di Francesco Brancati e Antonio Galetta

 

Il 24 settembre 1991 i Nirvana pubblicarono Nevermind. Come tutti sanno, il passaggio da Bleach, primo album del gruppo uscito con Sub Pop nel 1989, a Nevermind ha coinciso con lo spostamento della band nella scuderia Geffen, una succursale della Universal. Nonostante la firma con una major, Kurt Cobain riteneva che quanto nel frattempo avveniva nel campo della musica indipendente americana potesse preservare le sue credenziali underground: i Sonic Youth erano sotto Geffen, e addirittura gli ex eroi del college rock. i R.E.M., erano stati scritturati dalla Warner. È una storia molto nota, fine inclusa.

Il 24 settembre di trentatré anni dopo Einaudi pubblica Pietà, esordio narrativo di Antonio Galetta. Il romanzo, finalista alla XXXVI edizione del Premio Calvino, è stato accolto in Unici, la collana dell’editore avviata nel febbraio 2022 con l’obiettivo di promuovere nuove voci del panorama narrativo contemporaneo. Per tanti versi la scrittura di Galetta nuova lo è davvero: Pietà è un romanzo corale che sfrutta a pieno strategie retoriche e modalità narrative non convenzionali, collocandole in una struttura invece abbastanza tradizionale, quasi da commedia umana ottocentesca. Un piccolo mondo contemporaneo descritto con pietà e rabbia. Come a dire, i Beatles + l’etica diy del punk rock = Radio Friendly Unit Shifter.

Quando non è in tour per promuovere il suo libro Galetta vive tra Pisa e Parigi, scrive e fa quelle altre cose che solitamente fanno gli scrittori di venti o trent’anni per vivere e scrivere. Ci vediamo su Meet in una mattina di sabato inammissibilmente autunnale per parlare di Pietà e degli aspetti del libro che più mi hanno colpito.

 

FB Pietà è un romanzo che narra i destini individuali di una serie di persone durante una campagna elettorale in un imprecisato paesino del Sud Italia (chiamato sempre «il nostro piccolo paese»). Per gran parte della narrazione i personaggi non hanno un nome proprio e ci si riferisce a loro con epiteti come «uno di noi», «una di loro», «la donna che ci tradirà», eccetera. A parlare è una prima persona plurale, un «noi» che si dimostra quasi sempre informato sui fatti. «Noi» non si limita a descrivere le azioni compiute dai personaggi, bensì conosce i motivi psicologici che li spingono ad agire, è – a suo modo – un narratore quasi onnisciente. Allo stesso tempo il «noi» esprime un’idea di comunità, uno spazio sociale e geografico dai confini perimetrati. È ovvio che ciascun «noi» presuppone un «loro», una parte della realtà destinata a non fare parte della dinamica relazionale di un gruppo che si identifica come «noi». Per tanti versi, potremmo dire, lo sviluppo dell’occidente si è fondato su tale dicotomia. In Pietà, però, questo «noi» subisce un’evoluzione…

 

AG La voce che racconta Pietà, lungo il romanzo, a forza di contrapporre «noi» e «loro» scopre che un vero «loro» non c’è: noi politici del nostro piccolo paese tende a diventare noi che viviamo in questo momento sul pianeta, mentre al cinismo subentra lo sbigottimento e il contesto locale si rivela inseparabile dal mondo che c’è intorno. In un certo senso il protagonista del mio romanzo non è il Sud d’Italia, né la provincia, né la politica: è la realtà. Ma di questo mi sono accorto solo a cose fatte.

Lì per lì sentivo soltanto di dover cominciare parlando della provincia in cui sono cresciuto, raccontarla con precisione e senza cinismo, e di dover finire cercando di esprimere insieme la tenerezza e lo scandalo di quel modo di vita. Oggi invece il noi narrante me lo spiego anzitutto così, come il mio tentativo di esprimere insieme, con la stessa voce vivente, due fatti contraddittori e compresenti: che in un’epoca di individualismo sfrenato, di capitalismo selvaggio, di consumismo acritico, ognuno pensa anzitutto a interessi privati o di corporazione… eppure, tragicamente, siamo al contempo tutti sulla stessa barca.

 

FB Ragionare nei termini di una contrapposizione «noi»/«loro» è anche una forma di pensiero tipica del Sud Italia e Pietà è un libro meridionalissimo dal momento che la prima persona plurale serve a trasmettere il mormorio continuo e indicibile del «nostro piccolo paese»; sotto questo punto di vista, mi piace guardare a «noi» come a un’evoluzione intossicata dall’Ilva dell’indiretto libero verghiano. Credo che oggi parlare di Sud e farlo senza cadere negli stereotipi del bozzetto paesaggistico aggiornato alla Camorra sia molto difficile e per tanti versi impossibile. Raccontare la storia del Sud Italia presuppone innanzitutto l’operazione di ricollocare un determinato spazio geografico, storico e culturale nel continuum che fa di esso una parte del mondo contemporaneo e non un altrove dai contorni confusamente esotici. Trasformare la descrizione del diorama nella metafora del pianeta e dei suoi abitanti. Tu infatti tieni a specificare che la Xylella che deturpa gli ulivi intorno al piccolo paese è un batterio che proviene dal mondo. Ma contemporaneamente la donna che ci tradirà imposta la campagna del suo partito, Contro-Riace, facendo leva sul sentimento di paura che accompagna lo straniero ed esclude chi non fa parte della comunità.

 

AG A metà ottobre sono tornato in Puglia per qualche giorno: c’erano moltissime mosche, come fosse stato ancora agosto. Una cosa del genere (in apparenza del tutto insignificante) non è mai successa ad autunno così inoltrato, e questo perché il caldo che cresce nella mia regione è lo stesso di tutto il pianeta.

La Xylella fastidiosa invece ha devastato in pochi anni un paesaggio millenario che io stesso, crescendo, ho creduto immortale. Così mi sono reso conto che da bambino credevo in due tipi di immortalità: una era quella promessa da Gesù, che se n’era andato e sarebbe tornato, l’altra era quella implicita nel paesaggio, che esisteva da sempre uguale a sé stesso e non poteva cambiare. Invece il paesaggio è cambiato, sta cambiando, è morto o sta morendo, a causa di un batterio che è arrivato da un altro continente. Ora: la perdita della fede nell’immortalità religiosa è una possibilità vecchia quanto la modernità, e ci si convive anche fieramente; ma la perdita della fede nell’immortalità del paesaggio è nuova e spaventosa, e mette profondamente in discussione ogni aspetto della nostra forma di vita.

Se quotidianamente si testimoniano senza volerlo evidenze come queste, come si può ancora parlare di un Sud (anzitutto o soltanto) pittoresco, isolato, esotico, subalterno, brutale, macchiettistico?

Dietro il modo in cui ho scritto non ci sono ragionamenti particolari: solo una vita vissuta che faticava a essere compresa ed espressa, e chiedeva perciò di inventarsi un linguaggio nuovo.

 

FB Nel libro è centrale il concetto di pietà. Ciascun personaggio sperimenta una sua personale declinazione del sentimento. Ho trovato molto bella questa tua esigenza narrativa, che sento anche mia. La pietà viene tuttavia trasmessa al lettore attraverso la mediazione del «noi», un’entità che si presenta imperscrutabile e tetragona a qualsiasi passione umana, fuorché il potere. Perché hai sentito di voler descrivere le varie sfumature della pietà e che funzione ha il «noi» (in questo caso, capovolgendo la prospettiva, direi l’esterno) rispetto a una condizione che i personaggi sperimentano e vivono nel loro privato?

 

AG Un romanzo non è una conferenza. Contraddirsi, in un romanzo, è buona educazione. Ragioni e torti li decide il lettore, e per questo moltiplicare le accezioni di «pietà» è stato un gesto naturale.

Posso dirti che per me questa parola indica una tensione vivente capace di trasformare l’egoismo in amore, ma nel romanzo c’è tutto e il contrario di tutto: il personaggio del prete dà una lettura religiosa della pietà, mentre la donna che ci tradirà pensa – come molti politici e cittadini – che la pietà sia niente di più che un codice culturale come un altro, e su questa idea (sulla convinzione che non possiamo amare chi è troppo diverso da noi) fonda il proprio razzismo, che poi diventa un programma politico esplicito.

Per dire cos’è la pietà dal mio punto di vista, come vedi, ho impiegato solo poche parole; ma per provare a esprimere cosa questa parola indichi oggi per la società di cui faccio parte, per invitare il lettore a pronunciarsi su questo stesso sentimento – anche per questo ho scritto un romanzo.

 

FB A me sembra che accanto alla pietà spesso prenda largo, sottotraccia, un istinto di rabbia. Soffocata e resa impotente dall’immutabilità dello stato di cose e dal ripetersi identico della «vita che amministriamo». Però presente, tenace, necessaria. Uno dei personaggi del romanzo, il fondatore di Casa Dolce Casa, imposta la sua campagna elettorale sull’idea di fare rientrare nel piccolo paese i figli che sono andati via. La figlia di una di loro (la barista della piazza dove si svolgerà il comizio che concluderà la campagna elettorale) è una fuorisede che studia in «una città né grande né piccola, nel Centro-Nord della nazione». Sono queste le figure che sembrano opporsi al punto di vista veicolato dalla prima persona plurale, implicitamente condiviso da quasi tutti gli altri personaggi. Nella loro rappresentazione a me è sembrato di scorgere le tracce di un’autorialità, come se il messaggio civile che lo scrittore Antonio Galetta intendeva trasmettere avesse bisogno di un appoggio interno all’intreccio per esprimere il suo punto di vista. In tempi di autofiction e di storie costruite sul modello autobiografico, del resto, tu decidi di esordire con un romanzo corale…

 

AG Amo l’autobiografia, ma credo che oggi più che espandere l’Io sia necessario problematizzare l’Altro. Il che, almeno per me, equivale a guardare a sé stessi e alla propria esperienza come a una tra le cose del mondo, la più vicina ma non per forza (quasi mai) la più importante, e intanto incanalare ispirazione e studio nella convenzionalità della forma letteraria, scrivendo per amore di ciò che non siamo e ci riguarda: per amore delle cose e della realtà.

L’impressione che alcuni personaggi esprimano il mio punto di vista, per esempio, mi è stata riferita anche da altri lettori, che però la attribuivano ad altri personaggi. Questo mi rassicura, forse vuol dire che il romanzo è corale per davvero. Ma il fatto è che in Pietà non ci sono buoni. Il fondatore di CdC esprime idee che magari potrei anche sottoscrivere, ma allo stesso tempo è un pescecane egoista capace di grande crudeltà; la fuorisede ha tratti emotivi e caratteriali che forse sono anche miei, ma traffica col voto di scambio e alla fine sottostà impoliticamente ai rapporti di potere che ci sono nel paese.

Pietà è un romanzo sull’utopia, non sull’impotenza. L’accento non cade su quanto è frustrante che certi bei pensieri restino irrealizzati, ma su quanto è meraviglioso che quei pensieri così ingenui e così necessari esistano, e quanto è struggente che non li si possa incontrare se non indistricabili dalle nostre contraddizioni. La rabbia di cui parlavi è un punto di partenza, e occupa il posto della rassegnazione. Perché la letteratura, secondo me, serve a conoscere i problemi del mondo, a esplorarli con una pienezza che nella vita non si manifesta mai: non a dare ricette per risolverli, né a parlare d’altro.

 

FB In Pietà fai ricorso a un linguaggio concreto eppure lirico. Infrangendo a volte la coerenza della voce che parla, impieghi descrizioni e similitudini che trasmettono il senso di desolazione, disfatta e bellezza che assilla un paese di provincia nell’era dell’antropocene. Il «noi» e la donna che ci tradirà veicolano l’idea che lingua e linguaggio sono strumenti per raggiungere e accrescere il potere, impiegano la retorica tipica della classe politica per ingannare il proprio elettorato e raggiungere i loro scopi («Ogni uomo è una menzogna, per il parlaparla, e la menzogna copre una verità piuttosto squallida»). Credo non sia intenzionale ma il romanzo si presta a una riflessione sulla natura finzionale e però necessaria di ogni linguaggio, e di quello letterario in particolare.

 

AG Balzac – autore di un centinaio di romanzi – ha scritto due frasi che per me dicono tutto ciò che è importante dire sul linguaggio. La prima: «La felicità consiste nel poter dire ogni cosa con la certezza di essere compresi». La seconda: «Chi può dire, veramente, di essere mai stato compreso da qualcuno?» (cito a memoria).

Il linguaggio può esprimerci con esattezza, e insieme si presta a infiniti fraintendimenti. Questa tragedia vale anche per la letteratura e per la politica.

Provo a spiegarmi con un esempio. Alessandro Baricco, ospite a Che tempo che fa a gennaio 2024, parlando del rapporto tra le parole e le cose ha detto: «La narrazione è una parte della realtà. La realtà è fatta di fatti e narrazione. Un fatto senza una narrazione non esiste. Una narrazione senza un fatto è arte. La narrazione non è una cosa esterna alla realtà che poi tu aggiungi. Prendi la realtà, sfila via i fatti: quello che resta è narrazione». Fabio Fazio gli ha obiettato che «però la politica usa la narrazione in modo molto cinico», e Baricco ha risposto che sostanzialmente fa bene, perché «il mestiere giusto» e «l’approccio più sensato» consistono – nelle parole così candidamente berlusconiane di Matteo Renzi – nel preferire una narrazione «non vera ma efficace» alla realtà dei fatti (realtà che evidentemente, a questo punto, non esiste).

 

Per me si tratta di un’opinione mostruosa, che peraltro si smonta in un istante: come faccio a sfilare i fatti dalla realtà, se i fatti senza le narrazioni non esistono? Questa posizione, a sua volta «non vera ma efficace», esprime allora il punto di vista (spesso implicito) di quella politica e di quella letteratura che più trovo detestabili. Perché la «natura finzionale di ogni linguaggio», come dici, potrà anche essere una verità sul piano teorico… ma smontare le retoriche, e distinguere le tragedie dalle colpe, e preferire il senso al consenso, è una responsabilità civile prima che artistica o intellettuale. E una «narrazione senza un fatto» potrà senz’altro essere arte, ma molto più spesso è – è stata, sarà – una menzogna, un’ideologia, un modo per rendere la malafede la prima forza agente del mondo, naturalmente al servizio di una volontà di potenza che in qualche modo va giustificata.

La letteratura in cui credo penso sia importante anche perché rovescia questa ambiguità in pregnanza, e all’uso cinico che la politica fa delle narrazioni (all’uso opportunistico che ne fanno alcuni autori) contrappone un uso che non saprei definire se non come «pietoso», nel senso di «carico di pietà». Chi è stato Balzac? Quello che con cento romanzi è riuscito a esprimersi, o quello che nemmeno in cento romanzi ce l’ha fatta? Sono domande irrilevanti. Qualsiasi cosa sia stato Balzac, quella cosa, qualunque sia, è nelle sue opere, presente, precisa e fraintendibile, insieme a tutte le retoriche della sua epoca, quelle in cui credeva come quelle contro cui concretamente lottava. Tutto questo è pietoso perché nel dipingerci, nel dirci chi siamo, la letteratura ci ridimensiona e ci rimette in prospettiva, gli uni accanto agli altri, diversi e compresenti.

 

FB Hai citato George Eliot quale principale ispiratore formale del tuo romanzo, una citazione da Middlemarch inaugura la terza parte; tuttavia la domanda che voglio farti, sia perché penso sia rilevante per gli scrittori italiani degli ultimi venti anni, sia con specifico riferimento a Pietà (Lenore…) è: David Foster Wallace o Roberto Bolaño, e perché Bolaño?

 

AG Con Bolaño e Wallace sono letteralmente cresciuto, ma oggi li guardo con amore e distacco.

Wallace, a lungo andare, credo stesse virando dall’invenzione sfrenata, largamente derivativa eppure così personale dei grandi romanzi (che amo tuttora) verso un realismo psicologico, ossessivo ed elegiaco, che per quanto potente mi è sempre sembrato un vicolo cieco. Leggevo Good Old Neon e pensavo: stupendo, terribile e vero, ma io questi problemi devo riuscire a non pormeli; non li voglio ignorare, non posso, ma fin quando possibile voglio dargli le spalle, guardare anche il mondo che loro nascondono.

Bolaño invece è importante, per me, soprattutto per come ha saputo dire (dirmi) che il male è mondano, storico, persino fisiologico, e allo stesso tempo quasi del tutto imperscrutabile. Ma le sue ossessioni metaletterarie e post-avanguardistiche mi parlano oggi molto meno che in passato.

A un certo punto, non so perché, ho iniziato a sentire che non c’è dolore tanto grande da non entrare in un romanzo, e che l’originalità è un valore quando gioca con gusti di lettura condivisi da molti. Così mi sono concentrato – per esempio – su Thomas Pynchon, e di lì sono arrivato a George Eliot e altri.

Eppure Bolaño resta uno degli scrittori a cui voglio più bene.

Nel 2016, appena iniziata l’università, tradussi per mio gusto La Universidad Desconocida, cioè le sue poesie all’epoca inedite in italiano, e lì trovai un verso di quando Bolaño viveva da solo, non aveva soldi e scriveva molto poco: «Lo que aún no tiene forma me protegerá».

Ci pensavo, a diciott’anni, mentre a mia volta non riuscivo a scrivere, e mi sembrava una colpa essermene andato di casa e non star scrivendo niente, e pensarci era triste, dolce, ingenuo e necessario: «Ciò che ancora non ha forma mi proteggerà».

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