di Davide Dalmas
[È uscito da qualche settimana il nuovo libro di Davide Dalmas, Ariosto apocalittico e politico (Quodlibet). Ne pubblichiamo il primo capitolo.]
Beh,
non ho intenzione di scrivere l’intero Apocalisse:
ormai basta solo progettarlo;
e così le idee, basta enunciarle: realizzarle è superfluo.
Pier Paolo Pasolini, Patmos
Ogni effetto convien che corrisponda
in terra e in ciel, ma con diversa faccia
Ariosto, Orlando furioso, XXXV, 18
1.
L’apocalittica, la politica, i campi di forze
Gli sviluppi più recenti della storia della censura e degli Indici dei libri proibiti,[1] unitamente alle interpretazioni di episodi decisivi del poema di Ariosto con attento riferimento all’intertesto biblico e a motivi religiosamente sensibili, o ancora quelle che ne valorizzano l’interpretazione diretta o indiretta di fatti storici,[2] mostrano una accresciuta attenzione per il significato, la forma e il ruolo delle componenti religiose e politiche dell’Orlando furioso. Da un lato, l’opera di Ariosto è entrata in modo nuovo nel quadro della storia religiosa del Cinquecento, dall’altro, come ha osservato Stefano Jossa, i «cento e più anni che ci separano da De Sanctis e Croce hanno abbondantemente ridimensionato» le loro interpretazioni di un mondo letterario autonomo, senza «alcuna serietà di vita interiore», senza religione né vero sentimento della natura, puro «scherzo di una immaginazione che ride della sua opera» (De Sanctis) di un autore che osserva esclusivamente con disposizione «affatto scherzevole» le credenze religiose, Dio, Cristo, il paradiso, gli angeli, i santi (Croce).[3] Il testo del Furioso, così, si offre allo sguardo di oggi, anche come il risultato dell’azione di diversi campi di tensioni, non esclusivamente letterarie, che agiscono durante e dopo la sua scrittura.
I tre capitoli che seguono mostrano come alcuni momenti fondamentali della forma della narrazione, della struttura dei personaggi e dei luoghi dell’opera possono lasciar trapelare qualche scintillio di una complessa rete di rifrazioni, dove tutto corrisponde «ma con diversa faccia». Il concetto di rifrazione, che è un po’ lo spirito guida di queste pagine, è adoperato nel senso precisato da Pierre Bourdieu in relazione al concetto di campo, inteso come spazio strutturato di posizioni le cui proprietà dipendono dalla loro posizione in questo spazio; e invita a evitare sia uno sguardo che isola troppo l’opera dal contesto sociale sia qualsiasi collegamento diretto tra le caratteristiche dell’opera e la società che ne è origine e destinataria, che non tenga conto appunto dell’«effetto di rifrazione esercitato dal campo di produzione culturale.»[4]
I campi culturali, a differenza di altri (quello politico in particolare) sono tendenzialmente a bassa istituzionalizzazione esplicita. A maggior ragione questo è visibile in un momento aurorale come quello che è stato considerato da Pascale Casanova il vero inizio dell’accumulazione di capitale letterario ‘mondiale’, in cui si crea lo spazio letterario internazionale, che poi non ha smesso di allargarsi ed estendersi; e che deve essere compreso come un universo letterario con frontiere e capitali non sovrapponibili a quelle dell’universo politico e economico.[5] La prima vera capitale della Repubblica mondiale delle lettere è in questa prospettiva Parigi, ma la prima potenza letteraria riconosciuta è l’Italia del Rinascimento, forte della sua eredità latina.
Ciò nonostante, un’analisi in chiave di campo della letteratura italiana del Cinquecento non è ancora stata proposta, perché pone non pochi problemi. Non a caso il contributo maggiore di Bourdieu in ambito letterario è dedicato alla letteratura francese dell’Ottocento, e parla di una ‘genesi’ del campo letterario, indirettamente presupponendo che quanto viene prima (e fuori dall’area francese, per di più), non è propriamente un ‘campo’ letterario. D’altra parte, proprio intorno all’Orlando furioso possiamo incontrare «uno degli indizi più certi della costituzione di un campo», ossia «la comparsa di un corpo di conservatori di vite (i biografi) e di opere (i filologi, gli storici dell’arte e della letteratura) che iniziano ad archiviare bozze, cartoni, manoscritti»[6]; e l’azione di un possibile polo di produzione di scala più ampia (l’inizio di una vera industria editoriale), con operatori specifici (i “letterati in tipografia”[7]). Il campo letterario, nei decenni che vanno dalla stesura alle tre edizioni e poi alla stratificata fortuna del poema di Ariosto, coinvolge autori, editori, commercianti, librai, lettori, anche in una competizione editoriale, che proprio intorno al Furioso ha uno dei suoi momenti più vivaci, in cui si può riconoscere la sua evidente ma relativa autonomia. Il rapporto tra eventi politici, militari, economici ecc. e campo letterario è così di rifrazione, non di rispecchiamento. Ariosto poeta cortigiano e insofferente della corte non può che essere sensibile ai cambiamenti della politica di Ferrara ma il passaggio dal campo del potere al campo letterario e dentro l’opera non è un rispecchiamento diretto: ad esempio, Ippolito d’Este rimane dedicatario ben oltre la sua funzione diretta di mecenate, i versi che maggiormente potevano sostenere un’impostazione ‘filofrancese’ non vengono cancellati al cambiamento della politica estense ma rimangono nel testo, seppur controbilanciati da elogi di Carlo V e dei suoi capitani, perché Ariosto intende occupare, e poi occupa stabilmente una posizione nel campo letterario, e anche le sue ‘prese di posizione’ politiche sono da intendere innanzitutto all’interno di questo. E quando si arriverà al periodo delle censure e degli indici dei libri proibiti, gli scrittori del periodo “della Controriforma” sono consapevoli di poter subire interventi censori, ma non sono condizionati solo dalla Chiesa: «si confrontano in primo luogo con il paradigma letterario del proprio tempo, per confermarlo o per contestarlo o per superarlo […]: è questa la loro censura primaria, il loro Inquisitore con cui non possono non fare i conti, e preventivamente.»[8]
Per quanto ci interessa direttamente qui, i passaggi implicati sono, schematicamente, due: 1) dal campo religioso e del potere nell’Orlando furioso attraverso una rifrazione prodotta dallo stato A del campo letterario; 2) dall’Orlando Furioso nel campo religioso e del potere attraverso una rifrazione prodotta dallo stato B del campo letterario (e arrivando, naturalmente, in un contesto storico e religioso diverso). La storia religiosa e politica europea dalla data della prima (1516) a quella della terza (1532) edizione dell’Orlando furioso cambia fortemente (e quindi, ad esempio, alcuni passi religiosi possono iniziare a suonare pericolosi, “eretici”, a differenza di quando sono stati scritti) ma anche il sistema letterario cambia con forza.
Il poema di Ariosto viene affrontato frontalmente dalla censura soltanto dagli anni Settanta del Cinquecento con proposte ben distanti dalla cautela espressa ancora nel 1557 in una famosa lettera di Michele Ghislieri, il futuro papa Pio V, che temeva il ridicolo di un attacco indirizzato a «Orlando, Orlandino, Cento Novelle et simili altri libri». Proibendoli, scriveva, «più presto daressimo da ridere ch’altrimente, perché simili libri non si leggono come cose a qual si habbi da credere, ma come fabule, et come si leggono ancor molti libri de gentili come Luciano, Lucretio et altri simili».[9] Invece, nella seconda fase dell’applicazione dell’Indice dei libri proibiti, che prevedeva l’espurgazione delle opere sospese e quindi toccava «una incalcolabile moltitudine di opere che ricadevano sotto le regole tridentine, sotto quelle de correctione librorum – introdotte nell’indice clementino – e sotto condanne generali dell’indice stesso»[10], anche l’Orlando innamorato di Boiardo e il rifacimento di Berni risultano tra le molte opere letterarie in volgare «che, per oscenità o lascivia, ricadevano sotto la regola VII tridentina o che, alla luce delle nuove norme clementine de correctione librorum, potevano recare “offesa alle pie orecchie” dei cattolici»[11]. E durante il pontificato di Gregorio XIII (1572-1585), la congregazione dell’Indice «prese in seria considerazione» la possibilità di condannare anche l’Orlando furioso (così come le Satire e le Rime di Ariosto) e le sottopose al vaglio di un censore[12], Gabriele Barri, che definì Ariosto «vanissimus et spurcissimus homo petrarcam magistrum suum sectatus in suo furioso inque sua furia multa obscoena ac vana scribit, et sacris prophana miscet».[13]
Questo non porterà a una effettiva condanna, ma fa comprendere meglio come anche l’ambito cavalleresco sia toccato da operazioni che, in modo diverso, a volte opposto, possono anche tendere a rendere inappuntabile dal punto di vista religioso, ossia il commento allegorizzante (ad esempio Ruscelli, introducendo il canto XXIX scrive: «In Orlando poi, al quale, stato lunga stagione impazzito per soverchio furor di lascivo amore, convien che si riporti il suo senno dal cielo, si comprende, come in ogni nostro maggior bisogno, e nelle infermità di corpo e d’animo, incurabili per soccorso umano, ritrovan sempre i fideli aiuto da Dio clementissimo, e dator d’ogni grazia»[14]), fino alla parodia seria, la riscrittura in senso spirituale: in particolare esistono diversi esperimenti sull’Orlando furioso, dal primo canto “traslatato” in spirituale nel 1589, di nuovo “tradotto in rime spirituali” nel 1593, fino a un Orlando santo del 1597.[15]
D’altra parte non sono assenti letture religiosamente serie, come quella di Tommaso Campanella, quando nella Poetica (1596), confronta i romanzi dei moderni con i poemi epici classici, e tra le differenze ne osserva una dipendente dalla «diversità della religione»: a suo avviso autori come Boiardo e Ariosto hanno fatto bene a «mostrare che le donne sagge e li cavalieri gentili e valorosi dependono dalla stirpe cristiana, ove santa repubblica s’osserva», e quindi a inscenare delle conversioni di importanti personaggi inizialmente non cristiani. Sono esplicitamente nominati non solo Ruggiero, ma anche Marfisa e Clorinda, quindi personaggi di Ariosto e di Tasso, e Agricane per quanto riguarda Boiardo: di tutti loro, nei poemi, è mostrata la conversione, «acciò sempre [duri] la memoria della nostra religione e del buon modo di vivere, che alletta ogni cuor barbaro, se non è ostinato»[16] Ancora alla fine del Cinquecento, quindi, «fabule» o «sogni», radicalmente “scettici” e “ironici” come quelle di Boiardo e Ariosto potevano essere letti anche in continuità con la tradizione della chansons de geste, come testi di propaganda religiosa a favore del cristianesimo.
Alcuni passi in particolare, poi, si prestano in modo specifico a sostenere una lettura in chiave di critica dei costumi tramite il riso. Si tratta, innanzi tutto, proprio di alcuni dei punti che negli anni Settanta saranno criticati dal censore citato prima: ad esempio, egli si concentrò, esaminando il canto XXXIV, sulla spiegazione che viene data ad Astolfo nel cielo della Luna delle «versate minestre» – «L’elemosina è (dice) che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte» (XXXIV, 80) – ravvisandovi un’irriverente critica ai lasciti per le messe di suffragio, di cui gli ordini religiosi erano i maggiori beneficiari.[17]
Ancora più direttamente, alcune ottave del Furioso arrivavano a descrivere un vero e proprio «nuovo inferno», rappresentato dai monasteri che vengono osservati dall’arcangelo Michele, mandato in soccorso di Carlo Magno assediato a Parigi. L’origine narrativa di questa indagine satirica è la preghiera di Carlo nella parte centrale del canto XIV, ossia la prima sezione che si può veramente considerare di epica bellica del poema. La conclusione della preghiera dell’imperatore, presentato per la prima volta come devoto cristiano è forse il passo più importante per una valutazione del poema di Ariosto all’interno della storia religiosa del Cinquecento:
So che i meriti nostri atti non sono
a satisfare al debito d’un’oncia;
né devemo sperar da te perdono,
se riguardiamo a nostra vita sconcia:
ma se vi aggiugni di tua grazia il dono,
nostra ragion fia ragguagliata e concia;
né del tuo aiuto disperar possiamo,
qualor di tua pietà ci ricordiamo.
È stata letta infatti come un «esplicito rifiuto del valore meritorio delle opere nel processo di salvazione», una «totale fiducia nella grazia divina, che Ariosto manifesta anche altrove nel Furioso»;[18] da collegare con «convinzioni diffuse» che più tardi, dopo l’esplosione del conflitto teologico intorno alle tesi di Lutero, avrebbero potuto acquisire «per la Chiesa di Roma un significato eterodosso»[19]. È in conseguenza di questa preghiera che Dio interviene attraverso l’angelo. Ma l’azione dell’angelo, lungi dall’essere un piano percorso devoto, conduce alla satira esplicita dei monasteri, su cui torneremo nel quarto capitolo.
Questa straordinaria concentrazione, in cui si potrebbero vedere legate insieme teoria e pratica, impostazione teologica solafideista e polemica antimonastica, non sembra aver attratto però un’attenzione specifica. Come ha osservato Amedeo Quondam, la lista dell’Indice dei libri proibiti mostra che per i censori ecclesiastici non conta né un criterio di qualità (classicità, valore), né un criterio di successo (diffusione, numero di edizioni): è la letteratura nel suo complesso che andrebbe idealmente eliminata: «tutti gli autori (e tutte le loro opere, tutti i loro libri) sono egualmente, e per principio, sospetti […]. Da sorvegliare e da punire, tutti, anche se con intensità variabili»[20].
Ma la guerra perduta dei censori («nulla del libro letterario del Rinascimento è andato perduto») è connessa anche al cambiamento principale dallo stato A allo stato B del campo letterario, ossia proprio la “creazione” della posizione Orlando furioso. Ariosto, con le caratteristiche della sua opera, con il suo successo presso i lettori, e grazie all’azione concomitante di una serie di “mediatori”, finisce per costruire una nuova posizione di importanza primaria nel campo letterario, che corrisponde al romanzo che è anche poema, che può essere visto come l’omologo dell’Iliade e dell’Eneide nel sistema dei generi classici[21]. Ludovico Dolce, il grande sostenitore del parallelo tra Ariosto e Virgilio e dell’Orlando furioso come esempio di una letteratura italiana contemporanea che dimostra di aver raggiunto il livello dell’epica classica, nell’Apologia (1535) ne propone una lettura totale dal punto di vista dei generi: «Quivi (per ristringer le molte cose in uno) tutto quello, che da per sé il Comico, quello che il Tragico, quello che lo scrittore de Satyre a nostro utile et esempio può dimostrarci, egli [Ariosto] ha raccolto e con piacevole leggiadria abbracciato nel suo libro»[22].
Per ottenere almeno in potenza questo risultato di unità («ristringer le molte cose in uno») nel piacevole di comico e tragico e di satirico moralmente utile, è necessario che siano all’opera nel poema anche forme narrative, situazioni e personaggi che permettono di affrontare in modo non banale (non piattamente devozionale ma nemmeno esclusivamente scherzoso, con quella felice commistione di scherzo e serietà individuata dalle letture romantiche[23]) questioni religiose e politiche. In questo modo non soltanto i temi ma le componenti più specificamente letterarie del Furioso (la struttura narrativa, lo stile, le caratteristiche dei personaggi) entrano in relazione, intercettano, rielaborano e rifrangono per il futuro “dati” apocalittici e politici, secondo una logica propria, specifica, non tanto come prese di posizione religiosa o politica.
Da qui il senso forse più profondo della dialettica di rivelazione/svelamento del governo divino sul mondo affrontata nel secondo capitolo, che conduce alla possibilità che l’opera che riprende e conclude le vicende dell’Inamoramento de Orlando di Boiardo sia anche idealmente intitolabile La punizione di Orlando (capitolo tre) e l’elaborazione (e la sapiente collocazione) di una serie di luoghi e azioni topiche che replicano, polifonicamente, queste note (capitolo quattro).
In questa chiave, ‘apocalittico’ significa innanzitutto un’articolazione complessa che si fonda sulla rivelazione del fine più che sul problema della fine del mondo. Nel senso di Kermode, l’Apocalisse è anche modello per cui il mondo è organizzato armonicamente con principio, periodo di mezzo e fine, con cui la letteratura deve fare i conti[24]. Affrontato a modo suo, il problema con cui Ariosto si confronta è già quello del romanzo moderno: come si mette in armonia una concezione “vera” del tempo (una successione senza senso, senza inizio e senza fine) e una “finzione” che soddisfi l’esigenza umana di kairos, di tempo pieno di significato? Mentre ‘politico’ indica l’attitudine a reinventare continuamente forme narrative e poetiche di problemi della vita associata (dal ruolo delle donne nella città al funzionamento di istituzioni come i monasteri al rapporto tra guerra e religione).
Idealmente, un ultimo capitolo qui assente[25], allarga questo discorso alle commedie, alla Lena in particolare, dove la sconfitta delle trame della protagonista crea anche lo spazio dell’esposizione di un programma di rivolta che coincide con il tempo della letteratura.
Note
[1] In particolare gli studi di Gigliola Fragnito, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso; cfr. ora innanzitutto Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli XV-XVII), il Mulino, Bologna 2019.
[2] N. Maldina, Ariosto e la battaglia della Polesella. Guerra e poesia nella Ferrara di inizio Cinquecento, il Mulino, Bologna 2016; M. Di Gesù, L’Orlando furioso, l’Italia (e i Turchi). Note su identità, alterità, conflitti, Quodlibet, Macerata 2020. C. Rivoletti, «Credete a chi n’ha fatto esperimento»; pluralità e coerenza dei riferimenti alla realtà nell’Orlando furioso, in Id. (a cura di), L’‘Orlando furioso’ oltre i cinquecento anni. Nuove prospettive di lettura, il Mulino, Bologna 2022, pp. 69-91
[3] S. Jossa, «A difesa di sua santa fede». Il poema cristiano dell’Ariosto (‘Orlando furioso’, XXXIV, 54-67), in S. Jossa e G. Pieri (a cura di), Chivalry, Academy, and Cultural Dialogues. The Italian Contribution to European Culture. Essays in Honour of Jane E. Everson, Legenda, Cambridge 2016, pp. 32-42: 34. Le citazioni sono tratte da F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Cortese, Morano, Napoli 1936, vol. 2, p. 48; e B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Laterza, Bari 1929, p. 39.
[4] P. Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario [1992], tr. di A. Boschetti e E. Bottaro, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 481.
[5] P. Casanova, La Repubblica mondiale delle lettere [1999], tr. di C. Benaglia, nottetempo, Milano 2023.
[6] P. Bourdieu, Qualche proprietà dei campi [1976], in Id., Il mercato dei beni simbolici e altri scritti sull’arte, a cura di M. Santoro e C. Tartarini, Meltemi, Milano 2023, pp. 131-139, a p. 135.
[7] Definizione che parafrasa A. Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. II, Produzione e consumo, Einaudi, Torino 1983, pp. 555-686, per indicare quel gruppo di traduttori, riscrittori, curatori di testi e attraversatori di generi spesso ristretti sotto il termine ‘poligrafi’.
[8] A. Quondam, Una guerra perduta. Il libro letterario del Rinascimento e la censura della Chiesa, Bulzoni, Roma 2022, pp. 210-211.
[9] Cito da U. Rozzo, La letteratura italiana negli ‘Indici’ del Cinquecento, Forum, Udine 2005, p. 34. Cfr. A. Prosperi, Censurare le favole. Il protoromanzo e l’Europa cattolica, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, I: La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, pp. 71-106.
[10] G. Fragnito, «In questo vasto mare de libri prohibiti et sospesi tra tanti scogli di varietà et controversie»: la censura ecclesiastica tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento (2001), in Ead., Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma, a cura di E. Bonora e M. Gotor, il Mulino, Bologna 2011, p. 345.
[11] Ivi, p. 346.
[12] Il parere sull’Orlando furioso, esaminato insieme con le Rime e i Trionfi di Petrarca, la Commedia di Dante e il De partu Virginis di Sannazaro, è conservato in BAV, Vat. lat. 6149, ff. 141r-146v e 148r-150r. Le censure sono state attribuite a Gabriele Barri, autore di un trattato Pro lingua latina che già nel 1554 chiedeva una rigorosa censura della poesia volgare, da M. A. Passarelli, Petrarca ‘scelestus auctor’ in una censura (non più anonima) di Gabriele Barri (ms. Vat. lat. 6149, ff. 142r-150v), «Critica del testo», VI (2003), pp. 177-220.
[13] Cit. da J. Helm, Poetry and Censorship in Counter-Reformation Italy, Brill, Leiden-Boston 2015, p. 324.
[14] Riprendo la citazione da L. Dell’Aia, L’antico incantatore. Ariosto e Plutarco, Carocci, Roma 2017, p. 45, che fa riferimento all’edizione 1580.
[15] Cfr. A. Torre, Orlando santo. Riusi di testi e immagini tra parodia e devozione, in L. Bolzoni, S. Pezzini, G. Rizzarelli (a cura di), «Tra mille carte vive ancora». Ricezione del ‘Furioso’ tra immagini e parole, Pacini Fazzi, Lucca 2010, pp. 255-279.
[16] Cit. da Klaus W. Hempfer, Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando furioso nel Cinquecento. Lo studio della ricezione storica come euristica dell’interpretazione (1987), Panini, Modena 2004, p. 220.
[17] Fragnito, Cinquecento italiano cit., pp. 318-319.
[18] G. Fragnito, Cinquecento italiano cit., p. 320. S. Jossa, Ariosto’s Religion, in M. Casari, M. Preti, M. Wyatt (a cura di), Ariosto and the Arabs. Context for the ‘Orlando furioso’, Officina Libraria, Roma 2022, pp. 101-132 collega queste posizioni in particolare a Savonarola, due libri del quale furono pubblicati nel 1513 e nel 1516 dallo stesso stampatore del Furioso, Giovanni Mazzocchi del Bondeno.
[19] Ivi, p. 321; l’ottava è quindi entrata anche nelle storie della Riforma, cfr. L. Felici, La Riforma protestante nell’Europa del Cinquecento, Carocci, Roma 2016, p. 160, dove è considerata un inneggiare «alla grazia divina a fronte dell’inanità dei meriti umani» e collegata a prediche di Seripando o posizioni di Contarini.
[20] A. Quondam, Una guerra perduta, cit., p. 97.
[21] Cfr. D. Javitch, Ariosto classico. La canonizzazione dell’‘Orlando furioso’ (1991), tr. di T. Praloran, Bruno Mondadori, Milano 1999. F. Sberlati, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Bulzoni, Roma 2001. C. Geekie, «La feccia del popolazzo»: il tema della classe sociale e la decanonizzazione dell’Orlando furioso, in C. Rivoletti (a cura di), L’Orlando furioso oltre i cinquecento anni, cit., pp. 215-232.
[22] Cit. in Hempfer, Letture, cit., p. 58.
[23] Cfr. C. Rivoletti, Ariosto e l’ironia della finzione. La ricezione letteraria e figurativa dell’‘Orlando furioso’ in Francia, Germania, Italia, Marsilio, Venezia 2014.
[24] F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo [1966], tr. di G. Montefoschi, Rizzoli, Milano 1972.
[25] Cfr. D. Dalmas, «Farò come i famigli». La rivolta impossibile della ‘Lena’, in corso di pubblicazione.
[Immagine: Gustavo Dorè, L’arcangelo Michele piomba nel convento, canto XIV].