di Antonio Tricomi

 

«Conoscere le infamie di tutti i totalitarismi, compreso il totalitarismo comunista, è fondamentale per radicare fra i giovani la cultura della democrazia, della libertà e del primato della persona». Così ha scritto sabato scorso, in un post pubblicato su X in occasione del trentacinquesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara. Che ha in tal modo ribadito sia un luogo comune sul quale anche solo chi abbia letto Hannah Arendt avrebbe parecchio da eccepire, ossia la natura tout court totalitaria del comunismo, sia l’ancoraggio, suo e del governo cui appartiene, alla tradizione della democrazia liberale. A una cultura che ha storicamente trovato i propri capisaldi in autori quali Locke, Montesquieu, Smith, Tocqueville.

 

Qualche giorno prima, però, era stata resa pubblica la notizia del provvedimento disciplinare emesso – in piena autonomia, ha successivamente precisato il Ministro – dall’informatissimo e scrupoloso Ufficio Scolastico Regionale del Lazio a carico di Christian Raimo, sospeso dall’insegnamento per tre mesi, durante i quali egli si vedrà anche decurtato lo stipendio del cinquanta percento e ai suoi studenti – con più di qualche potenziale inconveniente per l’ordinato svolgimento delle attività didattiche programmate per loro dal titolare della cattedra – sarà incaricato di fare lezione un sostituto. La colpa del docente e scrittore? Aver criticato Valditara nel corso di una Festa nazionale di partito, quella di Alleanza Verdi e Sinistra. Qualcosa allora non torna. Si tratta infatti di una sanzione incompatibile con qualsivoglia anche nebuloso orizzonte liberale che un esecutivo, determinato a rimanere coi piedi ben piantati in un magari accidentato territorio democratico, intenda sinceramente e credibilmente rivendicare come proprio.

 

Stiamo alle categorie concettuali richiamate da Valditara stesso nel suo succitato post. Raimo è senza dubbio una persona, quindi le sue libertà, inclusa quella di opinione, dovrebbero essere inderogabilmente salvaguardate, perché questo chiede, per conservarsi, la pratica della democrazia. Da privato cittadino, ed esercitando il diritto-dovere di partecipare alla vita politica del suo Paese, cioè di contribuire a mantenerne in salute le logiche e la prassi democratiche, egli ha legittimamente formulato in pubblico una valutazione, squisitamente politica, che si può condividere oppure no, sia nei toni sia nei contenuti (devo esser sincero: non m’è parsa, in tutti i sensi, nulla di che), ma che può essere accusata di illiceità solo qualora offenda la dignità di qualche individuo. Se le parole di Raimo questo hanno fatto, ossia hanno oltraggiato la persona di Valditara, perché costui non ha scelto di querelarlo per diffamazione? L’autorità competente si sarebbe prima o poi pronunciata in merito a tale denuncia, così come un tribunale, quello di Ravenna, ritenendone «un’allegoria» l’intero ragionamento inquisito, ha recentemente assolto Pier Luigi Bersani dall’accusa di diffamazione nei confronti dell’eurodeputato della Lega Roberto Vannacci, definito un «coglione» dall’ex parlamentare sia nel corso di un’intervista durante la Festa dell’Unità di Ravenna del settembre 2023, sia in una successiva intervista televisiva.

 

Raimo, che non aveva espresso il suo punto di vista in qualità di insegnante né, tantomeno, mentre si trovava in servizio a scuola, è stato invece colpito da un provvedimento disciplinare riservatogli in quanto professore. In altri termini, giacché specialista accusato di aver violato il codice deontologico della propria professione. Il che è come dire: un individuo che per mestiere sia un insegnante è al lavoro ventiquattro ore su ventiquattro. Qualsiasi cosa pensi o faccia, dica o scriva nel corso delle sue giornate, la pensa o fa, la dice o scrive da docente e perché docente. Dunque non si dà, per lui, la possibilità di scindere la propria persona dal proprio impiego, e anzi la prima a tal punto dipende dal secondo da finire con l’identificarvisi a pieno. Interpretazione totalizzante, o verrebbe da dire totalitaria, del ruolo del lavoro nel definire l’intero spazio della soggettività, se non altro di chi insegna a scuola, che sembra discendere, più che dalla dottrina liberale, da quella sovietica.

 

Non solo. In un’ottica simile, l’insegnante non deve essere un intellettuale che anzitutto con l’esempio, e quindi dando mostra di libero pensiero critico e autocritico, educhi le nuove leve all’esercizio del libero pensiero critico e autocritico, in un ambiente sociale, la scuola, da giudicarsi il pilastro di una democrazia intesa quale convivenza, conflitto, ibridazione di una pluralità di orientamenti culturali e di valori la cui legittimità trovi nei principi costituzionali l’unico limite invalicabile. Invece, egli deve sì considerarsi un lavoratore che percepisce dallo Stato il proprio salario e però, più nello specifico, il dipendente neanche di un particolare Ministero, ma dell’individuo cui sia affidato, di volta in volta, quel dicastero, se non condividere l’operato e le idee politiche di quest’ultimo equivale a dileggiare un’istituzione repubblicana, meritandosi di esserne punito. Personalizzazione del potere sovrano e, tanto più, concezione padronale del bene comune e delle sue articolazioni istituzionali che, ancora una volta, non sembrano esattamente attenersi alla lezione di Montesquieu, ma tradiscono, semmai, una sorta di fascinazione staliniana.

 

Tra l’altro, Raimo è stato sanzionato – e come lui ogni docente di qui in avanti potrebbe per lo stesso motivo ugualmente esserlo, ma siamo tutti certi di no, altrimenti si giungerebbe alla fosca attualizzazione del celeberrimo slogan caro alle defunte brigate rosse: «colpirne uno per educarne cento» – perché non ha rispettato, secondo chi l’ha punito, la posizione di assoluta imparzialità supposta essere consustanziale a quanti esercitano il mestiere di insegnante sia quando essi dialoghino, in un’aula, con i loro allievi, sia quando, al di fuori della scuola, ambiscano a vivere il proprio tempo. Come se in ambito culturale, e – di riflesso – in campo educativo, realmente esistesse quella neutralità promossa a pregio inderogabile da un Ministero dell’Istruzione e del Merito che ha tuttavia nei mesi scorsi elaborato, per esempio, un nuovo curriculo di Educazione civica incline ad esaltare da prospettiva – a voler essere generici – conservatrice, o comunque per nulla super partes, alcuni principi e valori (la proprietà privata, il sentimento nazionale, la patria) celebrati sì dalla nostra carta costituzionale ma in ben altra ottica, chiaramente socialdemocratica.

 

Viene di conseguenza il sospetto che a un docente sia chiesto – o si dovrebbe forse dire: sia intimato? – di interiorizzare una totale subalternità ai paradigmi politico-culturali via via considerati gli unici leciti da un Ministero dell’Istruzione e del Merito pronto poi a presentare – anche e soprattutto all’opinione pubblica – un simile atteggiamento servile come la postura di necessaria equanimità deontologicamente prevista per chi svolga la professione di insegnante. Sicché c’è quasi da domandarsi, ma solo per il gusto della facile provocazione: poiché tramite il voto si esprime il proprio consenso alla proposta politica che si decide di preferire ma, non meno, il proprio dissenso dalle proposte politiche che si sceglie di avversare, e poiché non esiste rito più intrinsecamente pubblico di una tornata elettorale, possiamo essere rassicurati sul fatto che, in caso di trionfo delle forze già al governo, nessun Ufficio Scolastico Regionale sanzionerà, all’indomani di future elezioni politiche nazionali, i docenti che ammettano di non essersi schierati, nel segreto dell’urna, con i vincitori, così esprimendo un’implicita critica anche al Ministro dell’Istruzione e del Merito uscente?

 

Quando, da docente di Lingua e letteratura italiana, insegno ai miei studenti di prima o seconda classe delle superiori come svolgere un testo argomentativo, chiedo loro di cimentarsi sempre nel medesimo esercizio: su una questione di varia natura, comunicarmi il proprio punto di vista, affinché io possa poi invitarli a costruire una catena di argomentazioni logiche che dimostri – fatto salvo il rispetto di quanto previsto dalla costituzione – la validità socioculturale non della propria tesi, ma della tesi opposta. È il mio modo, credo liberale, di educare i ragazzi alla democrazia, terreno d’incontro tra persone come spero anch’essi possano diventare: tra individui ognuno dei quali chiamato, nel confronto dialettico con gli altri, ad avere idee proprie e a saperle spiegare e difendere al meglio, ma mai pregiudizialmente e mostrandosi sempre disponibile a rettificarle del tutto o in parte, se persuaso a farlo dalle altrui tesi. E poiché mi auguro che questo genere di cittadino ogni mio allievo voglia imparare ad essere, tale tipo di interlocutore non culturalmente neutro, e per ciò stesso rispettoso della non neutralità culturale altrui, io per primo cerco di rivelarmi, fuori da quell’ipocrita o subdola postura di imparzialità che talora rappresenta la più raffinata forma di esercizio del potere.

 

Temo che l’affaire Raimo mi sorprenda in errore e sveli colpevole questa mia passione per il pluralismo delle idee. E se fin qui mi è andata bene, d’ora in poi dovrei piuttosto sforzarmi di risultare culturalmente asettico ai miei studenti qualunque argomento mi capiti di trattare con loro: ad esempio, per la gioia di non pochi fra gli attuali eletti in Parlamento e di molti fra quanti li hanno votati, quel fascismo che pure, giacché italiani, saremmo patriotticamente richiesti di non considerare con atteggiamento né eticamente né politicamente neutro da una costituzione, la nostra, strutturalmente antifascista e non, tanto per dire, esplicitamente anticomunista. Ovvietà, quest’ultima, che non si è voluta qui ribadire per caso.

 

Per quanto detto più sopra, la peculiare specie di impostazione avalutativa che dovrei conferire al mio insegnamento, lungi dall’essere weberiana garanzia di una sua qualche scientificità, mi renderebbe infatti strumento di legittimazione e propagazione della precipua idea di società e di mondo propria del governo in carica, propenso, non troppo diversamente dagli altri succedutisi nella storia repubblicana, a pensare la scuola come il luogo da privilegiarsi in ogni tentativo di costruzione di qualsivoglia egemonia politica di lunga durata. D’altro canto, come mi è già capitato una volta di osservare, Gramsci, ormai, lo leggono più a destra che a sinistra. Ragion per cui, anche rispetto alla maniera di concepire il senso socio-culturale e gli obiettivi etico-civili della formazione delle nuove leve, l’odierno esecutivo dimostra maggiore affinità con uno storico nemico giurato, che non con il pensiero liberale. Già sul finire degli anni Venti del secolo scorso, anche in virtù della riflessione di Nadežda Konstantinovna Krupskaja, moglie di Lenin e tra i più influenti ideologi nella definizione di un sistema educativo sovietico, quest’ultimo risultava lucidamente sviluppato e quanto mai efficiente nel proprio imporsi per meta la costruzione non di generici individui, ma di consapevoli comunisti.

 

Cerchiamo ulteriore riparo nella boutade. Se ne potrebbe quasi quasi ricavare che i loro avversari politici dovrebbero dunque piantarla di gridare al fascismo contro gli esponenti più in vista dell’attuale destra italiana, pronti magari a sdegnarsi in pubblico di ricevere una simile offesa, ma che hanno la faccia di chi in segreto se ne compiace, nella giusta convinzione che, pur di certo non essendolo, apparirlo, fascisti, di questi tempi consenso senza alcun dubbio non ne toglie. Forse l’accusa che la sinistra dovrebbe semmai cominciare a muovere ai suoi rivali, se vuole davvero ferirli non soltanto nell’orgoglio ma anche dal punto di vista elettorale, in un Paese smemorato come l’Italia, è che, incredibilmente, essi si rivelano i veri comunisti su piazza. E i comunisti, si sa, sono individui da sempre pericolosissimi per la democrazia. Specie quelli che hanno insegnato o che tuttora insegnano materie umanistiche negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado.

 

È allora paradossale quanto sta per scrivere un cittadino che se talvolta sceglie, per alcuni istanti delle proprie giornate, di perdersi in compensatorie fantasie utopistiche, le visualizza dentro di sé a inequivoche tinte socialiste: un cittadino che altresì reputa la sinistra italiana colpevole di essersi condannata al suicidio proprio quando, ripudiando di fatto quell’orizzonte culturale a lui caro, ha preferito americanizzarsi fino in fondo per proporsi quale sola, credibile erede della tradizione politica liberale, in una nazione di piccoli e grandi bonapartisti o aspiranti tali. Sarebbe bello che il mondo tutto dell’istruzione primaria e secondaria (docenti e studenti, dirigenti e collaboratori scolastici) non si accontentasse del sit-in tenutosi domenica scorsa in Piazza Sempione a Roma, e invece indicasse sul calendario una giornata, tra le prossime, in cui fermarsi non per manifestare contro qualcuno o contro qualcosa (un ministro, un provvedimento emesso a carico di un professore), ma per incontrare la società civile nelle strade, nelle piazze, dove che sia, e per chiederle di sostenerlo nel difendere un’idea di scuola quale irriducibile baluardo della democrazia liberale (se essa non è già deceduta) e sistematico boicottaggio di qualsivoglia progetto di costituzione di questa o quella forma di post-democrazia illiberale (se la nostra non è già una società di tal genere).

 

Ma è forse un bene che nessuna rappresentanza della filiera educativa italiana proponga un’iniziativa simile. Se poi ad essa aderissero pochissimi uomini e pochissime donne del comparto scolastico, e se la stessa società civile mostrasse un sostanziale disinteresse verso la richiesta di aiuto proveniente da tale mondo, cosa ancora potremmo inventarci per negare un consenso di fatto generale a quella degradazione della scuola a semplice «motore per la riproduzione della realtà sociale» da tempo in atto, secondo il Mark Fisher di Realismo capitalista, nella civiltà occidentale?

 

[Immagine: Disegno di Luigi Francesco Clemente].

6 thoughts on “Il caso Raimo, o la scuola in mano ai comunisti

  1. Condivido pienamente quanto scritto da Tricomi col cuore gonfio di funesti presagi e una grande malinconia per i giovani e i giovanissimi che non abbiano insegnanti come lui

  2. “Pluralismo d’idee”, “libertà d’opinione”, “valutazione squisitamente politica”…
    le nobili argomentazioni e le tante allusioni di Antonio Tricomi contro il provvedimento disciplinare che ha colpito Christian Raimo per aver criticato il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valvitara non si degnano di farci sapere in quali termini questa critica è stata formulate. Qual’è in buona sostanza la critica rivolta da Raimo a Valvitara ? Tutto qui. Altrimenti la lodevole perorazione rimane un ricamo fatto sul nulla. I buoni sentimenti progressisti, di cui il brano è pieno, certamente meritano rispetto. Ma non devono andare a scapito della chiarezza del pensiero e del verbo. Altrimenti il lettore rischia di non capire di cosa si stia parlando.

  3. Claudio Antonelli, poche palle: in democrazia, se uno insulta un ministro anche coi peggiori improperi, il ministro lo querela; se invece lo sospende, forte dell’abolizione del reato d’abuso d’ufficio, è una cosa diversa (dittatura morbida, “democratura”, ecc.).

  4. Il video pubblicato dal Fatto Quotidiano (4′ visionabile su YouTube) credo faccia capire che l’attacco è rivolto a Valditara da punto di vista prettamente politico e in quanto espressione del peggio di questa classe politica al governo. L’analogia della Morte Nera è appunto in questi termini. Colpisce (me ne stupisco sempre a dir la verità) comunque quanta superficialità c’è nei titoli dei media, per ragioni di clickbait essenzialmente, e nei commenti dei lettori/visualizzatori, oramai disabituati a leggere con attenzione e ad approfondire.

  5. “Claudio Antonelli, poche palle: in democrazia, se uno insulta un ministro anche coi peggiori improperi, il ministro lo querela”
    Immagino che avvenga lo stesso anche quando il bidello, nei corridoi della scuola, insulta un insegnante con i peggiori improperi: vi sarà una querela.
    Ma se non altro devo ringraziarvi per aver pubblicato il mio commento. Cosa che non avviene con “Gli Ebrei e l’Europa”, in cui ho osato mettere in dubbio l’acclamato “europeismo” degli ebrei al tempo dei nazionalismi, visto il carattere intrinsicamente “nazionalista ebraico” dell’ebraismo stesso. Sul quale carattere “chi abbia letto Hannah Arendt” (o B. Lazare o Yosef H. Yerushalmi) non puo’ aver dubbi.

  6. @Claudio Antonelli

    “Immagino che avvenga lo stesso anche quando il bidello, nei corridoi della scuola, insulta un insegnante con i peggiori improperi: vi sarà una querela.”
    Lei non ci crederà, ma: è proprio così.

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