di Alessandro Carrera e Benedetta Saglietti
[Presentiamo in anteprima la postfazione alla nuova edizione di Trasparenza di Maria Borio, scritta da Alessandro Carrera e dalla storica della musica Benedetta Saglietti, a cui si aggiunge la nota di Stefano Bechini. Il libro contiene link ai brani musicali di Elio Cagnizi tratti dalle poesie.]
Se esiste un sentimento della periferia, 1980 di Maria Borio lo incarna. L’Italia del Nord è, o si sta avviando, a essere una grande periferia. Rimane ancora una vaga idea di centro città, ma non appena lo si lascia la distinzione tra città e suburbia è quasi annullata. Nella poesia di Maria Borio questa periferia ha trovato un testimone. La musica riveste 1980 di un corpo sonoro lieve, come se osservasse i versi di Borio a qualche distanza, forse su una barca a remi, a pelo sull’acqua. Lievemente suoni e dita s’immergono ed emergono dall’acqua: in modo leggero, assolato, distaccato. Non sappiamo esattamente da dove chi scrive in poesia e chi in musica parlino. Anche se stanno osservando un mondo in cui è difficile sentirsi “a casa”, comunque non lo giudicano e non lo condannano. Il tubo catodico spezzato, in mezzo a un campo (pieno di altri rifiuti, supponiamo), è la perfetta immagine di una rottura anche epistemologica, di un’impossibile armonia tra paesaggio e abitanti. Se non fosse che quest’armonia si ricompone proprio nella sua perenne fragilità, nel suo mutare continuo, come la pelle di un serpente in un’infinita metamorfosi. «Allacciamo il tetto con il grano» è un verso significativo: indica la direzione verso un’utopia, futura o del tutto perduta. Per certo non lo sappiamo e né l’autrice né la musica lo rivelano.
Il rapporto fra l’immagine e il soggiornare su una terra letteralmente sbriciolata è pure al centro del brano Abitarsi (tratto dalla poesia Trovare): che, nondimeno, è più dell’abitare. Qui, le immagini prendono posto nell’aria, nel cielo, in uno spazio senza ulteriori definizioni, come un olio che si spande. È un abitare, certo, ma è solo quando si scopre la presenza di un “segno dentro” che diventa un “abitarsi”: dagli esseri umani alle cose, ai respiri, ai desideri, alle pulsazioni.
“Immagine” è la parola chiave in queste poesie di Maria Borio. In Amare liquido (brano tratto da Le forme che si allontanano dalla memoria…), anzi, le immagini vengono forzate a prendere una forma. Qui la musica si fa filigrana, arabesco, introspezione basata sull’essenzialità della chitarra acustica che, insieme a un vibrato degli archi, dà avvio alla canzone. Non c’è migliore esempio della zip, paragonata alla strada di una città, che passa attraverso molte epoche e molte archeologie. Poiché questo è “amore liquido”, la strada si fa fiume e il fiume si fa strada, in ogni senso: diventa una strada e trova una strada. Il fine che il brano vuole raggiungere è un rovesciamento lieve, discreto, come si rovescia un guanto, del dentro e del fuori. Il posto, qualunque esso sia, è “trasparente” nel brano omonimo. È un luogo interiore, proiettato però “intorno”. Qui, come altrove, In un sonno lunghissimo (brano tratto dalla poesia omonima), entrano in gioco nuove prospettive: mare aperto, luce, mattinate, finché il campo della visione, che fino a ora s’era tenuto per lo più in orizzontale (solo la zip ne modificava la vettorialità), ora si verticalizza. Da un lato verso il fondo del mare e dall’altro verso la cupola delle stelle.
I due brani in inglese, Aquatic Centre e Desert Red (da Dal deserto rosso), spostano ancora l’angolo dal quale l’occhio guarda. Forse perché quella lingua – in cui la stessa poetessa canta insieme al musicista – sembra promettere maggior concisione, o la possibilità di accumulare più significati nello stesso numero di sillabe, le forme si mescolano ancor di più e nei versi entrano allora oggetti, animali, termini che negli altri testi, probabilmente, non avrebbero potuto trovare posto. Nel sintagma «phenomenon of gaze» (fenomeno dello sguardo) è da cercare il significato ultimo di questa sequenza di poesie.
Si sviluppa, dunque, a partire dal caos della periferia, innalzato a caos dell’intera sfera dei quattro elementi, una nuova fenomenica dello sguardo. Non indica né un orizzonte né un punto di fuga. La sua vitalità è la confusione e, insieme, la sua mortalità. Il paesaggio è, allo stesso tempo, interiore ed esteriore, industriale e post industriale. La poesia contempla l’eterna precarietà della periferia: soprattutto è periferia dell’anima, senza che si percepisca odore di tubi di scappamento. Siamo immersi nel perenne ronzio di un’auto elettrica: dove passa, chiude la zip «che unisce la giacca al petto».
La musica riconduce gli otto testi alla loro potenziale verticalità. Ogni poesia, nel momento in cui è musicata, si fa un po’ bandiera di sé stessa, cominciando a parlare con un tono più elevato, anche se il musicista/cantante si guarda bene dall’alzar troppo la voce. Musicare in forma di canzone una poesia in verso libero, o quasi, senza l’aggancio preciso di rima e metrica, significa comunque in qualche modo forzarla, “squadrarla”, toglierle quella piccola anarchia del verso; eppure, questa piccola violenza regala alla poesia l’anarchia invisibile – perché ammantata da regole – e assai reale della musica. Dall’occorrenza dello sguardo si passa alla fenomenica del suono. Si tratta, in ogni caso, di “quel” suono, di “quegli” strumenti e “quella” voce, ben precisa. Il compositore ricava una performance, una e una sola, dalla molteplicità di voci che la poesia potrebbe ispirare. Altri musicherebbero gli stessi versi con risultati perfino opposti. In sintonia coi versi, pure la musica ha un sentore di periferia, di locali da ballo rimasti aperti dopo che tutti se ne sono andati, coi musicisti ciarlieri e rilassati. Adesso che non c’è più nessuno, possono finalmente suonare qualcosa a cui tengono davvero. Le regole, infine, si sfilacciano. Il verso, sotto il tallone della musica, torna a essere quello che era. Il suono si spande per le strade, quel tanto che basta, prima che qualcuno venga a dirci che è troppo tardi.
1980
La provincia si è riempita di case nuove.
C’è una felicità. Non eravate ancora nati.
Le case salde di coppie eternabili.
Pensavamo che si espandesse per gru altissime
e alberi trapiantati l’anello di catrame
che terminava nel campo e il campo sereno
come di fronte a uno spettacolo. Dici
non eravate ancora nati, ma esisteva una forma
su cantieri e famiglie: le radici che forzavano,
il catrame, le gru montate, i figli nati,
uno per uno un’automobile, la felicità
come pelle nutrita di un rettile.
Una primavera calda vi taglia adesso
fra le buste della spesa e i bulbi nel cellofan:
ci taglia dove dico guardate il campo con le rovine
delle immagini, il tubo catodico spezzato.
Nel suono fermo della televisione
le case indietro si sbriciolano nel video:
le tiriamo fuori, allacciamo il tetto con il grano.
Senza noi invecchiate come non fossimo nati –
miniatura finita, acqua ragia, ologrammi
dentro tutto il paesaggio.
[Immagine: Erieta Attali, Extension to the Finnish Parliament Building].