di Valentina Sturli

 

Il saggio di Sergio Zatti, Il narratore postumo. Confessione, conversione, vocazione nell’autobiografia occidentale (Quodlibet 2024), ha l’ambizione di attraversare la storia e gli snodi cruciali di un genere quant’altri mai stratificato. Il libro si articola in quattro parti: la prima affronta le narrazioni-archetipo, rispettivamente dell’antichità e dell’età moderna, di Agostino e Rousseau; la seconda percorre la rifondazione moderna del genere, con particolare riferimento alle questioni legate alla memoria; la terza prende in esame le declinazioni del racconto d’infanzia per articolarne una morfologia; la quarta si incentra su alcune autobiografie (e non solo) eccellenti: Dante, Petrarca, Tasso, Cellini, Vico, Alfieri, Joyce, Sartre, Woolf, de Beauvoir e Mary McCarthy.

 

Un testo con questo impianto non può non affrontare temi fondanti nella storia letteraria e culturale dell’Occidente; primo tra tutti proprio il senso della confessione, ovvero del racconto di sé da parte di una soggettività sempre in bilico tra occultamento e narcisismo, sincerità e menzogna, contrizione ed esibizionismo, come ci insegna l’esempio di Rousseau, ri-fondatore moderno del genere e non a caso, insieme ad Agostino, perno concettuale del saggio. Proprio con Rousseau, come si illustra nella prima parte, si rende evidente che l’autobiografia è il racconto di qualcosa di unico – la vita di un singolo nei suoi tormenti e nelle sue aspirazioni –, ma necessariamente intriso di topoi. Il che pone il nodo del rapporto con i modelli sia in dimensione diacronica che sincronica, rispetto alla tradizione ma anche al tempo personale e interiore dell’autobiografo, che oscilla tra (apparente) spontaneità e costruzione, tra singolarità e tradizione. Una tradizione che, a seconda di come la si intenda, può essere fondata, rifondata o decostruita.

 

Insieme a ‘confessione’, nel sottotitolo sono proposti al lettore altri due termini di evidente matrice religiosa, progressivamente laicizzati in età moderna: ‘conversione’ e ‘vocazione’. La prima, identificabile con quella che i greci chiamavano metànoia, rappresenta di una scissione rispetto a sé e al mondo esterno, dando forma al conflitto che è il suggello di ogni autobiografia: diventare se stessi trasformandosi, rinnegandosi, rinnovandosi. Tappa di passaggio obbligata è l’agon, la lotta per la messa in discussione di chi si era in precedenza. Così, ogni vocazione è prima di tutto una rilettura e una rottura rispetto al proprio passato: il momento della caduta è anche quello in cui si pongono le basi di una nuova soggettività, mentre l’evento è letto a posteriori con un meccanismo che somiglia alla freudiana nachträglichkeit. Ogni autobiografia letteraria si configura infatti anche, e forse soprattutto, come un percorso a ostacoli in cui ciascuna prova arriva al momento previsto per portare a compimento un destino di individuazione. Ma ogni autobiografia è anche laboratorio di self fashioning: si veda uno per tutti il capitolo dell’ascesa di Petrarca al Mont Ventoux, dove una precisa strategia di autorappresentazione mette in forma personali inquietudini, ma lo fa con il ricorso a topoi di lunghissima durata, uno per tutti l’apertio libri, cui Zatti restituisce nel saggio la centralità semantica che merita sin dal fondamentale tolle lege agostiniano.

 

Sulle tracce di questi elementi ricorrenti, di volta in volta familiarizzati, defamiliarizzati e reinventati, Zatti mette alla prova nel campo della scrittura autobiografica quel metodo delle costanti che lo avvicina agli studi di Francesco Orlando; questa prospettiva ermeneutica è per esempio applicata, nella terza parte del libro, alla costruzione di una vera e propria grammatica diacronica e intertestuale del ricordo d’infanzia: la nascita travagliata dell’eroe; la precoce orfanità; l’esperienza della malattia; il primo crimine; la vocazione avversata; l’isolamento intellettuale e sociale; l’esperienza simultanea dell’eros e della morte; la fine dell’innocenza come cacciata dal Paradiso. D’altra parte, se è vero che il diritto all’autobiografia si conquista ogni volta con un percorso di maturazione intellettuale e di mediazione con la tradizione, tutto questo deve essere poi calato in una dimensione storico-sociale che comporta varianti non trascurabili, prima tra tutte quella di classe.

 

Parlare del proprio passato porta anche inevitabilmente a riflettere sui processi di costruzione della memoria, di cui ampiamente tratta la seconda parte del libro, tenuto conto di un corpus di testi in cui è per lo più presente un’ottica bifocale, tra sguardo adulto e visione d’en bas. Prima ancora della psicoanalisi, la letteratura autobiografica ci mostra che l’io è una costruzione, e che ad essere se stessi (contro ogni tentazione di spontaneismo) si apprende. La questione dell’affidabilità della memoria viene tematizzata sin dalle riflessioni di Agostino: quando ci si confessa, si riesce davvero ad abbracciare tutto il necessario; che cosa siamo in rapporto al nostro passato e al nostro futuro? Noi siamo la memoria che abbiamo di noi stessi e degli eventi, ma siamo anche ciò che dimentichiamo e rimuoviamo. Se Freud ci insegna la natura frammentata dell’io, comprendiamo che nel nostro presente agiscono dinamiche formatesi nel passato più o meno remoto, e di cui abbiamo smarrito coscienza. Sappiamo anche che le memorie più importanti sono sovente quelle meglio celate, e che esiste un’angoscia dell’oblio come esiste un’angoscia del ricordare. In ogni caso, il rapporto con il nostro passato non è mai neutro, pena l’irrilevanza di noi stessi, il che pone la questione del legame tra memoria ed emozione, tra ricordo cosciente e pensiero infiltrato di quella che Matte Blanco avrebbe definito logica simmetrica, o logica dell’inconscio. Ma ancora prima della psicologia è la letteratura a metterci in guardia dall’authobiographical phallacy: non solo il ricordo è ingannevole, ma lo è anche la sua messa in forma letteraria, mentre il crinale tra autenticità e finzionalità può farsi a tratti incerto.

 

La storia dell’autobiografia, come illustra la quarta sezione del libro, dedicata all’analisi di alcuni esempi eccellenti, è legata alla storia della rappresentazione dell’io in letteratura: si pensi a come da confessione religiosa si passi nei secoli a tribunale della coscienza, agone in cui si sperimentano torture e conflitti, ma anche punizioni e rimorsi, e dove ogni soggettività può farsi insieme avvocato, giudice, accusato, spettatore, reo confesso e vittima di se medesima. Del resto, ogni autobiografia è anche una storia del rapporto dell’io con gli oggetti: è il caso di elementi apparentemente marginali, ma investiti di un senso esemplare, come le pere rubate dal giovane Agostino, il nastro trafugato da Jean-Jacques, gli scarponi a punta quadrata dello zio di Alfieri. L’oggetto può diventare un tormento della memoria, ma anche un suo valido alleato dal momento che trovando lui ritroviamo noi stessi. Questo vale a maggior ragione per i luoghi, e per quel percorso che dal Romanticismo in poi si definisce pellegrinaggio sentimentale, reale o immateriale che sia.

 

Il tutto avviene mediante un incessante lavorio di interpretazione e ricodificazione, in cui la memoria è un serbatoio da cui attingere fatti cui dare una forma prismatica man mano che cambia il racconto di sé. Nel Novecento si arriverà a mettere in discussione l’illusione retrospettiva, in virtù della quale si pensa all’esistenza come dotata un telos, portando al centro piuttosto la riflessione sui processi ingannevoli e almeno in parte viziati dell’emozione connessa alla rievocazione. Ma si rifletterà anche sull’impossibilità per ciascuno di noi di essere totalmente sincero, ancorché animato dalle migliori intenzioni: Freud che ci insegna che noi siamo abitati da un Altro, e che gran parte della nostra biografia è anche segretamente la sua. In un’epoca – come Zatti non manca di notare in alcune pagine dedicate ai social network – di autobiografismo di massa sempre più dilagante, ma anche sempre più frammentato, ripercorrere gli snodi cruciali dell’autobiografia occidentale può aiutarci a riflettere sulle forme assunte da una teleologia che deve esplicarsi, man mano che si avanza nei secoli, in assenza teologia. In questo senso l’autobiografia, nata con Agostino come genere dell’avvicinamento di sé a Dio mediante la messa in discussione del proprio passato, diventa il luogo di un progressivo divorzio da qualsiasi prospettiva trascendente, e di espansione di un io sempre più preda di desideri, aspirazioni ed angosce idiosincratiche.

 

[Immagine: Statua di Rousseau a Ginevra].

1 thought on “Su “Il narratore postumo” di Sergio Zatti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *