di Stefano Raimondi e Duccio Demetrio

 

Incontro Duccio Demetrio nella sua casa di Anghiari in occasione dell’uscita del suo ultimo libro: La natura è un racconto interiore. Alla ricerca del filo verde della propria vita, Mimesis, 2024.

In questo spazio nel 1998 fu fondata, assieme a Saverio Tutino, la Libera Università dell’Autobiografia (LUA). Un Centro nazionale di ricerche e studi autobiografici che ospita i propri studenti e i propri studiosi nell’antico borgo aretino. Un luogo che racchiude in sé sia la storia magica di una misteriosa sparizione (la famosa Battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo da Vinci tra il 1503-1504), sia la storia concreta di apparizioni: le scritture di sé. Il silenzio e la luce autunnale ci preparano al dialogo.

 

SR: Cosa intendi quando scrivi: “Scrivere ci offre la libertà che inseguiamo”?

 

 DD: Mi riferisco per lo più alle scritture autobiografiche (a diari, epistolari, liriche, memoriali, appunti …) libere da ogni obbligo stilistico, che non perseguono mire letterarie, ma sono contrassegnate da intenzioni narrative spontanee, semplici, ingenue, liberatesi appunto da ogni canone morfologico. Fra queste: il desiderio di comunicare ad altri – no di certo a critici osservanti, a lettori e a linguisti esigenti – la propria storia o momenti particolari d’ essa. La libertà che tali scritture “inseguono” avvalendosi di queste non- letterature, soltanto narrazioni, è contrassegnata infatti dall’ anelito di far conoscere accadimenti, stati d’ animo, incontri realmente vissuti e personali, oppure, da tenere per sé.  Nella libertà di scegliere se rivelarli o nasconderli. Per chi narra qualcosa di sé avvalendosi di queste modalità ciò che più conta è riuscire a documentare, segnalare, rivelare tracce della propria vita o di quella altrui. In quanto si tratta di testimonianze biografiche o di tematiche esistenziali nelle quali la condizione umana si rispecchia: nelle sue quotidianità e banalità o, viceversa, nelle sue situazioni particolari, provocatorie ed estreme. La facoltà di saper scrivere, almeno di sé stessi, anche in forme approssimative, in molti di questi casi di conseguenza rappresenta la conquista di un diritto e poco importerà che le pagine siano malamente redatte.

 

La prospettiva autobiografica, anche se ci trova poco dotati di abilità morfo-grammaticali, ha pertanto una funzione di emancipazione che offre allo scrivente, anche “al più fragile” e sprovvisto culturalmente, una possibilità di autoconoscenza di carattere liberatorio e improntata alla volontà di affidare ai fogli un riscatto catartico. Quando il dolore, grazie alla scrittura (paragonata ad un bisturi, a una sonda, ad un pozzo dal quale traiamo lenimento) viene almeno un poco attenuato; quando lo scrivere riesce a soddisfare il bisogno di quelle narratrici e di quei narratori che vanno cercando risultati che possano rivelarsi un’esperienza di auto-aiuto, di riscatto, di riparazione etica, sentimentale, ideale.  Se inseguiamo la libertà dal male, dal dolore, dalla cattività, dalle ferite anche le più intime (esclusione, perdita, nostalgia, emarginazione …) le analisi di queste testimonianze narrative non potranno che essere oggetto privilegiato di altri campi del conoscere: non letterari appunto bensì sociologici, storiografici, antropologici, filosofici, psicologici e psichiatrici.

 

 Quindi a mio avviso la libertà autobiografica è stata ed è per sua intrinseca natura, e credo che sempre lo sarà, una sfida ai vincoli stilistici e alle ambizioni letterarie. Al contempo tali giacimenti umani rappresentano una straordinaria sorgente conoscitiva per riabilitare narrazioni anomale, povere, miserevoli a lungo intenzionalmente ignorate. Desiderare di scrivere qualcosa della propria vita episodicamente o con continuità poi ci dimostra quanto sia importante non domandarsi come le scritture siano state redatte, ma quali perché abbiano indotto i narranti a ricorrere alla penna: quali possano essere stati i motivi pulsionali impliciti e segreti, ignoti agli autori stessi, che abbiano accettato di raccontarsi impudicamente e con onestà.

 

SR: Cosa significa allora raccontarsi?

 

DD: Come accennato, raccontare di sé – di chi si ritiene di essere, di volere, di giudicare, di credere…- è un atto verbale che persegue l’intento creativo di offrirci (qui mi riferisco ancora soltanto all’ esercizio dello scrivere di sé) una rappresentazione della propria storia di vita rivisitando il passato o fotografando in parole i momenti apicali, critici, aurorali del presente. Mi riconosco, a tal proposito, nelle convinzioni di Annie Ernaux: quando negli “Anni “afferma che dobbiamo cercare la scrittura per lasciare tracce di noi attraverso parole non esposte all’ effimero e pervasivo vento della voce. Da consegnare invece a pagine anche le più umili e indimenticabili, e tali da ridisegnare la nostra storia in quel compito anche elementare di opporsi alle avide cancellature, sempre in agguato, dell’oblio. “Per salvare – ha scritto la grande scrittrice e autobiografa francese- almeno qualcosa del tempo in cui non torneremo mai più”.

 

 

SR: Che differenza c’è tra la scrittura di un diario e la scrittura di un’autobiografia?

 

DD: Come è noto, il diario (dal latino dies: giorno) è la multiforme pratica di scrittura anche occasionale, quel compagno giornaliero o quasi al quale ricorriamo per dialogare con noi stessi, con la nostra coscienza, con una divinità, con il senso o meno di responsabilità, con il giudizio degli altri. Si tratta, sovente, di una pratica narrativa che si dimostra anche laicamente “autoanalitica e confessionale” sincera, modesta, senz’ altro narcisistica. Della quale in senso “buono” o sospetto ci avvaliamo nelle diverse stagioni della vita per raccontare a noi stessi, come se il diario fosse lo specchio delle nostre inquietudini, dei nostri amori, delle inquietudini, del- le debolezze, delle verità più scabrose.  Alle pagine dei nostri diari affidiamo in sostanza il trascorrere dei passi che lasciamo in itinere giorno per giorno sulle strade della vita e che potremo nel futuro rileggere con altre emozioni, diverse da quelle che vivemmo scrivendole in un presente che soltanto questa tecnica ci consente di ritrovare come se sfogliassimo un album di foto color seppia.  Il diario fa dunque parte della “famiglia” autobiografica a tutti gli effetti, ma non risponde al più importante “statuto” dell’autobiografia. In quanto, se mossi da una autentica e temeraria intenzione autobiografica, ci troviamo dinanzi alla necessità di prefigurare un progetto volto a ricostruire anche finzionalmente le memorie e le fisionomie salienti della nostra esistenza, a più livelli: fattuali, affettivi, comportamentali e temporalmente ricondotti all’ infanzia, ai cambiamenti, ai passaggi d’ età. L’ autobiografia assumerà di conseguenza tutte le caratteristiche di un libro, del nostro libro: ci richiederà di raccontarci scrivendo premesse, introduzioni, capitoli, conclusioni. In molti casi, se attenti al pensiero filosofico, l’autobiografia che sia stata in grado di tracciare inevitabilmente il nostro profilo psicologico, morale, estetico potrà assumere i toni marcati o sbaditi di un “saggio filosofico”, di un’avventura esistenziale imperdibile. Tornando all’ esempio del diario, non potremo chiedergli di disegnare la trama del racconto o dei racconti della nostra storia; anzi, lo redigiamo cioè in base ad umori, episodi, emozioni e sentimenti del presente in divenire. Molte saranno le cancellature, i ritorni su problemi irrisolti, i ritratti di chi abbiamo amato, odiato, soltanto in maniere effimere conosciuto. E tanto altro ancora.  Il diario è sfogo, imprecazione, dichiarazioni d’ addio, rivelazione segreta… Quando invece scriviamo di noi riconoscendoci come i protagonisti della storia, immaginando lettori e editori possibili, sceneggiando tempi, incontri, inizi e conclusioni con attenzione a modi di essere e di pensare vorrà dire (spesso ignari di ciò) che il progetto mirava ad assomigliare al genere romanzo, ai romanzi definiti autobiografici che tutti conosciamo.  Se il diario ottempera al piacere pulsionale di scrivere disordinatamente in una maggiore libertà espressiva e temporale, l’autobiografia (in prosa o in poesia che sia), invece è comparabile ad un lavorio di scrittura attentamente curato e impegnativo, a un altro desiderio spesso inconfessabile: la pubblicazione di quel tempo che non volevamo evaporasse verso chissà dove. La scrittura autobiografica, insomma, anche nella variante diaristica, del resto non venne inventata apposta per comunicare ai propri simili le storie dei propri ego?

 

SR: Quale postura dell’ascolto bisogna adottare per incamminarsi dentro sé stessi?

 

DD: L’immagine della strada è da sempre una metafora del procedere a passi lenti o lesti camminando sui sentieri o nelle strade più o meno erte della propria vita. Durante il viaggio quotidiano che ogni mattino ci attende o in situazioni difficili occorre imparare però anche l’arte povera della sosta, della pausa: in questi momenti simbolici o concreti, cercando il silenzio, l’ascolto e la contemplazione retrospettiva dei percorsi intrapresi e lasciati alle spalle, impariamo a ri- ascoltare noi stessi e a dare ascolto agli altri. Senza dimenticare che il viaggio autobiografico adempiuto o ancora in fieri è una forma di rilettura della nostra vicenda. Ascoltarsi e rileggersi sono vie ineludibili se ci incamminiamo alla ricerca della propria o meglio delle proprie vite interiori.

 

SR: A tal proposito ti chiedo: le parole intimità e interiorità, per un autobiografo, a cosa rimandano?

 

DD: La seconda parola esprime una dimensione che evoca la più diffusa categoria di anima, per questo l’avvertiamo ancor più evanescente e diafana, come sospesa a mezz’ aria anche se la sentiamo pulsare dentro di noi. Non coincide con la nozione di coscienza, deputata a valutare le nostre azioni e le relative conseguenze; è avvicinabile a una presenza inconscia questo sì e, per tale  ragione, appartiene forse all’ attività autoriflessiva frequentata non con continuità, anzi sovente messa in fuga, a quell’ idea di animus che i latini riconducevano a una gamma di valori: tra cui sobrietà, pietas, coerenza, pudicizia, gratitudine, modestia….La cui presenza disegna il nostro profilo autobiografico nel mentre andiamo scrivendone le condotte morali e quelle “ tecniche per la vita” riscoperte da Michel Foucault nei suoi saggi sulla cura di sé.

 

Una frase di Orhan Pamuk mi ritorna in mente nel risponderti: “Scrivere è trasmettere il proprio sguardo interiore alle parole, ricercare un nuovo mondo nella propria mente con pazienza, ostinazione e gioia”. Sono termini nei quali ci rispecchiamo, che rimandano a quei vissuti intimi, inconfessati, profondi che non ci stancheremo mai di interrogare; e tali da indicare all’ autobiografo (quale ne sia il genere e l’età) la necessità o meno di rivelarli; come se appartenessero a quella modalità narrativa già citata, che la filosofa Maria Zambrano definiva “confessionale”. Presente nelle culture laiche o religiose occidentali. Ci sono pertanto autobiografie, o più agili memoir (si tratta di “porzioni” autobiografiche della nostra storia), che rivendicano il diritto alla riservatezza. Mentre altri scritti,  nuovamente  mossi dal bisogno di raccontare verità e non immaginazioni, dunque sedicenti  autobiografici,  che, invece, hanno tutto il diritto di tacere: persino di mentire, di raccontare di sé badando pur sempre a rispettare i confini e le differenze tra ciò che è autobiografico e ciò che appartiene all’ immaginario, alle finzioni sulle quali  un’ autobiografia o un  diario dovrebbero vigilare, per ottemperare all’ etica autobiografica che, ribadisco, ha il compito di condurci a raccontare storie vere, personali o altrui,  all’ insegna del principio di realtà e storiograficità.

 

SR: Il nostro bisogno di raccontarci è un desiderio che include anche il racconto che l’altro fa di noi?

 

 

 DD: Senza accorgercene, noi siamo sempre ora poco, ora molto un “noi”, un tu, un voi….Insomma scopriamo che  la scrittura autobiografica  si manifesta in tutta la sua scia di coralità, salvatrici o persecutorie, e che come autos ( me stesso ) sono invitato a rendere talvolta la narrazione un epos collettivo che certamente confligge con il nostro diritto ad essere singolarità, solitarie e introverse,  e non a divenire  per pressioni collettive antiliberali  comunità coatte, folle, snaturamenti delle identità soggettive tutto in favore delle fiumane senza volto. Infatti le scritture autobiografiche generano processi psichici, e non solo, che definiamo dispositivi interiori, desideranti, di individuazione e di identificazione di sé. Ma questi non includono solamente il nostro ego, bensì le parole, le immagini, le storie di quanti attraversarono o attraversano oggi (in quanto personaggi dei nostri diari o di altri testi autobiografici) la nostra vicenda antropica.

 

SR: Quali parole sono più adatte a esprimere l’autenticità in una scrittura di sé.

 

DD: Se ci riferiamo a scritture quali sono le diaristiche, le documentarie, le epistolari l’autenticità risiede in quel “cuore elettivo” che è la dimensione della memoria. La scrittura autobiografica ci aiuta ed educa a ricordare: sollecitazione che troviamo in ogni testo autobiografico che rivendichi la sua autenticità e che mirano a conferire alla scrittura un valore nel rispetto di quell’istinto narrativo che non appartiene certamente all’ autobiografismo di maniera: sorvegliato linguisticamente, prezzolato come una merce sedicente culturale imbellettata per il consumo. Alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari da me fondata nel 1998 con il giornalista Saverio Tutino badiamo a che i nostri allievi, per lo più donne e uomini in età matura e anziana, si raccontino abbandonandosi alla spontaneità, alla scrittura automatica, alla immediatezza pulsionale, allo sfogo impressionistico. Noi non siamo una Scuola di aspiranti al successo letterario, alla vendita, alla scrittura cosiddetta creativa, alle autofiction, né seminiamo illusioni autoriali di sorta. La nostra è una comunità vicina al pensiero filosofico esistenzialistico, dove si pratica una formazione alle scritture di sé che si ispira alla maieutica socratica: e, di conseguenza, ci ispiriamo a quell’ esistenzialismo filosofico (al quale appartengono filosofi – per altro tutti autobiografi – anti idealistici come Sartre, Camus, De Beauvoir, Zambrano, Paci, ecc.), che ritiene l’autobiografia un atto esistenziale e umanistico tra i più importanti. Un gesto che ci salva dalla tenebra del nulla heideggeriana e che la scrittura “autentica” rioffre alla vita come ad una latente e ritrovata gioia di esistere, non di vivere nell’ angoscia in attesa di riprecipitare nel nulla.

 

SR: Veniamo ora al tuo ultimo libro “La natura è un racconto interiore”: quale rapporto intercorre tra la letteratura e la natura? Che cosa intendi per econarrazione?

 

DD: Il rapporto è antichissimo, pre-storico, abitato da miti e leggende. Gli esseri umani hanno iniziato a comunicare nelle loro comunità con disegni, sculture, tabù di animali, luoghi, divinità, a dare senso simbolico alle espressioni della natura le più disparate, soprattutto all’ apparire delle scritture geroglifiche le più elementari e poi sempre più delineate. Le autobiografie apparvero ben prima che se ne coniasse il termine nel 1700.  Come impronte narranti che si avvalsero delle stesse manifestazioni naturali per comunicare tra di loro e con la natura come entità magica. Tra letteratura e natura il rapporto non è solo atavico, si trattò di una necessità sociale, non solo estetica. Ma per descriverla ci è d’ obbligo ricorrere ad un concetto: quello di eco-narrazione. Il quale traccia una linea non solo allegorica tra la natura, nei suoi aspetti tematici più diversi e mitologici, religiosi (cielo, sole, alberi, terre, acque e mari, stagioni, animali…) e l’apparire dei linguaggi figurativi progressivamente divenuti letterari, poetici, epici. È sufficiente sfogliare le pagine dei lirici greci o di altre culture che ci hanno lasciato i testi classici della grecità e della romanità (l’Omero dell’isola di Ogigia o del giardino di Antinoo, Ovidio delle Metamorfosi, Virgilio delle Georgiche o delle Bucoliche, il Lucrezio del Rerum Natura…) per ritrovare questi semantemi che saldarono il rapporto stretto tra natura e narrazione anche autobiografica di coloro che per la scienza o per l’arte ne divennero i narratori.

 

SR: Nel tuo libro dici che la natura per noi è come un “libro aperto”. Che cos’è per te un libro?   La natura è dunque oltre che da” vivere” è anche da leggere?

 

DD: Un libro può essere, e in autobiografia lo è senz’ altro, il nostro specchio si è già detto e non può, per essere amato o detestato, che assomigliarci. Inoltre è un libro aperto perché noi stessi, mi rendo conto che è un’espressione banale ma è così, siamo natura e nostro compito è doverosamente quello di imparare a leggerla a partire dal nostro corpo, dalla sua meraviglia e dalle sue drammatiche inalienabili verità. Questa è la fonte naturalistica a noi più prossima, a portata di mano oggi in decadenza dinanzi all’ invasione della digitalità, delle tecnologie robotiche, del tramonto delle fisicità e materialità corporee. Che cosa è un libro? Un libro ci aiuta a capire, ci dona bellezza e intrigo, trame e maneggi adombra presenze umane e personaggi, è un invito a scrivere anche il nostro. Ci inizia a staccarci dalle pagine per capire la differenza tra una lettura in poltrona, alla TV, via internet e un contatto diretto, ecologico con le più diverse realtà per vivere nella e con la natura, per leggerla al ritorno.

 

SR: Esiste nella mistica il famoso “filo d’ oro” mentre tu parli di un filo verde: cosa intendi?

 

DD: Di qualunque filo si tratti l’ immagine metaforica indica la presenza di un intreccio, di un gomitolo, di un arcolaio che tesse mitologicamente  la tela della vita, che nella varietà dei colori di volta in volta rinvia ad un simbolo: al rosso della passione, al blu del cielo sereno, al verde della natura floreale, dei mari, delle selve oscure….Ebbene il verde, il riferimento è immediato, evoca anche nella lingua inglese green  i primi contatti che nell’ infanzia ci stupirono dinanzi ai primi incontri fisici con entità  organiche: con orti, giardini, alberi, boschi, fiori, animali, ecc. ma anche inorganici: pietre, rocce, sabbie… La scrittura autobiografica, a tal proposito ci consente di rievocare ricordi che ci colpirono sul piano emotivo e cognitivo, che contribuirono alla nostra crescita linguistica, a dotarci di un lessico che pian piano accresce però la differenza educativa tra un bambino abitante in campagna, rispetto ad un bambino di città, per il quale tali esperienze sono precluse. Il filo verde rintracciato nella prima età nel proseguo degli anni ci dirà quali furono i nostri primi passi “tra il verde” dei campi, chi siamo rispetto alla nostra sensibilità ecologica e all’ interesse verso le letterature e le poetiche, anche autobiografiche, che traggono dalla natura suggestioni, nostalgie, passioni.

 

SR: Nella scrittura autobiografica i ricordi sono un materiale essenziale. Spesso sono il nostro ricordo primario, cioè quello che ci fa iniziare a scrivere, e quello che si offre come occasione offertaci dalla natura. È il nostro accorgerci di essere in vita. Il tuo ricordo primario qual è stato?

 

DD: Se si tratta di ricordi green, in quanto nato nel dopoguerra milanese mai dimenticherò la forza degli alberi selvatici, i fiori spontanei del tarassaco,  che tentavano di spuntare e riprodursi tra le macerie: tra questi  rammento gli spacca- sassi, i sambuco, le robinie profumate  tra aprile e maggio , i papaveri e le ortiche, i filari di grano dalle parti di viale Zara dove oggi sorge l’ Università Bicocca, e poi le cascine di Affori, dove proliferavano nei pergolati dei circoli operai  le vigne di uva americana….Credo che dinanzi allo spettacolo di strade e case sconvolte sia nato in me, dalle elementari, il desiderio di raccontare  quello che vedevo, toccavo, cercavo scrivendone. Per non dimenticare i panorami dove a sera scendeva un silenzio oggi inimmaginabile interrotto dallo sferragliare verde scuro del tram n. 14.  Quelle piante disperate ma attaccate, arrampicate, alla vita, tra i mattoni dei bombardamenti, mi parlavano e mi insegnavano a star bene da solo, ad ammirarne la forza mandando a memoria il loro nome. Il mio desiderio di scrivere per scoprire dentro di me luoghi verdeggianti anche modesti è per altro quel filo verde che mi ha iniziato alla pittura e che mi accompagna segretamente anche nelle strade milanesi di oggi, in un dialogo malinconico con i suoi fantasmi.

 

SR: Che tipo di “attenzione” deve coltivare lo scrittore di una Green Autobiography? Come si diventa scrittore di un green autobiography?

 

DD: Certamente non dall’oggi al domani: l’attenzione per i mondi – spettacolari o minuscoli – di interesse naturalistico si manifesta nell’ infanzia, come più sopra raccontavo. Quando non sono indifferenti i ruoli che la famiglia svolge nell’ educare i figli alla miriade di luoghi non urbanizzati, ai cambiamenti di stagione, agli animali non domestici, alle fisicità dei rapporti con prati, alberi, acque e i loro abitanti… Ma non solo: oggi i media eco-narrativi dai libri, ai documentari, alle comunità ambientalistiche rappresentano un’ importante rete di protezione creando esperienze di contatto, osservazione, contemplazione  che risvegliano nelle nuove generazioni  i nuovi e futuri talenti amanti e protettori della natura. Ma è in età adulta che il desiderio di raccontare la terra ingenera la passione di scrivere di sé durante o dopo la partecipazione a camminate, ciclo-viaggi, scalate, navigazioni, possibilmente non di carattere agonistico. Poiché, come già credo di aver risposto, l’eco-narratore non può esimersi dal cercare il silenzio, le solitudini campestri o dei borghi per appartarsi e lasciare tracce sui suoi taccuini. Un’ultima attenzione credo vada accordata ad un genere narrativo da sempre vivace, e più volte dimenticato con sprezzo intellettualistico miope, che ho scelto di chiamare green autobiography. Non mi riferisco, in tal caso, alle scritture autobiografiche dei grandi autori che nella natura hanno visto il loro ambito privilegiato di ispirazione e creazione artistica. Bensì alle scritture amatoriali di coloro che per lo più senza lettori, per diletto, per pura passione si dedicarono e si dedicano alla narrazione dei propri ricordi d’ infanzia, dei contatti quotidiani o saltuari con una natura che ha donato loro lavoro, piacere, curiosità, bellezza. Un green autobiography inoltre viene scritta con l’intento di dialogare con noi stessi, dinanzi alle meraviglie naturalistiche e per accrescere la nostra consapevolezza nell’ abbracciare gli ideali ecologisti; sia per partecipare alla battaglia per la difesa della Terra con più convinzione. Si comprendono questi principi con più lena nel momento in cui, per esperienza diretta, sentiamo che fin da bambini e bambine la natura ci chiedeva amore, rispetto, attenzione.  Ed è grazie alla penna che questa alleanza può rendersi ancora più tenace e libera: quando sentiamo che occorre muovere alla ricerca di scritture di sé stessi che riguardino, nel passato e nel presente, questo nostro legame antico, oppure recentemente compreso che è in grado di proiettarci verso il futuro. All’ insegna di un attaccamento alla esperienza del vivere, del viaggiare, del camminare a piedi, dello scoprire e del difendere ciò che viene minacciato in ogni istante. Scrivendo “verde”, all’ inseguimento di questa parte importante della nostra storia, ci accorgiamo di partecipare ad un movimento d’ opinione, a sensibilità, a emozioni che possiamo contribuire a diffondere, riscoprendo che la natura è un racconto interiore. Poiché è già parte di noi, non soltanto fuori o altrove, ne condividiamo le sorti con  il corpo, i sensi, il respiro: e , proprio per tale ragione, dedicarsi a tenere diari dei nostri appuntamenti con essa, dei nostri contatti rispettosi della vita delle piante, degli animali, di ogni forma vivente, oltre che dei territori, dei fiumi, delle brughiere o delle paludi, delle foreste che ogni giorno vengono abbattute desertificando milioni di ettari, ci consente di trattenere meglio nella memoria queste impressioni, per condividerle con altri che  abbiano in comune le nostre stesse volontà di difendere il pianeta da se stesso e da noi.

 

SR: Verso la natura ci si deve porre con amore o con un senso del dovere? Secondo te come ci si riconcilia con il pianeta?

 

DD: Le offese nei confronti della natura non possono veder soltanto diffondersi i salutari provvedimenti legislativi delle politiche ambientalistiche locali o universali. Abbiamo il dovere di batterci per diffondere l’amore e al contempo la prevenzione contro fenomeni atmosferici e non solo, dei quali l’umanità è causa. Abbiamo il dovere di interpretarne i sintomi, di avvertirla con un coinvolgimento empatico che possa farsi tutela in ogni anfratto del pianeta. Occorre un’educazione capillare contro le logiche del profitto, incurante di quanta bellezza ci sia da salvare in ogni angolo del mondo. È l’immagine di una penna ci rianima, se la lasciamo lavorare come meglio le paia. Offrendoci ospitalità nella ricerca del tempo ancora da vivere; smentendo coloro che ritengono che la memoria ci condanni alla passività. La scrittura ovunque intenda portarci ci rende più felici, quando ritroveremo quei fogli sottratti alla smemoratezza. Se accelera il nostro respiro, se lo attenua, se ci trasferisce in zone arcane dove l’apnea del ripensarsi e pensare possa diventare una condizione meditativa su di noi, si rende esperienza introspettiva.

 

SR: Nel tuo essere un ricercatore di tracce delle scritture dedicate alla natura, la poesia è un genere che abiti? Che sguardo ha l’occhio del poeta sulla natura secondo te?

 

DD: La poesia è parte importante della narrazione autobiografica. Forse la più importante, perché trasforma i nostri incontri con le manifestazioni naturalistiche in occasioni emotive di riavvicinamento alla terra, ai paesaggi, al volgere delle stagioni, al loro incanto. La poesia ci abita comunque a nostra insaputa: anche se per nostra fortuna non diverremo mai, scriveva Eugenio Montale, poeti laureati. La poesia come composizione lirica è preceduta dalla sensibilità poetica, perché poetando la terra ci penetra e ci circonda, ci comprende, penetra nei tessuti profondi dell’animo. Possiamo essere poeti – la storia dell’oralità lo dimostra-  anche senza carta e penna: come non esserlo o diventarlo quando ci parla con i suoi silenzi, ci scrive metaforicamente con tutto ciò che le appartiene; che si incide nei tronchi, nelle rocce, nei fondali, nei deserti, nelle membra degli animali, di insetti, di uccelli o dei fiori. La natura ha le sue voci ma non sa di averle; narra storie reali o fantastiche, ma non sa di averle. Per questo abbiamo imparato noi a parlarle, a scriverne, a dipingerla, a musicarne le vibrazioni; incidendo una pietra, tenendo in mano ciuffi d’ erba, scoprendo la risacca del mare in una conchiglia. La natura, e attraverso la terra che abitiamo, ci ha insegnato a sentire con ogni senso, a gioire di piacere assaggiando un frutto, a riprodurne e a imitarne i sibili, le percussioni, gli scrosci devastanti quanto le acque tranquille della primavera.

Se questa non è poesia, dove abita allora la poesia?

 

SR: Nell’ultima parte del libro espliciti il metodo e parli di un elemento importante per incominciare a scrivere di sé: il coraggio della memoria. Che cos’è questo coraggio?

 

DD: Il metodo non può che essere figlio di quel coraggio che sfida la rimozione e la paura di ricordare, nella fiducia che la scrittura autobiografica è in verità una forma di erranza, è un cammino impervio ma entusiasmante. Righe dopo righe dedicate alla nostra storia ci consentono di capire che stiamo obbedendo ad un principio morale e pedagogico: vogliamo spiegare ad altri, che forse ci leggeranno, ciò che abbiamo imparato dalla vita. Oppure non con la pretesa narcisistica di essere eguagliati, bensì allo scopo di risvegliare in costoro domande che ci siamo posti, quelle alle quali abbiamo saputo o creduto di dare una risposta e quelle che resteranno sempre tali. Siamo ecologisti narrativi quando ci battiamo affinché quelle narrazioni non muoiano, affinché le storie suscitate dal rapporto con la natura possano sopravvivere contro tutte le desertificazioni cui stiamo assistendo. Occorre quindi avvalersi di ogni mezzo educativo per insegnare e imparare a “raccontare la terra” e, al contempo, per il tramite delle rappresentazioni molteplici che ne abbiamo, che ci consenta di interpretarne gli innumerevoli racconti. Si tratta di una multi- vocalità narrativa che, per una essenziale esemplificazione, possa  metterci e  mettere altri nelle condizioni di saperla: ascoltare, nei suoi richiami terribili; “matrigna”, nelle sue promesse mancate ; e ancora di  saperla contemplare  nei suoi paesaggi e territori, nelle vastità dei suoi orizzonti ed anche nei più riposti angoli; quindi percepire : nel rapporto fisico, sensoriale, emotivo con quanto ci offre nei modi silenti e meditativi che ogni rapporto intenso con la “madre terra”, ci insegna.. Mentre il saperla raccontare, avendo appreso l’arte dell’attenzione ecologica, corrisponde al ritrovarla nelle nostre storie e memorie personali e collettive.
In conclusione da quanto accennato, mi auguro appaia ora più chiaro che il concetto di eco- narrazione mira a esprimere un punto di vista culturale e politico, una propensione filosofica, scientifica, estetica, pedagogica orientata sia in una direzione teorica, che pratica ed esperienziale.

 

Anghiari, ottobre 2024

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