di Carmen Gallo
[E’ uscito venerdì per Italo Svevo Edizioni Tecniche di nascondimento per adulti di Carmen Gallo, un piccolo trattato sulla voglia di sparire per un po’, ma anche un manuale per non perdersi definitivamente. Ne proponiamo un estratto]
Avvertimento
Nascondersi non è un gioco da bambini. Bisogna stare molto attenti a dove ci si nasconde, ma soprattutto a come ci si nasconde. Ci sono molti modi e ognuno trova il suo, oltre alle sue ragioni, che qui non hanno alcuna importanza.
Non tutti i nascondimenti sono felici. Alcuni rischiano di essere definitivi e non è ciò che vogliamo.
Bisogna gestire bene il desiderio di nascondersi. Non esagerare con la distanza. Studiare attentamente le tecniche che consentono di rintanarsi nei paraggi e solo per il tempo strettamente necessario (anche se può essere difficile stabilirlo). E soprattutto: non sottovalutare i pericoli della vita nel nascondimento.
C’è da mettere in conto, certo, qualche minima escoriazione, persino a volte qualche piccola fatalità. Nessuna fuga è senza insidie, specie per i principianti, e nessun nascondimento dà troppe garanzie, per questo bisogna cambiarlo spesso. La possibilità di perdersi non è esclusa, e dimenticarsi di sé stessi è un possibile effetto collaterale.
Ciò detto, anche da adulti, la regola del nascondino non cambia. Si conta e ci si nasconde, c’è chi viene trovato e chi continua a nascondersi, ma a un certo punto il gioco finisce e si esce tutti fuori.
Legge di natura
La dimostrazione – una delle tante – che non siamo la specie più intelligente è che abbiamo permesso ai più forti di convincerci che se scappi sei un fallito, se fuggi hai perso, se non ti lasci sbranare sei un debole.
In natura, nel resto della natura, non funziona così. A nessuno importa del coraggio quando hai davanti uno che ti vuole solo mangiare. La faccenda è molto più semplice. Si calcolano le probabilità di sopravvivere alla lotta, allo scontro con il nemico. Se conviene, si combatte. Se non conviene, si fugge.
Nessun giudizio. Poi i calcoli – la forza dell’avversario, le possibili vie di fuga, i movimenti del branco, se c’è – possono essere più o meno corretti e la scommessa può essere più o meno vinta, ma nessuno fischia o applaude.
E invece, per colpa di questa invenzione tutta umana, ogni tanto il nostro istinto di sopravvivenza s’inceppa e restiamo inchiodati piuttosto che scappare.
Accade quando non riconosciamo subito il nemico, perché è più subdolo, o quando la minaccia appare meno chiara, dissimulata. A volte il nemico arriva all’improvviso: un attimo prima ci somiglia troppo e un secondo dopo è spaventoso e mostra i denti, e noi restiamo immobili e spaesati come davanti a uno specchio deformante.
Il pensiero di una fuga
Il diritto di nascondersi per un po’ dovrebbe essere garantito a chiunque. Anche perché non è una scelta. Quando il desiderio di nascondersi diventa un’ossessione o una necessità (cambia poco), niente è più come prima e la fuga non può essere rimandata.
Se da adulti si decide di nascondersi è perché si è davvero alle strette, e comunque non è quasi mai una decisione impulsiva. Il più delle volte la fuga non è una reazione immediata al pericolo, ma una decisione che richiede estenuanti riflessioni sui rischi, le conseguenze, gli abbandoni, le responsabilità, ecc. E anche una volta stabilita, la sua realizzazione può richiedere giorni, mesi, anni.
Dapprima si inizia a guardare con estremo interesse le finestre, i terrazzi e i balconi, le porte – soprattutto quelle sul retro –, ma anche i cartelli delle uscite di sicurezza, le mappe di emergenza ed evacuazione nelle camere d’albergo. Ringhiere, cancelli e sbarre perdono il loro fascino di protezione e riparo e appaiono come gabbie. Alcuni cominciano, nel mezzo della notte, quando nessuno li vede, a infilare una mano, poi un braccio, un piede. Come fossero bambini convinti di riuscire a passare dall’altra parte tirando un po’ in dentro la pancia.
Se si fa molta attenzione, è possibile ogni tanto vedere esemplari umani incastrati fino al collo, fino alla spalla, il petto tagliato a metà dalla pressione del ferro contro la carne, dagli spazi angusti, verticali delle sbarre.
In questi casi è meglio non disturbarli, perché negherebbero ogni intenzione di fuga, dissimulando l’inquietudine e accampando la scusa di dover riverniciare la ringhiera, recuperare oggetti caduti, controllare se piove acqua o cenere.
Esercizio di stile notevole, la pratica comunque è già stata raccomandata da secoli, nella meditazione, nella preghiera, nella convalescenza, nella migrazione di boomer consapevoli, ora, da più parti, il nascondimento dai social media… il significato e il senso sono perciò molteplici!
Nel genere, il gioco più bello era, nella mia infanzia: giocare a sardine. Uno si nasconde, tutti gli altri si mettono a cercarlo; quando si trova il nascosto, non si urla “trentuno” ma, al contrario, ci si nasconde insieme. A uno a uno, dunque, tutti i cercatori si acquattano nel nascondiglio e scompaiono dalla circolazione. L’ultimo rimane allo scoperto ed ha perso. In questa variante del nascondino chi si nasconde diventa un magnete che attrae i cercatori – che poi è il fallimento del tentativo di nascondersi, come spesso accade anche fuori dal gioco. L’ultima parola sui nascondimenti l’ha detta, tuttavia, Amelia Rosselli, nell’unica poesia sua che so a memoria, che dice: “Cercatemi e fuoriuscite”. Non c’è altro da aggiungere, mi pare.
Si è maestri a nostra insaputa, si è discepoli, invece, di dei o di parenti; maestri non ne sono mai nati, prima si è discepoli e poi maestri, che a loro volta avranno un solo discepolo.
Nel suo das “Glassperlenspiel”, Hermann Hesse disegna il ritratto di un gioco che a Murano, conoscono assai bene. In ebraico del ghetto novo, si dice “impira perle”; lo giocano le donne istruite dai bambini, ma lo creano i Maestri vetrai.