di Sergio Benvenuto
Ho letto un’intervista alla scrittrice spagnola Rosa Montero sul suo ultimo libro pubblicato in Italia, Il pericolo di essere sana di mente[1]. Indubbiamente una intervista utile, perché ora so che non leggerò questo libro.
Si tratta di un saggio sulla malattia mentale in generale, che tiene conto anche – e sarebbe un merito – delle scoperte delle neuroscienze. Eppure, colpisce quanto l’autrice sia confusa parlando della malattia mentale. Il fatto che questa confusione sia diffusa anche tra intellettuali mi legittima, qui, a mettere qualche punto sulle i – i miei punti, ovviamente.
Non mi soffermerò su varie tesi alquanto discutibili dell’intervista. Per esempio, Montero ci dice che mai la condizione della donna in Europa è stata così penosa come nel XIX° secolo. Perché, prima era migliore? Fino al XVIII° secolo una donna nel mondo cristiano poteva essere condannata, talvolta anche al rogo, come strega. Almeno nell’Ottocento non c’erano roghi. E nel XIX° secolo si afferma e diventa sempre più influente una letteratura femminista che teorizza l’eguaglianza tra donne e uomini – tesi sostenuta dapprima da pensatori uomini (de Laclos, Mill) poi da donne. In quel secolo inizia nel mondo anglo-americano il movimento delle suffragette. Si moltiplicano le scrittrici donne di successo. Nel 1849 viene data per la prima volta una laurea in medicina a una donna (Elisabeth Blackwell, a New York). E potrei continuare a lungo. Da quali dati Montero trae questa teoria di un Ottocento particolarmente misogino?
L’autrice si allinea all’approccio psichiatrico che tende a vedere ciò che ormai si chiama disordine (disorder) mentale – e non più malattia mentale – non come una questione ‘salute o malattia’, in un aut aut senza resti, ma come una questione di più o meno. Siamo tutti più o meno nevrotici, più o meno autistici… Ragion per cui i concetti di normalità e di patologia tramontano a favore del concetto di una maggiore o minore lontananza da un certo standard, che è spesso solo uno standard statistico. Quindi non c’è una separazione netta tra normali e disturbati mentali, solo una variazione continua tra la gente. Si tratta di un approccio anti-psichiatrico del tutto rispettabile. Eppure l’autrice dice ”divergere dallo standard non è patologico”. Cosa significa? O vuol dire che “[quel che chiamiamo] patologico è solo un divergere dallo standard”, ma allora si sarebbe espressa in questo modo. O vuol dire “c’è un divergere dallo standard e poi c’è una vera patologia, e non bisogna confondere I due”, ma in questo modo contraddice il discorso che sembra far proprio.
Soprattutto vorrei soffermarmi su un’affermazione che fa eco a un Leitmotiv diffuso negli ultimi decenni: quando dice che, secondo lei, l’origine della malattia mentale è al 50% genetica e al 50% ambientale. Evidentemente pensa così di rispondere saggiamente alla domanda “le malattie mentali [che poi, come abbiamo visto, non sono malattie] sono dovute a cause genetiche o a cause ambientali?” Ma per chi la pensa come me è la domanda a essere sbagliata.
Fino a non molto tempo fa si leggeva su giornali e libri divulgativi lo slogan “noi umani deriviamo per l’80% dal nostro genoma e per il 20% dall’ambiente in cui viviamo”. Si vede che in questi ultimi anni, se dobbiamo credere a Montero, la proporzione “ambientale” ha rosicchiato un buon 30% alla causalità genetica. Evidentemente l’auttrice pensa di essere così più equa, dividendo in parti eguali le due causalità così che ambientalisti e genetisti non litighino più. Ma che le cause ambientali siano il 20% o il 50% o solo l’1%, mi chiedo: come fa a saperlo? C’è mai stata una misurazione della vita umana che abbia dato precisamente questa proporzione? Questa misurazione non è mai esistita. 50-50 o 80-20 sono solo un tirare a indovinare, anche perché nessuno è in grado di dire che cosa esattamente sia genetico e cosa ambientale nei nostri comportamenti. È questo il punto importante.
Di solito per genetico o “naturale” si intende qualcosa che sappiamo senza averlo imparato. Per esempio, ogni neonato sa come ciucciare dal capezzolo materno – lo fa per istinto innato, diciamo. Mentre per ambientale o culturale intendiamo il fatto che il bambino, crescendo, per mangiare userà piatti, forchette, coltelli… perché così è stato educato. Ma l’istinto che spinge il neonato a succhiare il latte è un caso-limite nella vita umana.
Non appena ci volgiamo alla stragrande maggioranza dei nostri atti, la differenza natura/cultura diventa molto problematica e ci porta verso domande che girano a vuoto.
Prendiamo il linguaggio. Come ha affermato Noam Chomsky, l’attitudine a parlare è innata negli umani. Lo dimostrarono nel 1931 i coniugi Kellogg, che allevarono allo stesso identico modo il loro figlio neonato e una giovane scimpanzé sua coetanea, Gua. Il risultato fu che Gua imparò più in fretta e meglio del bambino certe abitudini umane, come vestirsi da sola, mangiare con le posate, ecc., ma non riuscì mai a parlare. D’altro canto non impariamo il linguaggio in generale, da piccoli impariamo sempre una determinata lingua (in certi casi, più di una). L’attitudine a parlare è certamente innata – la neurologia la situa nella relazione tra l’area di Broca e quella di Wernicke nel cervello – ma è anche vero che la lingua che parliamo non ci viene dal nostro cervello ma dagli altri, dall’”ambiente”. Molti studiosi dello sviluppo sono convinti anche che il piccolo umano debba essere esposto al linguaggio in età molto precoce per potervi accedere: se si perde il treno con cui si impara una lingua, in seguito l’individuo non riuscirà mai a parlare. Questa ipotesi si basa sui cosiddetti bambini selvaggi, come Kamala e Amala in India: queste due sorelline hanno passato la prima infanzia a contatto di animali e non di umani, e, una volta reimmesse nella società umana, non sono mai riuscite ad accedere al linguaggio. Perché si sviluppi la capacità innata a parlare, occorre che una società ci trasmetta una lingua a tempo dovuto.
Allora, fino a che punto il nostro parlare una o più lingue è un fatto genetico o ambientale, naturale o culturale? Ha senso la domanda: “quando impariamo una lingua, l’influsso ambientale è al 20, al 30… al 90%?”? La verità è che il genetico e l’ambientale sono inscindibili, in questo come in quasi tutte le capacità umane. Possiamo dire che il “naturale” è una disposizione biologica che dobbiamo presupporre, mentre il “culturale” è lo lo sviluppo di questa disposizione in un senso o nell’altro. La cultura inventa continuamente a partire da possibilità che chiamiamo naturali.
Prendiamo un altro esempio. Fino a che punto la voglia di far figli, per un uomo e per una donna, è naturale o culturale? Non tutti abbiamo questo desiderio, tanti non hanno figli e stanno bene così. D’altro canto la voglia di far figli muta con le condizioni storiche. Per esempio, nelle società iper-industriali va a picco il desiderio di riprodursi, e sappiamo i problemi che questo crea all’INPS. Non solo la voglia di “fare molti figli” oscilla nella storia, ma anche la voglia di fare figli tout court. Cosa allora spinge la maggioranza di noi a prolificare? È un istinto? E possiamo parlare di un istinto genitoriale solo perché uomini e donne ci dicono “desidero tanto avere un figlio!” Nessuno ha visto questo istinto, se non attraverso atti umani che ce lo fanno ipotizzare. Ma fino a che punto questo istinto deriva da un precetto normativo secondo cui “una donna e un uomo sono pienamente realizzati solo se diventano genitori”? Questo precetto è non meno culturale del precetto di un tempo “la donna obbedisce naturalmente al suo superiore, l’uomo”. Possiamo immaginare una società in cui invece far figli sia una vergogna – come erano le società catare o albigesi nel Medio Evo. In questa società prolefobica ci si riprodurrebbe lo stesso grazie a una minoranza di trasgressori, svergognati riproduttori. Possiamo solo dire che c’è – non in tutti gli umani – qualcosa come un desiderio di prole che però è sempre culturalmente sostenuto e articolato. I determinismi culturali compensano gli indeterminismi naturali.
Possiamo vedere il rapporto tra natura e cultura come la struttura squisitamente frattale di un albero. C’è un tronco il quale di solito genera dei rami, i quali a loro volta producono altri rami a scala più piccola… e così avanti senza limiti prefissabili. Dove comincia l’albero vero e proprio e dove cominciano i rami? Ha senso la domanda? Chiamiamo tronco la porzione iniziale dell’alberto, ma ogni ramo a sua volta è “tronco” per I propri rami. Anche qui, la domanda “la ramificazione di un albero ha un’origine genetica o ambientale?” non ha senso, perché sin dall’inizio l’ambiente seleziona le possibilità genetiche. Un codice genetico si trova già, sin dall’inizio, in un ambiente. E in effetti la ramficazione di un albero dipende da fattori in gran parte imprevedibili: dalla quantità d’acqua presente, dalla vicinanza o meno di altri alberi, da fattori accidentali…
Usando nozioni della fisica aristotelica, possiamo dire che c’è una causa materiale (il genoma di un animale fatto di acido deoxiribonucleico), una causa efficiente (gli influssi dell’ambiente e degli altri animali) e una causa formale (la struttura che prenderà l’organismo). Ma queste tre cause sono inscindibili, non esiste una materia senza forma né una forma senza materia, e c’è sempre una causa efficiente – una differenza – che produce il mutamento in qualsiasi vivente.
Questo vale anche per quelle soluzioni individuali che fino a poco tempo fa chiamavamo “malattie mentali” e che oggi preferiamo chiamare con l’orribile termine “disordini”, ovvero deviazioni da comportamenti standard.
Da un secolo almeno si discute fino a che punto la schizofrenia di un soggetto dipenda dall’influsso della famiglia e dell’ambiente, e fino a che punto essa sia endogena, ovvero “si nasce schizofrenici”. Mai nessuno è riuscito a rispondere veramente a questa domanda.
Da tempo migliaia di ricercatori inseguono per il mondo gemelli veri, omozigoti, che siano stati educati separatamente sin dalla primissima infanzia. Se uno dei due diventa psicotico, si va a cercare l’altro gemello per vedere se anche lui è psicotico: se questo fosse il caso, si sarebbe dimostrato che la psicosi è innata, “naturale”, dato che i due hanno avuto esperienze sociali diverse. E in effetti si è visto che se un fratello gemello ha certi disordini mentali, è più probabile che ce li abbia anche l’altro gemello di quanto ciò non accada tra fratelli normali educati separatamente.
Queste ricerche sono state criticate, ed è in corso tuttora un dibattito. Per esempio, che cosa si intende per “educati separatamente”? Se si sono comunque frequentati sin da piccoli, pur abitando in due famiglie diverse, possiamo dire che sono stati “educati separatamente”? Comunque, anche ammesso che i risultati statistici siano del tutto attendibili, è un fatto che la probabilità che due gemelli veri siano entrambi disturbati mentali è più alta di quella di due fratelli educati separatamente. Ma la probabilità non è una determinazione netta. Potremmo anche generalizzare: ciò che chiamiamo innato o naturale è tutto ciò che rende più probabili certi atti o sviluppi, non ciò che li determina assolutamente. È molto probabile che due gemelli veri nascano con l’identico colore degli occhi, ma non è certo. D’altro canto, conosciamo tanti gemelli veri che, pur essendo stati educati insieme, prendono strade nella vita assolutamente diverse l’uno dall’altro.
Va quindi respinta la tesi lockiana (da John Locke) secondo cui ciascuno di noi nasce come una tabula rasa su cui si imprimono esperienze. Invece tutti noi siamo pre-determinati, ma nel senso che ereditiamo sempre delle disposizioni, e queste disposizioni sono sempre allo stesso tempo genetiche e culturali.
Forse è molto difficile pensare le eziologie dei disordini mentali in questo modo, perché non ci hanno abituato a ragionare così. Ma questa complessità può aiutarci a evitare le semplificazioni confuse di tanti divulgatori.
[1] Giulia Ziino, “La follia ci siede accanto e non è detto che sia folle”, Corriere della Sera, 15-IX-2023, p. 21
Mettiamola così. Vado a memoria.
“La follia è il dubbio della ragione . Forse è la ragione stessa.”
Gustave Flaubert “La tentazione di sant’Antonio”
Claudio Tani