di Paola Giacomoni

 

Nel bel libro Contro il fanatismo, Amos Oz scrive che, soprattutto negli anni venti e trenta del secolo scorso, quando il nazionalismo prevaleva ovunque, gli Ebrei erano gli «unici europei d’Europa», erano «europei devoti», infatuati dell’Europa, dei suoi valori, della sua cultura e della sua storia, di cui hanno fatto parte per duemila anni. Gli unici a parlare molte lingue europee, gli unici a non avere per patria che l’Europa intera, al di là di ogni nazionalismo e di ogni appartenenza esclusiva. Gli Ebrei popolo europeo per antonomasia.

Questo spiega la difficoltà, oltre che la necessità della decisione ONU del 1948: un popolo che incarna i valori europei nella maniera più evidente e rientra in un contesto orientale che ha lasciato due millenni prima non avrebbe avuto vita facile. Tutti sapevano che sarebbe stato arduo, Herzl aveva pensato anche ad altre collocazioni, oltre alla Palestina, ma non si immaginava che la storia di Israele sarebbe stata segnata da conflitti continui, ma al contrario prevedeva che sarebbero finite per sempre le persecuzioni. Amos Oz racconta in maniera straordinaria in Storia d’amore e di tenebra quella incredibile notte del 29 novembre 1947, quando l’assemblea generale dell’Onu prese la decisione di istituire lo Stato di Israele scatenando l’esultanza e assieme lo sconcerto, il senso di cataclisma negli abitanti di Gerusalemme, che capirono, assieme alla gioia per la protezione che il loro stato avrebbe garantito, che niente sarebbe più stato come prima.

 

Mentre prima la convivenza tra i due popoli era sostanzialmente pacifica, legata alla quotidiana reciproca frequentazione, dopo quella grande svolta che divenne ufficiale il 14 maggio del 1948 e in linea di principio doveva garantire i diritti di entrambi i popoli, i legami di buon vicinato si interruppero bruscamente lacerando un ricco tessuto di relazioni, che non fu più sentito come tale. Gli Ebrei furono visti dai Palestinesi, come «extraterrestri giunti dallo spazio a sparpagliarci sulla loro terra, che pian piano abbiamo conquistato alcune sue parti» scrive ancora Amos Oz, che comprende le origini della loro rivolta e l’interruzione di ogni ulteriore convivenza.

Guardando l’altro, entrambe le due parti videro l’oppressore di un tempo: nella letteratura araba «l’ebreo israeliano è dipinto come un’estensione dell’Europa del passato: bianca, sofisticata, tirannica, colonizzatrice, crudele, senza cuore», mentre i Palestinesi vennero percepiti dagli Ebrei come dei «cosacchi da pogrom, dei nazisti coi baffi, abbronzati e con indosso la kefijah». Il conflitto tra due vittime, commenta Oz, che non riconoscono il comune oppressore: il colonialismo.

 

È questo infine che emerge dietro il conflitto di questi giorni: è il ruolo dell’Europa, con tutte le sue ambivalenze, ad essere in questione; il ruolo dell’Occidente, che a partire dal secondo dopoguerra si estende agli Stati Uniti. Siamo noi europei ad essere anzitutto percepiti, per la nostra storia, come sfruttatori e conquistatori senza scrupoli in quel conflitto in Palestina, come nel resto del mondo; è a noi che si pensa come nemico, di cui gli Usa sono il potente rappresentante in armi. Nonostante il ruolo non da protagonista giocato oggi dall’Unione Europea, è la nostra cultura e la nostra storia nella sua versione peggiore che Israele agli occhi dei popoli arabi rappresenta. Netanyahu lo ha anche detto, provocatoriamente: si batte per la civiltà giudaico cristiana, ricevendo da Macron la risposta che i suoi metodi barbari lo smentiscono. Questa immagine è in ogni caso è comune a molti altri popoli che sono stati nostre colonie: questo è il momento in cui, chi si sforza di costruire una cultura che non tradisca la propria storia, sente di doversi distinguere da quella europea, che rappresenta il cuore dell’Occidente, ciò da cui tutto è nato e da cui si vuole prendere congedo. In India come in Brasile, dopo essersi confrontati a lungo con la cultura europea, di cui si riconoscono i grandi meriti, ora molti, ad esempio con gli studi post-coloniali, sentono il bisogno di trovare una propria strada. Gli studi migliori e più avvertiti non sono anti-europei per principio, ma pensano che occorra riportare la cultura europea al suo contesto storico – “provincializzare l’Europa”, scrive ad esempio il grande storico indiano Dipesh Chakrabarty –  auspicando un dialogo paritario tra le culture del mondo. Dobbiamo pensare che si tratta di questioni irrilevanti, che la nostra civiltà non viene toccata da queste critiche?

 

Questi sono le questioni che sorgono da un conflitto che vede da un lato coloro che si sono sentiti i “veri Europei” ma che hanno ceduto con l’arroganza delle armi a una deriva fondamentalista, e dall’altra coloro che identificano la cultura europea con il colonialismo e con la decadenza di tutti i valori, a cui oppongono altrettanto fanatismo e altrettanto odio. Dobbiamo essere automaticamente per Israele in questo caso? Dobbiamo difendere l’Occidente a spada tratta in stile Meloni? L’Europa è una cosa complessa, non presenta certo solo la faccia colonialista, la sua cultura non è riducibile alla sua mentalità predatoria, ma occorre essere consapevoli che quello che noi rappresentiamo, e che rimane comunque il nostro prezioso patrimonio, costruito in secoli di storia, non è un canone valido per tutti, come invece abbiamo sempre pensato.

 

La cultura occidentale è chiamata oggi a cogliere l’occasione di un confronto con altre tradizioni e altri valori, senza per questo essere costretta a rinunciare alla propria eredità storica. Intraprendere un sano esercizio di relativismo che metta in discussione la propria unicità è ciò di cui c’è bisogno, senza per questo disperdere tutto l’enorme sforzo di comprensione universalistica – e dunque di emancipazione umana – e che è nella nostra vicenda e che non può certo essere identificato con la storia del capitalismo e del colonialismo, come qualcuno invece suggerisce.

 

Isaiah Berlin con grande acume ha osservato alcuni anni fa che la politica come costruzione di regole comuni comincia non tanto quando riconosco nell’altro un mio simile, ma al contrario quando in un certo senso “mi arrendo” alla sua radicale alterità. La politica acquista il suo senso proprio quando mi accorgo che l’altro è irriducibile alla mia opinione, alla mia scala di valori e avverto anche emotivamente una distanza abissale e non colmabile. È proprio quando riesco a non scambiare più l’altro per una versione “minore” di me stesso, da civilizzare e da educare, che comincio a capire che non è possibile ridurlo alle mie abitudini e ai miei criteri d’azione. Accettare l’alterità con tutto il peso della distanza e anche dell’estraneità significa anzitutto riconoscere come legittima una pluralità dei valori, l’impossibilità di riportarli al mio credo, a meno di non costringere l’altro ad accettare la mia come l’unica verità.

 

La strada che si aprirebbe a quel punto sarebbe quella di immaginare un modo per convivere rinunciando a ogni pretesa di assimilazione, a ogni sogno fusionario che, nonostante tutto, è sempre un sogno di conquista. Forse è questo che manca ai due popoli in lotta in Palestina, che non avvertono nella distanza il presupposto per la convivenza, che si sentono nemici mortali, ognuno in diverso modo portato a sbandierare una superiorità, tecnologica, culturale o morale. Chi si sente erede della cultura europea dovrebbe ricordare che l’Europa illuminista ha posto le basi soprattutto a questo: l’atteggiamento critico e autocritico, distante da ogni fondamentalismo. Ma il rumore delle armi in questi giorni, anche contro i presidi dell’ONU, sembra rendere vuote e inutili queste osservazioni. Possiamo solo stare ad osservare, sollecitando gli organismi internazionali, che appaiono tanto impotenti, ad agire invece con decisione.

 

[Immagine: Progetto Kaleidoscope, che raccoglie la voce dei giovani ebrei d’Europa].

1 thought on “Gli ebrei e l’Europa

  1. Osservazione a margine:
    Intanto, che negli anni venti e trenta gli ebrei fossero “gli unici europei d’Europa” non è niente più che un’affermazione del signor Amos Oz. Mi pare che ad esempio in Italia, prima del ’38, gli ebrei fascisti, dunque nazionalisti e in ogni caso non-europeisti, fossero ben rappresentati. Né mi pare che l’internazionalismo socialista fosse di matrice ebraica, a meno che non si voglia ridurre tutto il socialismo e il comunismo a un supposto “ebraismo” di Marx.
    Ma il punto non è quello. Il punto è: “gli unici”, e per di più gli unici ad occupare una posizione di eccellenza rispetto ai “gentili”, ciecamente e stupidamente nazionalisti oltre che somari per ignoranza delle lingue straniere.
    Unicità e eccellenza – su base prima ancora razziale che culturale, culturale perché razziale – è la mania fondante dell’ebraismo. Una vera pietra d’inciampo. D’altra parte gli ebrei stessi su questo fatto dell’unicità e eccellenza hanno riflettuto, ad esempio nella storia di Giuseppe, ma l’hanno poi risolto a modo loro.
    In questo senso, se criticare le politiche di assimilazione dell’Occidente può avere senso, ne ha molto meno, o niente affatto, parlando di Israele e dell’ebraismo in generale. Che non vuole proprio assimilare nessuno. Israele vuol sbattere fuori i palestinesi a calci, e l’ebraismo non può volersi assimilare i non-ebrei, perché qualora fossero assimilati, esso – l’ebraismo – perderebbe il suo unicum e dunque la sua ragione di esistere.
    In generale, e senza voler assimilare, penso che se nelle relazioni interculturali ci si basasse un po’ di più su una sana razionalità anziché su Libri Sacri del piffero sarebbe una gran cosa per tutti.

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