[Oggi esce in libreria Storie di un secolo ulteriore di Andrea Inglese per la collana “Sconfini” diretta da Giorgio Mascitelli per DeriveApprodi. Ne pubblichiamo in anteprima due racconti]

 


di Andrea Inglese

 

 

Storia del teatro di vita

 

Gino dice che, dentro di sé, l’ha sempre saputo, dentro nel chiuso della sua coscienza, in forma embrionale, offuscata, l’ha sempre custodita, questa idea semplice e forte, bisogna fare tutto attraverso il teatro, il teatro di vita, ovviamente, quello crudo e autentico, l’unico che ha la potenza di sovvertire da capo a piedi il regime mortifero del mondo, perché lui, prima, faceva semplicemente il giornalista sportivo, ma di quelli poco sportivi loro stessi, uno specialista di tennis, sempre puntuale ai tornei internazionali, sempre pagato da due testate nazionali, e qualche apparizione televisiva, comunque uno sport visto soprattutto dalle seggioline delle gradinate, e una famiglia con due figli maschi, certamente più sportivi di lui, ma senza il talento per la scrittura, e comunque giunti entrambi indenni alla maturità, uno già in economia e commercio, e l’altro ancora incerto sul da farsi, e la moglie, una persona pragmatica e spiritosa, che è giornalista anche lei, di moda però, comunque basta, tutto questo è obsoleto, la mia vecchia vita è guscio vuoto, ombra, nuvola passeggera – dice lui – ora c’è il teatro di vita. A quarantacinque anni, Gino si mette nudo con un telo bianco tirato sulle spalle. E porta avanti e indietro secchi di sangue di porco. Si fa arrestare, insultare, sputare addosso dai passanti. Entra in chiesa vestito da Giovanna d’Arco con la corazza cigolante, avanzando a scatti come un robot con i circuiti sabotati, e lancia il lunghissimo urlo di soddisfazione, l’urlo di sfogo e di compiacimento, che certo spaventa i pochi frequentatori del luogo sacro. Lo psichiatra si accanisce, ma lui lo attira a sé nella logica del teatro di vita, lo rende parte del tutto recitante, del grande inscenamento carnale. Moglie e figli hanno tagliato i ponti, i genitori lo compatiscono, ma lui ha un bel seguito: gli sbandati senza lavoro, che lo vedono come una guida emozionale, un duce degli stati profondi, inabissati, della psiche. Se lui ride, appeso con la testa all’in giù, loro stessi ridono fino alle lacrime, se lui piange, dopo essere stato menato a sangue da qualche gruppo di raddrizzamento dei valori, loro stessi si prendono a pugni, per seguirne la scia e la postura malinconica. Finalmente ha ricevuto oggi un gran premio. C’è stato, dopo un periodo d’incomprensione e osteggiamento culturale, dopo la diffidenza e lo spavento, dopo gli automatismi difensivi e le abitudini moralistiche, c’è stato, sì, inaspettato ma vero, un notevole balzo avanti. I più chiaroveggenti dei critici, i più progressisti tra gli assessori, i più temerari tra gli operatori culturali, hanno digerito il suo messaggio. Non si sa bene come e perché, ma hanno trovato delle parole per presentare il suo lavoro, per gradire il suo talento, per valorizzare i suoi sforzi. E hanno organizzato una premiazione con una nuova giuria e una inedita forma di partecipazione popolare. Pure la cerimonia è nuovissima e audace. Sul palco ci saranno esponenti di ogni categoria sociale, anche di quelle più dubbie e inaffidabili. Tutti saranno schierati alle spalle del vincitore, che senza sorpresa è lui: Gino, l’autore scombussolante, che ha impresso una svolta improvvisa allo stanco teatro occidentale. Gli organizzatori vogliono che parli dei problemi del presente, della società malata, del teatro come terapia di gruppo, come presa di coscienza attraverso lo schiaffo, e lui per i primi due minuti tiene ancora i piedi calzati nelle scarpe, le gambe nei pantaloni, la camicia addosso, con persino una giacca sbottonata ma di taglio e stiratura impeccabile. Ma poi non ce la fa, perché dentro di lui c’è la spinta al teatro autentico di vita: si strappa tutto di dosso e, prima che arrivino i nerboruti della sicurezza, striscia come un alligatore sul palco emettendo l’urlo soddisfacente. I suoi adoratori spalmano escrementi sulle pareti e le poltroncine della sala. “Non si può premiare il teatro di vita, perché anche se mi rinchiudono, anche se mi legano a una brandina, anche se mi spingono giù da una finestra, il teatro di vita li circonda e ingloba, li trascina con sé verso il futuro. Non c’è cambio di copione, errore di dizione, oblio di battute, sgangheramento di espressione corporale, che possa mettere in crisi l’inscenamento incontrollato dei vivi. Io sarò pure morto, ma il capolavoro da me iniziato, anzi, che ho solo modestamente contribuito a iniziare, lo porteranno avanti loro, giorno dopo giorno, anche fingendo che vivono, che vivono semplicemente, come se ogni loro respiro, ogni loro godimento carnale, ogni loro fremito biologico, non facesse già parte, in realtà, dello spettacolo incognito e tanto più raffinato che si protrae, trascinando con sé anche gli animali della fattoria e della savana, i pesci, gli insetti, le vegetazioni, gli organismi invisibili e non specializzati, tutta insomma la maestosa sceneggiata terrestre!”

 

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Storia del fiume

 

Fummo costretti, alla fine, a dire che ci eravamo bagnati nel fiume, che l’acqua era trasparente, che si scivolava facilmente sui sassi, per via della patina oleosa di fango e muschio, che lo scroscio era vitale, costante, per via dello strozzamento del flusso in punti aleatori, ma suggestivi, che i legni erano tutti levigati, smangiati dall’acqua, da sembrare alla fine superfici inorganiche, sassose. Fummo costretti a dirlo, che i calzoni dovevamo arrotolarceli alle caviglie e che comunque ci bagnammo, che vedemmo dei gamberetti di fiume, due ballerine gialle che s’inseguivano giocose, che di pesci se ne scorgevano, ma sottili e argentati, e che respiravamo a pieni polmoni come bambini scesi al fiume per la prima volta, anche se poi il fiume era stato incendiato, ma anni prima, e quindi l’acqua era evaporata, tutti gli animali erano rimasti così, abbrustoliti e sparpagliati intorno per qualche tempo, e poi si erano disfatti in polvere nera, i sassi erano stati raccolti, frantumati in una macchina apposita, e noi dovemmo consegnare i nostri pantaloni e le nostre magliette, anche se queste ultime erano asciutte, e ricevemmo calci e sputi, ritornammo nudi a casa, e le orecchie rombavano ancora per i colpi presi, per le urla che ci avevano mortificato, ma noi lo dicemmo subito, quando vennero a raccogliere le testimonianze due studiose giovani e gentili, che credevano davvero nel loro lavoro, anzi il lavoro era per loro una missione, qualcosa di connesso a un convincimento morale, e noi comunque raccontammo per filo e per segno come il fiume scorreva, e come noi, ogni mattina, ancora, andavamo a guadarlo con le scarpe in mano, i pantaloni arrotolati, e lo sguardo attento ai sassi viscidi, ai legni levigati, e loro ci credettero, credettero alla storia del fiume, alla nostra storia, quando non c’era più nulla ormai, una sorta di grande traccia nera, di rovina silenziosa e tetra, ma è una bella storia quella del fiume, si vedeva come l’ascoltavano contente, le studiose così gentili.

 

 

[Immagine: Laszlo Moholi-Nagi, Dusk at the Playing Fields of Eton, 1936]

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