lavoro di notte in una tavola calda per poter stare con lei durante il giorno, e le cose andarono meglio. Ma arrivai a un punto che dovetti portarla dalla famiglia del padre e lasciarla. Ci volle molto tempo per racimolare i soldi del biglietto di ritorno. Poi prese la varicella e dovetti aspettare ancora. Quando alla fine arrivò, quasi non la riconoscevo, con quel modo svelto e nervoso di camminare come suo padre, e con l’aspetto di suo padre, magra, e vestita di un rosso insulso che le ingialliva la pelle e metteva in risalto i butteri. Tutta la bellezza di quand’era neonata scomparsa. Aveva due anni. Abbastanza grande per l’asilo, dissero, e allora non sapevo quello che so adesso – la fatica delle lunghe giornate, e le lacerazioni della vita di gruppo in quel genere di nidi che sono solo parcheggi per bambini. Peccato però che non avrebbe fatto nessuna differenza se anche l’avessi saputo. Era l’unico posto che c’era. Era l’unico modo per poter stare insieme, l’unico modo per mantenere un lavoro.

E pur senza saperlo, sapevo. Sapevo della maestra che era cattiva, perché per tutti questi anni mi è rimasta coagulata nella memoria l’immagine del bambino rannicchiato in un angolo e della maestra, stridula, «perché non sei fuori, perché Alvin ti dà le botte? Non è un buon motivo, esci, fifone». Sapevo che Emily non lo sopportava, anche se non si aggrappava e non implorava «non entriamo mamma» come facevano gli altri bambini, la mattina. Trovava sempre un motivo per cui era meglio restare a casa. Mamma, mi sembra che stai male. Mamma, sento che sto male. Mamma, le maestre non ci sono oggi, stanno male. Mamma, non possiamo andare, c’è stato un incendio ieri sera. Mamma, oggi è vacanza, mi hanno detto che non c’è scuola. Ma mai una protesta diretta, mai una ribellione. Penso ai tre, quattro anni dei nostri altri figli – le esplosioni, i capricci, le recriminazioni, le richieste – e d’un tratto mi sento male. Metto giù il ferro da stiro. Che cosa era in me che pretendeva in lei quella mitezza? E qual è stato il prezzo, il prezzo che ha dovuto pagare? Il vecchio che viveva sul retro una volta mi disse con i suoi modi garbati: «Dovrebbe sorridere di più a Emily quando la guarda». Cosa c’era sulla mia faccia quando la guardavo? L’amavo. C’erano tutti i gesti dell’amore. Fu solo con gli altri che mi ricordai le parole di quell’uomo, e fu la faccia della gioia che rivolsi a loro, non quella della preoccupazione o della rigidità o dell’ansia – troppo tardi per Emily. Non sorride facilmente, di certo non così spesso come fanno i suoi fratelli e sorelle. Ha un viso chiuso e scuro, ma come si apre, quando vuole. Di certo l’avrà visto quando fa le sue imitazioni, ha parlato di un talento innato per la comicità sul palco, che strappa al pubblico una risata così sincera che la gente applaude e applaude e non vuole lasciarla andare. Da dove arriva quella comicità? Non ne aveva neanche un po’ la seconda volta che tornò da me, dopo che avevo dovuto mandarla via di nuovo. Ora aveva un nuovo papà da imparare ad amare, e credo che forse fu un periodo migliore. Tranne quando la lasciavamo a casa sola la sera, dicendoci che era grande abbastanza. «Non ci puoi andare un’altra volta, mamma, domani per esempio?» chiedeva. «Starai via poco poco? Me lo prometti?». Quella volta che tornammo, la porta di casa aperta, l’orologio sul pavimento dell’ingresso. Lei inesorabilmente sveglia. «Non è stato poco poco. Non ho pianto. Ti ho chiamato tre volte, solo tre volte, e poi sono corsa giù per aprire la porta così venivi prima. L’orologio parlava forte. L’ho buttato via, mi faceva paura quello che diceva». Disse di nuovo che l’orologio parlava forte la notte che andai in ospedale per partorire Susan. Delirava per la febbre che precede il morbillo, ma fu sempre cosciente per tutta la settimana in cui rimasi via e quella successiva, quando tornammo a casa e lei non poteva avvicinarsi né alla neonata né a me. Non si riprendeva. Restava magra come uno scheletro, rifiutandosi di mangiare, e ogni notte aveva gli incubi. Mi chiamava, e io rinvenivo dal mio sfinimento per risponderle insonnolita: «Va tutto bene, tesoro, dormi, è solo un sogno», e se continuava a chiamare, con voce più severa, «adesso dormi, Emily, non c’è niente che può farti male». Due volte, solo due volte, quando mi sarei dovuta alzare comunque per Susan, andai da lei e le rimasi vicino. Ora che è troppo tardi (come se mi permettesse di stringerla e consolarla come faccio con gli altri) mi alzo e vado da lei appena si lamenta o la sento rigirarsi nel letto. «Sei sveglia, Emily? Vuoi che ti porti qualcosa?». E la risposta è sempre la stessa: «No, sto bene, torna a dormire, mamma». All’ambulatorio mi convinsero a mandarla in un convalescenziario in campagna dove poteva ricevere «quel cibo e quelle attenzioni che lei non riesce a darle, e così sarà libera di concentrarsi sulla neonata». Ce li mandano ancora, i bambini. Nella pagina della cronaca mondana vedo fotografie di giovani donne eleganti organizzare eventi per raccogliere fondi, o ballare a questi eventi, o decorare uova di Pasqua o riempire calze di Natale per i bambini. Non c’è mai una fotografia dei bambini e quindi non so se le femmine portino ancora quei giganteschi fiocchi rossi e abbiano ancora l’espressione devastata delle domeniche alterne quando i genitori possono far loro visita «salvo diversamente comunicato» – come fu comunicato a noi nelle prime sei settimane. Oh, è un bel posto, prati verdi e alberi alti e aiuole recintate. In alto sui balconi di ogni casetta ci sono i bambini, le femmine con i loro fiocchi rossi e vestitini bianchi, i maschi in completi bianchi e gigantesche cravatte rosse. Di sotto i genitori strillano all’insù per farsi sentire e i bambini strillano all’ingiù per farsi sentire, separati dal muro invisibile del «Vietato contaminare con germi di genitori o dimostrazioni d’affetto». C’era una bambina minuta che stava sempre mano nella mano con Emily. I suoi genitori non venivano mai. Poi a una visita non c’era più. «L’hanno trasferita al Rose Cottage» gridò Emily per dare una spiegazione. «A loro qui non piace che vuoi bene a qualcuno». Scriveva una volta a settimana, con la grafia faticosa di una bambina di sette anni. «Io sto bene. Come sta la piccolina. Se schrivo bene la letera mi danno una stellina. Baci.» Non ci fu mai nessuna stellina. Le scrivevamo un giorno sì e uno no, lettere che non poteva stringere in mano né conservare ma soltanto sentir leggere, un’unica volta. «È che proprio non abbiamo spazio per far tenere ai bambini i loro oggetti personali» spiegarono pazienti quando mettemmo insieme gli strilli di una domenica per convincerli di quanto fosse importante per Emily, che amava conservare le cose, poter tenere le lettere e le cartoline. A ogni visita sembrava più fragile. «Non mangia» ci dissero. (C’erano uova semicrude per colazione oppure una poltiglia piena di grumi, disse Emily in seguito, tenevo tutto in bocca senza ingoiare. Niente che avesse mai un buon sapore, tranne quando c’era il pollo). Impiegammo otto mesi per farla dimettere e rimandare a casa, e fu solo il fatto di aver riacquistato così poco dei tre chili che aveva perso a convincere l’assistente sociale. Cercavo di stringerla e di coccolarla dopo il suo ritorno, ma il suo corpo restava rigido, e dopo un po’ si scansava. Mangiava poco. Il cibo la nauseava, come credo anche gran parte della vita. Oh, la leggerezza e la vivacità del fisico, quando filava via luccicante sui pattini, rimbalzava come una palla su e giù su e giù mentre saltava la corda, sfrecciava sulla collina; ma erano momenti passeggeri. Si angosciava per il suo aspetto, magro e scuro e strano in un’epoca in cui ogni ragazzina doveva assomigliare o credeva di dover assomigliare a una copia bionda e paffuta di Shirley Temple. Qualche volta suonavano per lei alla porta, ma poi alla fine nessuno entrava a giocare o diventava la sua amica del cuore. Forse perché cambiavamo casa in continuazione. Ci fu un ragazzo che amò disperatamente per due semestri di scuola. Mesi dopo mi disse che aveva preso regolarmente degli spiccioli dal mio borsellino per comprargli delle caramelle. «Le sue preferite erano le liquirizie e gliene portavo un po’ ogni giorno, ma Jennifer continuava a piacergli più di me. Perché mamma?». Il genere di domanda a cui non c’è risposta. La scuola era per lei una preoccupazione. Non era spigliata o rapida in un mondo in cui spigliatezza e rapidità venivano facilmente confuse con la capacità di apprendere. Per i suoi insegnanti stressati e sovraccarichi di lavoro era un’alunna «lenta» ed esageratamente scrupolosa che cercava sempre di recuperare e faceva davvero troppe assenze. Io gliele lasciavo fare, anche se a volte la malattia era immaginaria. Che differenza con la mia severità di adesso riguardo alla frequenza scolastica degli altri. Non lavoravo. Avevamo un altro neonato, stavo comunque a casa. A volte, quando Susan era già cresciuta, facevo stare a casa da scuola anche lei, per tenerli tutti insieme. Perlopiù Emily soffriva d’asma, e il suo respiro, ruvido e affaticato, riempiva la casa di un suono curiosamente quieto. Le portavo a letto i due vecchi specchietti da toeletta e le scatole delle collezioni. Selezionava perline e orecchini spaiati, tappi e conchiglie, fiori secchi e ciottoli, vecchie cartoline e ritagli, chincaglierie di ogni genere; poi insieme a Susan giocavano a re e regine, e allestivano ambienti e arredi che poi animavano di personaggi e scenette. Quelle erano le uniche occasioni in cui lei e Susan si tenevano serenamente compagnia. Un po’ alla volta ho preso le distanze dal sentimento velenoso che correva tra loro, da quel terribile esercizio di equilibrio tra torti e concessioni che ero costretta a fare tra loro due, e che mi riuscì così male, in quei primi anni. Oh, anche tra gli altri ci sono conflitti, ognuno di loro un essere umano che chiede, pretende, ferisce, sottrae – ma quel risentimento corrosivo era solo tra Emily e Susan, anzi no, di Emily nei confronti di Susan. Sembra così ovvio visto da fuori, eppure ovvio non è. Susan, la secondogenita, Susan, con i suoi riccioli biondi, paffuta, svelta e spigliata e sicura di sé, tutto il contrario di Emily nell’aspetto e nei modi; Susan che, incapace di resistere davanti alle cose preziose di Emily, le perdeva o a volte senza farlo apposta le rompeva; Susan che raccontava barzellette e indovinelli agli amici per farsi applaudire mentre Emily se ne stava seduta in silenzio (per poi dirmi: quello era il mio indovinello, mamma, gliel’ho raccontato io a Susan); Susan che, nonostante i cinque anni di differenza d’età, nello sviluppo era indietro solo di un anno rispetto a Emily. Sono grata di quel lento sviluppo fisico che allargò il divario tra lei e i suoi coetanei, sebbene lei ci soffrisse. Era troppo vulnerabile per quel terribile mondo di competizione giovanile, fatto di parate e pavoneggiamenti, di un continuo misurarsi rispetto a chiunque, di invidia, «Se avessi quei capelli ramati», «Se avessi quella pelle… ». Bastava già quel suo tormentarsi per non essere esteriormente come gli altri; bastava già l’insicurezza, il dover soppesare ogni parola prima di parlare, il continuo preoccuparsi – cosa pensano di me? – senza che dovessero intervenire anche le spietate pulsioni fisiche a ingigantire tutto. Ronnie sta chiamando. È bagnato e lo cambio. È raro che ci sia uno di questi pianti adesso. Quel periodo della maternità l’ho quasi lasciato alle spalle, quando l’orecchio non ti appartiene ma deve invece essere sempre teso e pronto a cogliere il pianto o il richiamo del bambino. Ci sediamo per un po’ e lo tengo in braccio, guardando fuori verso la città, una distesa grigio carbone con i suoi tenui corridoi di luce. «Cucciacuccia», mormora e si raggomitola ancora più stretto. Lo riporto a letto, addormentato. Cucciacuccia. Una parola divertente, di famiglia, ricevuta in eredità da Emily, una sua invenzione per dire: stare bene. In questo e in altri modi lascia il segno, dico a voce alta. E nel dirlo ho un sussulto. Cosa intendo? Cosa ho cominciato a rimettere insieme, a cercare di rendere coerente? Ero negli anni terribili della crescita. Anni di guerra. Non me li ricordo bene. Lavoravo, ora i piccoli erano quattro, non c’era tempo per lei. Doveva aiutarmi a fare la madre, la donna di casa, a fare la spesa. Il segno doveva lasciarlo per forza. Mattine di crisi al confine con l’isteria nel tentativo di preparare cestini per il pranzo, pettinare capelli, trovare scarpe e cappotti, far arrivare tutti a scuola o al nido in orario, preparare il neonato per essere portato fuori. E c’era sempre il foglio scarabocchiato da uno più piccolo, il libro che Susan aveva sfogliato e poi lasciato in giro, i compiti non fatti. Di corsa a quella scuola enorme dove era una tra tanti, era persa, era una goccia, dove soffriva per l’impreparazione, balbuziente e insicura durante le lezioni. Restava così poco tempo la sera dopo che i bambini erano stati messi a letto. Si sforzava sopra i libri, mangiando in continuazione (fu in quegli anni che sviluppò il colossale appetito che è diventato leggendario in famiglia) e io stiravo, o cucinavo per il giorno dopo, o scrivevo una lettera a Bill da inviare con la posta militare, o accudivo il neonato. A volte, per farmi ridere, o per la disperazione, imitava situazioni e personaggi di scuola. Credo di aver detto una volta: «Perché non fai qualcosa di simile al saggio della scuola?». Una mattina mi telefonò al lavoro, a malapena comprensibile tanto piangeva: «Mamma, ce l’ho fatta. Ho vinto, ho vinto: mi hanno dato il primo premio, mi hanno battuto le mani, mi hanno battuto le mani e non mi lasciavano andare». Ora d’un tratto era Qualcuno, imprigionata nella sua diversità tanto quanto lo era stata nel suo anonimato. Iniziarono a chiederle di esibirsi in altre scuole, persino all’università, poi a eventi in città e in giro per lo stato. Al primo a cui andammo, la riconobbi solo all’inizio, quando esile e timida per poco non si soffocava col sipario. Poi: Quella era Emily? Il controllo, la padronanza, le battute concitate e micidiali, la magia, e poi il boato del pubblico che batteva i piedi, che non voleva lasciar uscire dalla propria vita quella risata unica e preziosa. In seguito: Con un talento così dovrebbe fare qualcosa per sua figlia – ma senza soldi e senza sapere come, cosa si fa? Abbiamo affidato tutto a lei, e quel talento si è tanto ritirato, rappreso e raggrumato, quanto è stato usato e coltivato. Sta arrivando. Sale le scale due gradini alla volta con quel suo passo leggero e aggraziato, e so che stasera è felice. Qualunque sia il motivo della sua telefonata, non è una cosa che è successa oggi. «Finirai mai di stirare, mamma? Whistler ha ritratto sua madre su una sedia a dondolo. La mia dovrei dipingerla in piedi davanti all’asse da stiro». Questa è una di quelle sere che ha voglia di parlare e mi dice tutto e niente mentre apre il frigorifero e mette qualcosa da mangiare sul piatto. È così carina. Perché poi voleva che venissi a parlare con lei? Cos’è che la preoccupava? Troverà la sua strada. Inizia a salire di sopra per andare a letto. «Domattina non svegliarmi insieme a tutti gli altri». «Ma credevo che avessi gli esami di metà trimestre». «Oh, quelli…» torna indietro, mi bacia, e dice spensierata, «… tra un paio d’anni quando l’atomica ci avrà stecchito tutti non serviranno a un bel niente». L’ha già detto altre volte. Ne è convinta. Ma siccome ho scavato nel passato, e tutto ciò che costituisce un essere umano mi pesa dentro con il suo significato, stasera lo sopporto. Non potrò mai tirare le somme. Non verrò mai da lei a dire: È stata una bambina che ha ricevuto pochi sorrisi. Suo padre mi ha lasciato prima che compisse un anno. Ho dovuto lavorare lontano da lei nei suoi primi sei anni quando c’era lavoro, oppure l’ho mandata a casa dai parenti di lui. Ci sono stati anni in cui riceveva cure che odiava. Era scura e magra e strana d’aspetto in un mondo dove il prestigio stava nella biondezza e nei capelli ricci e nelle fossette, era lenta in un mondo dove veniva premiata la spigliatezza. Era figlia di un amore ansioso, non orgoglioso. Eravamo poveri e non abbiamo potuto darle un terreno su cui fosse facile crescere. Ero una madre giovane. Ero una madre assente. C’erano altri figli che pressavano, pretendevano. La sorella più piccola sembrava avere tutto quello che a lei mancava. Ci sono stati anni in cui non voleva che la toccassi. Si è tenuta troppe cose dentro, è stata la vita a farle tenere troppe cose dentro. La saggezza mi è arrivata troppo tardi. Ha tanto da offrire e probabilmente ne caverà fuori poco. È figlia del suo tempo, della Depressione, della guerra, della paura. Lasciamola fare. E così tutto quello che ha dentro non fiorirà – ma a quanti riesce? Ha comunque abbastanza per viverne. La aiuti solo a capire – ad avere motivo di capire – che è più di questo vestito sull’asse da stiro, indifeso davanti al ferro.

1 thought on “Sono qui che stiro

  1. Molto bello, sono un padre e percepisco tutta la complessità dell’ essere genitori ma anche dell’ essere figli come tutti lo siamo stati. Mi piace molto anche lo stile asciutto ma vibrante.

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