di Antonio Montefusco

 

Siamo saliti sulla Grande Muraglia su uno dei passi di montagna più grandi, nella Valle di Guangou a circa 50 Km da Pechino. Si chiama Juyong guan 居庸关 almeno dalla dinastia Qing. Alla base del passo, sulla parte più bassa del muro, resta la Piattaforma delle Nuvole, accanto a un tempio tipico della religione popolare che mescola buddismo e taoismo e riscostruito nel Settecento. La Piattaforma rimonta all’epoca della dinastia Yuan, la dinastia fondata da Qubilai Qa’an, il nipote di Chinggis Qa’an; è una porta, anche se ha l’aria di un arco di Trionfo, ed è il minimo per noi, che siamo arrivati qui sulle orme di Marco Polo. Marco non fu solo mercante veneziano: nei lunghi anni cinesi fu anche ambasciatore, e forse agente segreto, di Qubilai. Sotto l’arco della Piattaforma tutta una serie di piccoli Buddha, segno indelebile della potenza del samsara (la reincarnazione) nonché dell’anti-individualismo di questa religione atea; i testi sono trascritti uno accanto all’altro in diverse lingue, tra cui il cinese, il tibetano, e il mitico tangut, una lingua che venne riscoperta dai grandi esploratori a inizio Novecento: una lingua di circa 6000 segni, calligrafica e solenne. Anche qui una traccia di Marco, che nel Devisement parla della città di Edzina, ritrovata molto più tardi negli scavi di Qaraqoto.

 

 

Abbiamo fatto più di mille gradini, rinunciando poi a contare. La cosa che più colpisce nel salire è la differenza di altezza dei gradini, che posso essere bassi o molto elevati. Mia figlia di 7 anni si inerpica appoggiando le mani per terra. È più difficile scendere, perché non sai indovinare la profondità del passo, e rischi di cadere. La sensazione di sospensione è fortissima ma non si sente la vertigine; il muro corre sul costone e non sulle pendici; le torri sono solide, e dove ora si installano negozi di souvenir con medagliette e ombrellini c’erano depositi di frecce per evitare ai soldati la discesa per l’approvvigionamento. Il percorso sinuoso delle sezioni lo vedi davanti e dietro, sale e discende e percepisci la lunghezza di 20.000 km di qualcosa che immediatamente indovini come un confine assoluto. Owen Lattimore, il grande storico che il senatore McCarthy accusò di spionaggio filocinese nel 1952 (David Harvey ha dedicato alla storia un bellissimo articolo), ha spiegato che la Muraglia rappresenta l’incarnazione dell’idea di frontiera. Non si tratta solo di una esigenza di difesa, né di costruire un limes tra bene e male, tra civiltà e barbarie. La frontiera incarna il punto massimo in cui si può spingere la possibilità (o la volontà) di governare. È lo stesso progetto che Adriano realizza in Britannia negli stessi anni – con la differenza che in Cina si assolutizzava anche una differenza sostanziale tra nomadi e stanziali, tra popoli delle steppe e progetti insediativi urbani su uno spazio sterminato, e ciononostante, in quanto finito, governabile.

 

 

In alto, troviamo una pietra elevata con un’epigrafe incisa su un nero granito. La firma si distingue per uno stile più corsivo, ma non ho le sufficienti conoscenze per indovinare se sia nello stile regolare, poi recuperato nella riforma grafica della Repubblica Popolare, o nello stile “d’erba” o stile “pazzo”, una forma semplificata di scrittura che però procede da una conoscenza grafica così approfondita che non è più molto diffusa. Come che sia, abbiamo davanti a noi la firma di Mao. Accanto troneggia, in caratteri più ampi e posati, la frase 不到长城非好汉, Bù dào chángchéng fēi hǎohàn. Troviamo una traduzione in inglese su un cartellone colorato in giallo – il colore dell’imperatore – accanto a una sorta di ristorantino in cima al muro. La traduzione suona così: « He who has never been to the Great Wall is not a hero.»

 

 

Qualcosa non mi convince, in questo Mao che si può canticchiare come un David Bowie qualsiasi («we can be heroes, just for one day»). Je voudrais savoir, come diceva Fortini al suo interprete durante il suo viaggio nel 1955: io ne ho due, uno francese, Adrien (della stirpe di quella sinologia a cui apparteneva l’esploratore Pelliot, che appose le sue note al testo di Marco Polo che ancora oggi ci servono da portolano di quelle enormi conoscenze orientali) e Raissa, che viene con noi, invece, da Venezia. Mi spiegano che la vera traduzione di hǎohàn è «buon uomo» (Adrien) o addirittura «buon cinese Han» (Raissa). Lost in translation, il Mao dei turisti sembra accettare che accanto alla Piattaforma delle Nuvole troneggi un clown rosso e giallo seduto su una panchina; lo si guarda intravedendo in alto un ulteriore tempio taoista. È Ronald MacDonald’s, che invita a entrare nel fast-food lì ben posizionato. Ci entriamo ingloriosamente, visto che mia figlia mangia da giorni solo coppette di riso. Zhirong e Xiaolin, nostri ospiti cinesi, ci raccontano dello scandalo che portò alla chiusura di uno Starbucks posizionato addirittura nella Città proibita, la dimora dove viveva l’imperatore isolato coi suoi eunuchi. L’apertura di Deng Xiao Ping – la cui scalata di riformista di destra nel Partito Comunista Cinese meriterebbe un film – travolge con questi accostamenti vertiginosi, eppure inoffensivi. Come in fondo sembra sempre più sbiadito il faccione di Mao accanto ai ragazzi cinesi, completamente addicted ai loro social, specialmente TikTok.

 

 

In alto, accanto a una torre, una scolaresca di dodicenni vestiti di bianco e di blu – una divisa scolastica di Pechino, ora non così diversa da quelle delle scuole americane che si vedono nei film per teenager – ci attornia entusiasta durante una pausa dalla scalata. La maestra, una donna piacente ma stranamente ossigenata, ci spiega che fino a una certa età – lo ha detto, ma non l’ho capito – i bambini cinesi fanno per ben due volte l’anno una gita sul muro. Vocianti, i ragazzini si concentrano sull’unica altra bambina, Bianca. Le accarezzano la testa, che trovano bionda – non lo è, è castana. Dicono alla bambina che è «cute», addirittura «wonderful». Le inondano le piccole mani di regali, perlopiù snack confezionati in plastiche colorate e sottovuoto, qualcosa di simile ai bastoncini per cani ma con la decorazione del Mars o degli Snickers. Bianca accetta anche se è un po’ stordita; non apre, però, rapita dal caleidoscopio delle immagini e ancora sotto il fascino della scrittura cinese, che la attrae come un magnete. Sono io l’assaggiatore ufficiale: dopo scoprirò una sorta di gelatina viola scuro che si mangia a risucchio, delle patatine stick al sapere di gamberetto e soprattutto una zampa di gallina in gelatina, buonissima peraltro.

Questo soprattutto ti prende direttamente alla gola: questo nocciolo inestricabile di arcaico e di modernissimo, un cibo che per me è così legato al tavolaccio di mia nonna a Gallipoli che decapita animali pennuti e li spenna chiacchierando dei cattivi comportamenti della vicina, fatto scivolare in una macchina industriale per essere ricoperto da una sorta di pacchetto-insegna da circo illuminato dei consumi. Mi convincono a non terminare la zampetta (e però lo faccio di nascosto), mentre i bambini ci chiedono informazioni sul nostro viaggio, sul motivo per cui ci trovano lassù. Il loro inglese è perfetto, direi anzi impressionante, per pronuncia e vocabolario. Chiedo alla maestra e mi dice che sono allievi di una scuola del centro (e dove sarà?) di Pechino, e che l’inglese lo apprendono a lezione privata. Ne ho di nuovo una vertigine, visto che le discussioni sulle differenze sociali crescenti in Cina, così vivaci negli anni ’90 per capire se il paese rimaneva o no socialista, le ricordo concentrate sulla differenza tra città e campagna, e soprattutto su quella strana riforma che era la possibilità di accesso dei capitalisti alla ambita tessera del Partito Comunista Cinese. E invece, quella gita mi è sembrata poi una qualsiasi scuola dei Parioli, e ne ho avuto come una sensazione di tristezza. Loro sì che vorranno essere heroes.

 

 

Sono stato ingeneroso. Lo penso mentre ci allontaniamo con un piccolo bus affittato dalla collega Yingying, che nel suo bellissimo talk al convegno su Marco Polo ha citato Xi Jinping. E anche il suo inglese era molto buono, come quello dei colleghi Zhirong e Xiaolin. I professori decani hanno parlato per primi, seduti su un tavolo al centro della sala dove anch’io sono stato posizionato perché “ordinario”. E loro invece hanno detto la loro in cinese, senza fornire una versione inglese ma solo uno striminzito riassunto. Hanno discusso tra loro, e hanno mostrato complicità ridendo a battute che mi erano inattingibili – come a tutti i miei colleghi italiani. Mentre parlano, guardo alla finestra, in mezzo a un prato coccolato dal sole tiepido di inizio Novembre, una statua di un contadino seduto felice su una massa di verdure colorate. Mi rendo conto che nel campus dell’Università di Renmin dove ci troviamo esistono solo monumenti dedicati a operai e fotografie che ricordano la Lunga Marcia e forse episodi della rivoluzione culturale (ma non ne sono sicuro). Non pare di vedere studiosi o scienziati. Penso all’Unter den Linden di Berlino, nello spiazzo dove sorge la Humboldt Universität, incarnazione dell’idea dell’Università europea con i monumenti dedicati ai due fratelli Humboldt, il fondatore e il suo geniale fratello Alexander, esploratore e gay. Il simbolo di Renmin consiste nella parola “persona” ripetuta tre volte: questa iterazione indica la pluralità, vuole comunicare che l’Università è di tutti, è del popolo. Adrien mi spiega che i ragazzi scherzano su questo nome, dicono di studiare all’università “delle tre persone”.

 

 

Si dice molto della scrittura cinese. Il mio Fausto (Eugenio) mi fa notare come possa essere una palestra intellettuale per questi bambini che pullulano intorno a noi. Mi distraggo un momento pensando che, di bambini, in città, ne abbiamo visti così pochi, tranne nei parchi e nella città interdetta, dove si vestono all’antica per condividere le proprio foto in stile vintage sui social. Quello che mi colpisce ora è, invece, la potenza dell’ideografia a farsi logo, e in effetti, guardandosi attorno, negozi insegne confezioni non hanno quella pletora di immagini volgarmente semplificate che troviamo in Occidente. Non c’è una virgola della Nike o un puma per le magliette. La scrittura cinese, questo baluardo polveroso e artificiale e quindi così potentemente spettrale e intemporale, ha il potere di diventare essa stessa logo. Il capitalismo, più o meno di stato, è capace di cannibalismo, anche verso quel residuo di unità cinese che è la scrittura. «Scrivere e dipingere sono la medesima parola», e dipingere diventa sempre più pubblicizzare. Si dà che, come l’italiano alla fine della fiera si è diffuso non con la scuola ma con la sua nemica, la televisione, anche il cinese si inerpichi negli anfratti più scoscesi dello Yunnan con i simboletti sulle macchine.

 

 

La discussione sulla riforma grafica della Repubblica Popolare, quando si voleva addirittura l’alfabeto latino anche al rischio di rendere incomprensibili pagine e pagine di poesia, è lontana in maniera siderale. Reginald Fleming Johnston insegnò per cinque anni l’inglese all’ultimo imperatore del drago, Pu Yi. Bertolucci ci racconta che Johnston (che è Peter O’Toole) insistette per insegnare al tredicenne imperatore rinchiuso nella città proibita la bicicletta. Testa alta e guardare sempre avanti, dice all’adolescente, abbigliato da ser rigorosamente in bianco: un vestito che mi sembrava in fondo rinviare a una certa confusione tra colonialismo e modernità, forse una caduta orientalista di un film peraltro invece rispettosamente affascinato e decadente che non rinuncia all’impegno. E Pu Yi voleva una donna (peccato fosse gay, in realtà) che sapesse ballare, e che sapesse parlare l’inglese e il francese. Anch’io impiglio nella decadenza, ma quella mia, orientalista, quando sento come un languore di nostalgia nella facilità di comunicazione coi colleghi più giovani, miei coetanei, e addirittura coi bambini. È una generazione che viene dopo Piazza Tian’anmen. Che cosa ne sa? Come ne parla? Volevano, gli studenti di Piazza Tian’anmen, parlare di più in inglese?

 

Attraverso la Piattaforma delle Nuvole passava la strada che, dalla Mongolia delle yurte arrivava a Xambaliq, e cioè la città ‘reale’, Pechino. Qubilai ordina la costruzione della città nel 1267, quattro anni prima della partenza di Marco col padre e con lo zio da Venezia. La prima udienza si tenne nel 1274, in tempo per impressionare il veneziano. In particolare, era immenso il grande parco imperiale, nella parte nord, che oggi si chiama Beihai ed è dominato da una pagoda bianca molto più recente. Lì vicino ci sono le sedi del governo; quando ci siamo andati, attraversando un’avenue (Daije in cinese) enorme dove un numero esorbitante di macchine elettriche non fanno rumore e i motorini ti tampinano da dietro silenziosi sui marciapiedi, abbiamo chiesto informazioni per la fermata più vicina della metro. Questo serpentone è dappertutto, ma è anche il segno della Nuova Cina. Nel 2000 c’erano solo due linee. Oggi sono 14 più alcune circolari sotterranee. Si arriva dappertutto, e le stazioni sono indicate in cinese e in inglese. Deve essere una differenza così grande con la vecchia Pechino.

La presenza più costante è quella della vigilanza. Per andare sul binario è necessario passare le borse sotto il metal detector e accettare una veloce perquisizione. Non è approfondita, e mi fa anche sorridere. Impiego molto più tempo ad entrare alla Biblioteca Nazionale di Parigi, che è diventata ormai un bunker. I vigilantes sono in realtà dei tuttofare. Un uomo paffuto, con un viso che sembra adolescenziale e che non sembra parlare nemmeno il cinese, ci aiuta ogni giorno, alla fermata vicino all’albergo, per comprare i biglietti. Ci sbagliamo. Mia moglie Raffaella si chiede come facciamo a dirglielo. Io rinuncio ingloriosamente, voglio passeggiare. Abbiamo comprato i biglietti a prezzo doppio, non è grave, costano 4 yuan. Poco dopo il cellulare ci avverte che siamo stati rimborsati. Ci chiediamo se è responsabilità del nostro polizziotto-bambino. Ci crediamo, in verità. I pagamenti, a Pechino, sono basati sulla fiducia. Il commerciante, il tassista, l’ambulante ti dicono il prezzo, e sei tu che lo imposti sull’applicazione Alipay e WeChat. Hanno modo di controllare che tutto sia andato secondo i piani, ma non lo fanno, come per una sorta di vergogna sul denaro che a me sembra completamente passata di moda in Europa (ammesso che ci sia mai stata al di fuori dei paesi cattolici).

 

Procedendo verso il parco Beihai ci siamo lasciati dietro le spalle un hutòng moderno; abbiamo deviato per un supermercato che però era contornato da bancarelle abusive, dove si allineavano cicorie bianche e caricatori portatili per cellulari, qui davvero indispensabili per fare qualsiasi operazione (dal taxi ai biglietti di museo). Ci fermiamo per chiedere dove si colloca l’altra fermata della metro con la cartina sul palmo. Ci viene naturale rivolgersi a un poliziotto di guardia. Non so dire se le stelle cinesi su fondo rosso che occupano la parte non dorata del distintivo mi sembrano rassicuranti. Per chi, come me, viene dalla Nuova Sinistra (nelle varie ramificazioni contemporanee), i simboli comunisti su divise militari sollevano più interrogativi che consolazioni. Ci risponde gentilmente, ma in cinese, attingendo ai gesti; interviene una coppia di nostri coetanei quarantenni, in inglese e ci spiega il percorso e si sofferma curiosa a chiederci cosa ci facciamo lì a Pechino.

 

 

Non facciamo a tempo a parlare. Un piccolo trambusto vicino al ciglio, e un uomo sulla cinquantina viene afferrato e trascinato dagli uomini in divisa. Sono due contro uno; lui resiste, e sembra aggrapparsi al muro. I nostri coetanei gentili sono volatilizzati. Non so dire cosa sia successo. Ci era capitato soprattutto di vedere degli ambulanti abusivi scappare di fronte alle macchine della polizia: forse era il caso? Raffaella si chiede, invece, se l’uomo abbia detto qualcosa di sconveniente ad alta voce o se abbia risposto male ad un’ingiunzione. Non saprei.

 

Una delle pagine più belle di Asia Maggiore di Fortini racconta di una passeggiata tra i quartieri poveri intorno a piazza Tian’anmen, dove a un certo punto intravede una diecina di uomini e donne seduti per terra con la testa bassa (mi ricordo l’inizio dell’ultimo imperatore, quando a Pu Yi viene chiesto di guardare per terra). Sono vicini l’uno all’altro, cenciosi, sembrano «una catasta di panni oscuri». Una folla silenziosa li contorna, ma viene allontanata dai cinque soldati che puntano i fucili sul gruppo. Una delle scene più tristi che è dato vedere, dice Fortini, che la incatena alla memoria della guerra civile in Italia o a un gruppetto di uomini scorti in Bielorussia sotto la minaccia dei militari o ancora ai pastori ammanettati a Matera (delinquenti? Manifestanti?). «Noi che vogliamo introdurre nel mondo la gentilezza, noi non possiamo essere gentili». Fortini ricorda Brecht, ma non si consola, e non consola neppure noi. Raissa, sulla grande muraglia, ci recita una poesia che credo di indovinare moderna: sono le mogli di quelli che lavorano al trasporto e alla costruzione che esprimono il loro rancore per un’opera spaventosa, che ha divorato i loro mariti. In un verso si dice che nei costoni del muro sono sepolti gli operai morti. Lancio ad Eugenio-Fausto: «Tebe dalle Sette Porte, chi la costrì?», mi risponde ironico che «Ci sono i nomi dei re, dentro i libri». I nomi degli imperatori, penso; e poi degli uomini di partito.

Non siamo riusciti ad andare a Piazza Tian’anmen. Per visitarla ci si deve prenotare. Ecco cosa oggi è simile a Venezia di questa Cina contorta di modernità. Non più i ponti e l’acqua. Il ticket d’ingresso per regolare il turismo, o forse per solennizzare un luogo che voleva cambiare il corso della memoria. Tian’anmen significa “Pace celeste”: un nome che è l’impasto tra cielo e terra di questa nostra Pechino. Marcello, il mio allievo e ora collega, riesce a prenotare e mi invia delle foto mentre noi atterriamo a Parigi. È sorridente con Fausto-Eugenio, e il sole novembrino fa luccicare le foglie dei cespugli che gettano sull’ingresso della Città Proibita. La faccia di Mao troneggia lucida, come un Mazzini – anzi, no, come un Cavour qualsiasi.

8 Novembre 2025

1 thought on “Asia in minore. Una settimana a Pechino

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