di Valentino Baldi
[E’ appena uscito per Quodlibet Nel delirio. Letteratura e malattie della mente, il nuovo libro di Valentino Baldi. Proponiamo due paragrafi dell’ultimo capitolo intitolato Mondi negativi].
Un mondo né empirico né mentale
Non reale, non mentale. Come tutte le negazioni, non c’è soltanto un’affermazione sprofondata che reclama il diritto di esistere, ma una condizione di reciprocità e interdipendenza degli opposti, per cui affermato e negato hanno bisogno l’uno dell’altro. Solo questo vuoto può dire qualcosa a proposito del mondo della letteratura, come gli spazi vuoti della malattia significano e parlano di un mondo altro. La familiarità apparente del mondo da cui proviene e a cui tende la letteratura è mostruosa e perturbante quando vista da vicino. I limiti della realtà empirica e del reale psichico non bastano, da soli, per parlare del mondo della letteratura, come non basta l’iconicità autoreferenziale, né la ininterrotta referenza. La letteratura costringe sempre a parlare negando, o a guardare di sbieco, come quando entriamo nell’universo dello Strano caso del Dottor Jeckyll e del Signor Hyde, la cui «Storia di una porta» ha aperto questo libro. È il lascito più duraturo della teoria letteraria di Francesco Orlando, quel cuore pulsante che non smette di battere, anche in anni in cui la teoria, e la letteratura con essa, sembrano sul punto di evaporare: «Ora, vedrei proprio la seguente differenza fra un’opera di letteratura, anche la più decisamente impegnata e ideologizzata, e una di pura e semplice ideologia: che solo quest’ultima può limitarsi a una scelta razionale, recisa ed esclusiva fra due intenzioni o due correnti contrastanti o due forze o, soprattutto, due significati; in essa può essere e giusto e ovvio che l’errore, il nemico ecc., alla lettera, non abbiano voce. Ma la caratteristica della grande opera letteraria, come della negazione linguistica secondo Emile Benveniste che la metta a confronto con la negazione freudiana, “est qu’elle ne peut annuler que ce qui est énoncé, qu’elle doit poser explicitement pour supprimer”. Perciò è difficile che l’opera letteraria tralasci di cedere la parola al nemico, sia pure temporaneamente, tendenziosamente, indirettamente, ambiguamente; e poiché il discorso resterà nondimeno uno solo, in qualche modo ambiguo esso dovrà diventare per intero».[1]
È per questa potenza descrittiva del negativo che l’opera di Freud parla ancora alla teoria della letteratura. L’alternativa che si apre alla fine del Perturbante sulla configurazione dell’universo letterario opera per sottrazione: non è riducibile al ritorno del rimosso, non è soltanto ritorno del superato, ma è qualcos’altro, che tutti i poeti hanno a disposizione e che si dissolve non appena guardato fissamente. Il modello logico della negazione continua a offrire l’approssimazione più valida per parlare teoricamente di un mondo inafferrabile. Anche la Cultural Theory ha attinto a piene mani da questo modello, riempiendolo di contenuti che spesso non hanno niente a che fare né con la psicoanalisi, né con la linguistica, e nemmeno con la letteratura. Homi Bhabha ha usato il modello della negazione freudiana per configurare la sua teoria postcoloniale, abitata dagli ultimi, dai dimenticati espulsi da casa ma sempre dentro una casa. In questi luoghi dell’assenza in cui l’identità si dà solo perché non è definibile, la teoria si dimostra un demone incancellabile: «Voglio soffermarmi sui settori in trasformazione del dislocamento culturale – che mette in crisi i significati consolidati di cultura “nazionale” o di intellettuale “organico” – e chiedere quale potrebbe essere la funzione di una prospettiva teorica impegnata, una volta che l’ibridità culturale e storica del mondo postcoloniale sia stata assunta quale punto di partenza paradigmatico».[2]
Come Bhabha, in questo libro ho tentato di assumere l’ibridità come punto di osservazione, rendendola paradigmatica: l’ibridità del linguaggio e del mondo della malattia ha spalancato gli abissi di un linguaggio e di un mondo della letteratura che non sta nella realtà, non sta nella mente, ma si muove in uno spazio terzo: né l’uno, né l’altro. E come gli oggetti del suo libro, anche lo sguardo di Bhabha si espande per negazioni, in modo da osservare qualcosa solo muovendo gli occhi altrove: «né l’Uno», «né l’Altro», «ma qualcos’altro accanto a essi».[3] D’altronde, già un monumento della teoria post-coloniale da cui tanto Bhabha attinge, I dannati della terra, si chiudeva con un capitolo dedicato al rapporto tra colonialismo e malattie mentali, e non solo perché guerre e genocidi innescano psicosi di reazione, ma anche perché la condizione di rifiuto che la società moderna ha opposto all’essere nel mondo dei folli si è fondata sulla stesso processo di disumanizzazione del colonialismo in Africa: «Occorre ricordare comunque che il popolo colonizzato non è soltanto un popolo dominato. Sotto l’occupazione tedesca i francesi erano rimasti uomini. Sotto l’occupazione francese, i tedeschi sono rimasti uomini. In Algeria, non c’è soltanto la dominazione, ma alla lettera la decisione di non occupare, tutto sommato, se non un suolo. Gli algerini, le donne in haik, i palmeti e i cammelli formano il panorama, lo sfondo naturale della presenza umana francese. […] Poiché il colonialismo non si è limitato a spersonalizzare il colonizzato. Questa spersonalizzazione è risentita ugualmente sul piano collettivo al livello delle strutture sociali. Il popolo colonizzato si trova allora ridotto ad un insieme di individui che non traggono il loro fondamento se non dalla presenza del colonizzatore».[4]
Qualsiasi lettore di un testo letterario si muove in mondi negativi: né empirici, né mentali. Si tratta del contesto a cui è riferito il discorso letterario e che si manifesta continuamente nell’intollerabilità logica (in termini aristotelici) dei capisaldi di cui è fatta la letteratura: il pandeterminismo, la pansignificazione, la referenza alterata, la riconfigurazione di passato, presente e futuro, tutte le componenti di cui mi sono occupato in questo libro. Non è possibile credere fino in fondo alla coerenza autoreferenziale di un’opera, dal formalismo al decostruzionismo, perché la letteratura non smette di parlare della e di stare nella realtà, ma se si prova a tornare al mondo, ci accorgiamo che l’opera non gli somiglia così tanto, o meglio, somiglia e non somiglia, manifestando una tensione irrisolvibile perché non esiste referente al di fuori di quello che l’opera impone alla ricezione. Non è più possibile tornare a casa, perché il linguaggio letterario ha aperto un abisso che ha ingoiato per sempre la parola e il luogo casa, tanto fuori che dentro di noi. E Bhabha si serve simultaneamente delle categorie di negazione e di perturbante – unheimlich – per spiegare la negazione sottesa alla formazione unhomely, casa/non più casa.[5] In queste categorie ritrovo le fondamenta del libro che si sta concludendo:
In questa economia conflittuale del discorso coloniale che Edward Said (Said 1978, p. 237) descrive come la tensione fra la visione sincronica panottica del dominio – il bisogno di identità, di una stasi – e la pressione contraria della diacronia della storia – il mutamento, la differenza – l’imitazione rappresenta un compromesso ironico. Se posso adattare la formula di Samuel Weber circa la visione marginalizzante della castrazione (Weber 1973, p. 112), il mimetismo coloniale è il desiderio di un Altro riformato, riconoscibile come soggetto di una differenza che è quasi la stessa, ma non esattamente.[6]
Se riconosciamo che siamo parlati da condensazioni e spostamenti; se riconosciamo che il nostro linguaggio è metaforico e metonimico; se riconosciamo che siamo parlati dallo stesso mondo di cui parliamo, non possiamo rifiutare di concedere alla letteratura la «propria casa», il proprio «mondo». La letteratura parla la lingua del mondo da cui proviene, che è quasi la stessa, ma non esattamente della lingua dello psichico e della lingua della realtà: questo è il terzo referente in cui ogni lettore è calato quando accoglie un testo letterario.
L’oggetto letterario produce uno spazio referenziale perturbato e perturbante in cui il mondo esterno non scompare mai completamente, perché è in quel mondo che si creano relazioni di somiglianza tra oggetti e parole, ed è a quel mondo che poi il lettore le riferisce, ma dopo averle ricevute in una forma alterata, sempre necessaria e sempre significante. Attraverso uno scarto, una differenza, una stramberia, si dispiega il mondo del linguaggio letterario, quasi lo stesso, ma non esattamente.
Siamo abituati a guardare alla letteratura portandola automaticamente nel nostro mondo: leggiamo per conoscere epoche passate, per identificarci, per accogliere e per fare nostre esperienze lontanissime. In questo libro spero di aver dimostrato quanto la letteratura inverta anche e sempre questo rapporto, ospitando il lettore in una casa che somiglia e non somiglia alla sua. Siamo abituati a veder nascere e morire personaggi come se fossero individui di carne, ma riflettiamo abbastanza sulle conseguenze della condivisione di un mondo in cui tutto è già concluso e, anche, tutto continuerà per sempre? Il fantasma del padre di Amleto è già comparso due volte prima che il dramma abbia inizio. Ugolino divora e non divora per sempre i suoi figli, e per sempre rimarrà lì, in quella buca gelida della terra, avvinghiato al suo eterno nemico Ruggieri. Gregor sarà per sempre in dormiveglia in quel letto, terrorizzato non tanto dalla metamorfosi in scarafaggio, quanto dal cielo plumbeo, dalla sveglia, dal capoufficio, da suo padre. Se la letteratura parla continuamente del nostro mondo, anche ci accoglie continuamente nel suo.
Il percorso che mi ha consentito di accostare la psicosi alla letteratura si unisce e si biforca continuamente. La letteratura non si ripiega mai su sé stessa, ma postula l’infinita presenza di un destinatario. E la letteratura gli parla infinitamente, attraverso una lingua consueta e sconosciuta: non può riferirsi a nulla né suscitare alcuna emozione, se non nella realtà da cui proviene e verso cui continuamente tende. E il lettore si sorprenderebbe se per un attimo si guardasse, come fa Don Chisciotte, vivere nel testo, abbandonato nel delirio in cui ogni possibilità è impietrata nel buio.
Le vuote possibilità della letteratura
Nel delirio, come nel sogno, l’individuo realizza ciò che gli è stato rifiutato o ciò cui ha rinunciato, in modo più o meno cosciente, nella vita.
La psicopatologia affettiva rende più viva la psichiatria. Essa ci dà spesso la chiave di questi geroglifici che erano per noi fino ad allora i discorsi e i gesti dei malati, e inoltre ci apre nuove prospettive terapeutiche. Non c’è da sorprendersi che cerchi di interpretare dal suo punto di vista non solo il contenuto ideo-affettivo dei sintomi, ma anche la genesi della maggior parte dei disturbi mentali (concezioni psicoanalitiche).[7]
In questo breve passaggio tratto dal Tempo vissuto di Minkowski ritrovo le premesse, gli obiettivi e gli esiti di questo libro. Non c’è da sorprendersi che la teoria letteraria cerchi di interpretare dal proprio punto di vista contenuti e genesi dei disturbi mentali: la letteratura non è un percorso terapeutico, e questa riflessione teorica non ambiva alla totale identificazione di letteratura e delirio. La comparazione è nata da alcuni, diversi, elementi condivisi, e si è mossa in senso opposto rispetto alla ricerca scientifica e filosofica della psichiatria fenomenologica: il rapporto tra l’individuo e «quei geroglifici» che chiamiamo ancora letteratura non è mai stato tanto chiuso e oscuro come per l’universo dei disturbi psicotici; nondimeno, la prospettiva sul linguaggio e sul mondo della letteratura mirava a mettere in stato di allegoria le bizzarrie e le stranezze nella ricezione della significazione che l’individuo, per abitudine millenaria, non può che ignorare automaticamente. Riprendendo per l’ultima volta la formula di Coleridge, non è stata tanto la sospensione a interessarmi, quanto l’incredulità di una mente razionale a fronte del mondo letterario.[8] Le teorie psicopatologiche, psicoanalitiche e psicologiche che ho interrogato condividono lo sforzo di dare una casa a una significazione alterata della malattia. E così ho fatto a proposito di letteratura. Concluderò lasciando la parola a Minkowski e a Binswanger, e ad alcune loro riflessioni su quella malattia che entrambi chiamano ancora “malinconia”.
In Malinconia e mania di Binswanger ci sono tre passaggi sull’ossessione malinconica che dicono, involontariamente, moltissimo sulla condizione cognitiva di qualsiasi lettore di un testo letterario. Il primo passaggio parla delle vane possibilità del discorso malinconico: «L’autoaccusa melanconica si esprime linguisticamente quasi sempre in forma condizionale, come nei seguenti esempi: “Non avessi mai proposto la gita!”, oppure: “Se solo non l’avessi proposta (mio marito vivrebbe ancora e io sarei ancora felice e contenta di vivere e non avrei da muovermi alcun rimprovero ecc.)”».[9] Binswanger si sta riferendo al caso di una sua paziente afflitta da senso di colpa maniacale per la morte del marito, rimasto ucciso in un incidente ferroviario nel corso di una gita domenicale che era stata lei a organizzare: se solo non avesse proposto quella gita, questo il tema dell’ossessione malinconica, il marito sarebbe ancora vivo. Il pensiero, comprensibile e persino condivisibile, diventa ossessione quando la donna rivive incessantemente le possibilità di vita che le si sarebbero dischiuse se solo non avesse proposto la gita. Un discorso melanconico come questo, nota Binswanger sulla scorta di Husserl, Bergson e Minkowski, altera il rapporto tra i momenti intenzionali costitutivi e strutturanti l’oggettività temporale, collocando la protentio nella retentio e, di conseguenza, producendo un’oggettività temporale del «”futuro” vuoto o del “vuoto come futuro”».[10] Una protentio alterata e riferita alla retentio significa che le intenzioni che concernono azioni future, e dunque possibili, vengono inserite in un contesto finito – l’oggettività temporale del passato – e inadatto perché immodificabile: «La protentio risulta in tal modo indipendente, a sé stante, in quanto essa non ha più un tema, nulla che le rimanga da “produrre” […]. Se la libera possibilità si ritira nel passato o, a dir meglio, se la retentio si confonde con la protentio, non si giunge più a un tema vero e proprio, ma soltanto a una vana discussione».[11] Ovviamente il turbamento della protentio turba l’intero flusso del pensiero: «la retentio, infiltrata da momenti protentivi, permane alla mera possibilità: possibilità però che non appartiene a nulla, che non è protentio né retentio» ricadendo sul «presente tematico».[12]
Simile alterazione definisce la retrospezione melanconica che riguarda la sfera emotiva e psicologica del melanconico, ma che va sempre considerata assieme alla prospezione melanconica, il secondo passaggio che ci interessa del discorso di Binswanger. La prospezione riguarda il rapporto del melanconico con la realtà – non più, dunque, la sola sfera delle emozioni e dei pensieri– che Binswanger definisce anche «realtà melanconica del mondo».[13] Dal punto di vista della prospezione, l’alterazione dei momenti intenzionali permane ma a segno invertito, perché stavolta il mondo si presenta al melanconico con i caratteri dell’incrollabilità, come se fosse la retentio a invadere movimenti protentivi: «Lo dimostra la constatazione che il melanconico, come abbiamo visto, considera di regola la perdita non come imminente, ma come già accaduta. Quando i melanconici dicono: “So che domani apparirà sul giornale la mia vergogna, il mio delitto, il mio fallimento”; oppure: “So che domani sarò arrestato, messo alla berlina, allontanato dalla mia famiglia, dalla mia associazione professionale, dal mio paese ecc.”, tutto ciò non ha per loro solo il carattere della cosa ormai decisa, ma del fatto compiuto (fait accompli): ed esso rimane tale anche se smentito dalla “realtà”. Il melanconico, ripetiamo, “non si lascia convincere dai fatti”».[14] Il caso clinico di riferimento, stavolta, è quello di un paziente ossessionato dal rischio di fallimento della propria attività commerciale: Binswanger constata che, anche quando un simile rischio è scongiurato, la visione del mondo dell’ammalato continua a processare il futuro come già accaduto, a prescindere da qualsiasi effettivo accadimento.
Il terzo passaggio importante si colloca, in realtà, tra retrospezione e prospezione melanconica e riguarda il metodo lavoro di Minkowski, influenzato ancora da Bergson: «Come osserva lo stesso Minkowski, la sua indagine non si occupa del contenuto delirante, egli si chiede piuttosto: “Dove si produce la frattura (Zusammenbruch) fra lo psichismo del malato e il nostro?” Per rispondere a questa domanda pone il problema specifico della nozione di tempo (notion du temps) del malato, e lo risolve affermando […] che il futuro per lui è “sbarrato” (barré). Gli manca, per usare già una precisa espressione fenomenologica, “la protenzione verso il futuro”. Il suo atteggiamento è sostanzialmente quello di un condannato a morte».[15]
E siamo ritornati, attraversando Melanconia e mania, alla proposta di questo libro.
Qualsiasi testo letterario è finito, trascorso e compiuto all’atto della lettura: a prescindere da modi, generi o figure, e a prescindere da qualsiasi contenuto, il testo letterario è già accaduto altrove quando inizia la ricezione. Per usare le categorie di Binswanger, i momenti intenzionali costitutivi e strutturanti l’oggettività temporale del lettore sono sempre alterati, visto che retentio e protentio risultano invariabilmente infiltrate. Ciò non vuol dire che la letteratura sia identica al delirio, alla malinconia, all’ossessione, ma significa constatare che negli studi psicopatologici sul vissuto e sul tempo troviamo un metodo che consente di descrivere le condizioni esperienziali alterate del destinatario di qualsiasi testo letterario.
La retrospezione melanconica che si confronta con l’oggettività temporale del «futuro vuoto» è propria di qualsiasi destinatario della letteratura, perché qualsiasi testo, concluso nel momento della ricezione, può solo essere ricevuto nella prospettiva del possibile: la praesentatio di qualsiasi lettore è invariabilmente composta da una retentio infiltrata da spinte protentive. E quelle che a Binswanger appaiono «vane possibilità» descrivono una implicazione cognitiva decisiva nella ricezione letteraria, che mostra assonanze notevoli con le teorie sul «flusso temporale della lettura» di Iser, anch’esse di matrice fenomenologica.[16] D’altra parte, mi sono sforzato, quando questo libro era già finito, di trovare una definizione migliore di letteratura rispetto a «vuote possibilità»,[17] e non ci sono riuscito. Che cos’è più antieconomico e più libertario delle possibilità vane che la letteratura da secoli offre a chiunque voglia ascoltarla?
La prospezione melanconica, che per Biswanger influenza il rapporto del malato col mondo esterno, appare fondamentale per circoscrivere, per una teoria della letteratura, il mondo con cui qualsiasi destinatario di un testo deve confrontarsi nella prospettiva della costruzione dell’oggettività temporale: la realtà della letteratura è ancora sovrapponibile a quella del melanconico, perché si tratta di un contesto «incrollabile» in cui «ogni cosa è un fatto compiuto». All’inizio di questo libro, attraverso le categorie di Todorov e le pagine di Sartre, l’avevo definita una postura coattamente pandeterminista e invariabilmente pansignificante.
Ora, pandeterminismo e pansignificazione letterari svelano una costituzione malinconica: retrospezione e prospezione si adattano a definire il rapporto psichico e temporale che caratterizza qualsiasi destinatario di un testo letterario, così le ragioni che fondavano le somiglianze tra i discorsi di tanti pazienti schizofrenici e i discorsi della letteratura vengono a generalizzarsi. Al netto di qualsiasi sospensione di incredulità, un testo è sempre un oggetto finito, e le implicazioni di questa condizione non possono che alterarne la ricezione, sia dal punto di vista della comunicazione che in una prospettiva esperienziale.
Referenziale e autoreferenziale, agganciata alla realtà e immersa nelle emozioni, la letteratura è un modo di essere di un mondo che esiste in virtù di un’invenzione ricevuta come verità. Un mondo terzo in cui la rappresentazione della realtà si fonde con la realtà del senso, e di cui ciascuno può vivere, volontariamente, la grazia di fare esperienza.
Note
[1] Francesco Orlando, Risposte a un questionario, in Id., Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino, 1997, pp. 101-102. Di Benveniste, Orlando cita Probèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris, 1966, p. 84.
[2] Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura (1994), traduzione di Antonio Perri, Metelmi, Roma, 2006, p. 38.
[3] Ivi, p. 46.
[4] Frantz Fanon, I dannati della terra (1961), prefazione di Jean-Paul Sartre, a cura di Liliana Ellena, traduzione di Carlo Cignetti, Einaudi, Torino, 2007, p. 176 e p. 212.
[5] Sulle categorie di unhomeliness e homing si veda Tiziana de Rogatis, Homing/Ritrovarsi. Traumi e translinguismi delle migrazioni in Morante, Hoffman, Kristof, Scego e Lahiri, Edizioni Unistrasi, Siena, 2023 (in particolare pp. 41-72).
[6] Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 124. Di Said Bhabha cita la prima edizione originale di Orientalismo (Edward Said, Orientalism, Routledge & Kegan Paul, London, 1978), di Weber, Samuel Weber, The sidewshow, or: remarks on a canny moment, in «Modern Language Notes», vol. 88, n. 6, 1973, pp. 1102-1133.
[7] Eugène Minkowski, Il tempo vissuto, traduzione di Giuliana Terzian, Einaudi, Torino, 2004, p. 228.
[8] Per una rivalutazione teorica della formula di Coleridge si vedano: Eva Schaper, Fiction and the Suspension of Disbelief, in «British Journal of Aesthetics», n. 18, 1978, pp. 31-44; B.J. Rosebury, Fiction, Emotion and «Belief», in British Journal of Aesthetics, n. 19, 1979, pp. 120-130; Mary Jacobsen, Looking for Literary Space: The Willing Suspension of Disbelief Re-Visited, in «Research in the Teaching of English», vol. 16, n. 1, 1982, pp. 21-38; Marie-Laure Ryan, Fictions as a Logical, Ontological and Illocutionary Issue, in «Style», n. 18, 1984, pp. 121-139; Id., Possible Worlds, Artificial Intelligence, and Narrative Theory, Indiana University Press, Bloomington&Indianapolis, 1991.
[9] Ludwig Binswanger, Melanconia e mania. Studi fenomenologici, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, p. 32.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 36.
[13] Ivi, p. 47. Binswanger sottolinea la necessità di non confondere protentio e retentio con «prospezione» e «retrospezione»: «I termini prospezione e retrospezione (che usiamo solo allo scopo di creare un nesso con la comune concezione del tempo), intesi come aspetti parziali dello spazio-tempo (temps-espace), non vanno confusi con i termini di protentio e retentio, che indicano invece determinati atti intenzionali, costitutivi dell’oggettività temporale; essi si differenziano anche dal concetto bergsoniano della “durata vissuta” (durée vécue), antitetico allo spazio-tempo. Retentio, praesentatio e protentio non vanno intese, lo ripetiamo, come fenomeni isolati della temporalizzazione indipendenti l’uno dall’altro, ma come momenti della sintesi unitaria delle operazioni intenzionali, costitutive dell’oggettività temporale», in Biswanger, Melanconia e mania, cit., p. 45.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 42.
[16] Wolfgang Iser, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica (1976), il Mulino, Bologna, 1987, p. 172.
[17] Binswanger, Melanconia e mania, cit., p. 32.
[Immagine: Henry Fuseli, Amleto incontra lo spettro di suo padre, 1780-85].