di Stefano Jossa
Pablo è bello, affascinante, intelligente, fidanzato con la più carina della scuola, ricercatore internazionale di successo e capace di trascinare le folle con i suoi discorsi; ma Pablo ha un difetto…
In questo “ma” sta tutto il senso del romanzo di Gabriele Pedullà, Certe sere Pablo (Einaudi, pp. 232, €20,00), che prende il titolo dal secondo dei tre racconti-capitoli che comprende: un romanzo sul sogno politico di tre generazioni, che vuole essere una testimonianza per chi quel sogno non sa neppure cosa sia (i più giovani, i nati dagli anni Novanta in poi), ma anche il rilancio di un’idea di letteratura impegnata a osservare la storia e costruire il futuro. Per chi, come me, è arrivato alla scuola superiore nel 1980, all’indomani dell’ultimo rigurgito delle occupazioni degli anni Settanta, e si è laureato nel 1988, alla vigilia dell’ultima grande coda militante con la Pantera del 1990, (per cui non ho potuto partecipare mai a un’occupazione da studente, con la conseguenza che ho desiderato farlo da docente), è anche un romanzo su una generazione nata troppo tardi per l’appuntamento con la storia e forse pure troppo presto per lanciarsi nella fine della storia.
I personaggi sono tre, ad alto gradiente di autobiografismo: un ragazzo (il più simile all’autore, che gli si rivolge con il “tu”) che scopre la politica negli anni della scuola superiore, che per lui sono gli anni Ottanta; Pablo, appunto, che viene seguito nella parabola che va dagli anni Sessanta agli anni Ottanta; e Carlo, un professore cresciuto nella cultura di sinistra del Novecento, ma travolto dall’incontro con Marco, un giovane militante di Casa Pound. Tra ombre genitoriali, di compagni di strada e di vissuto perduto, il primo racconto (Portolano degli anni bisestili) mette in scena il linguaggio della politica, la fascinazione per le parole di un mondo che sembra portare con sé un mistero (fin dall’infanzia, quando «le streghe son tornate» diventa «le streghe son tonnate»), l’intrico tra queste parole e la crescita; il secondo (Certe sere Pablo) i miti della strettoia che ha portato il Sessantotto all’abbraccio col capitalismo mediatico; e il terzo (È stato un soffio) le paradossali conseguenze del salvataggio di un professore alla vigilia della pensione da parte di un ragazzo dalle idee politiche opposte.
Le tre storie costruiscono in controluce un’antropologia politica italiana, con i miti, i sogni e le avventure dei militanti di sinistra e di destra. Soprattutto di sinistra, però, non solo per ovvie ragioni biografiche e intellettuali dell’autore, ma perché a sinistra si è consumato il passaggio dall’età delle illusioni a quella delle concessioni, dalla fiducia nella possibilità di costruire il mondo all’accettazione rassegnata del mondo così com’è, dalla giovinezza alla senilità della storia. Più esistenziali che politiche, in realtà, queste storie, perché la politica era un modo di stare al mondo, fatto di ideali di rispecchiamento, riti d’iniziazione e convenzioni sociali, anziché di dibattiti teorici e coscienza intellettuale. Marx e Gramsci sono già rimasticature, spesso funzionali a chi cerca la carriera attraverso l’apparato, senza alcuna fiducia nelle idee illuminanti e condivise.
I tre protagonisti, tutti in dialogo con un alter ego, l’io più grande nel primo racconto, l’io osservatore e rivale nel secondo e il giovane salvatore di destra nel terzo, esprimono un’adesione sentimentale alla politica, che vuol dire riempirsi di senso attraverso le liturgie collettive (l’attacchinaggio, l’assemblea studentesca, la conversazione salottiera), che sono anche strategie di rimorchio, forme di incontro e ricerca di successo. È qui che Pedullà rivela il suo punto di vista, assolutamente borghese, che viene tuttavia messo in crisi dall’interno, nel confronto sistematico tra ideale e reale che ha determinato lo scacco della cultura di sinistra in Italia. Manca forse un po’ il conflitto sociale, ma c’è certamente quello psicologico, per cui le appartenenze si sfaldano, le convenzioni si irrigidiscono e l’etica si fa etichetta.
È col sogno, infatti, che il libro si apre (col ragazzo che fa l’amore per la prima volta sul poster di Berlinguer e vive l’allucinazione di una vittoria della sinistra alle elezioni del 1994), ma è con la disillusione che il libro si chiude, nella resa dell’intellettuale di sinistra a una politica non più ideologica e ormai soltanto emotiva (che s’identifica, infine, colla possibilità di ritornare alla propria gioventù, in una mossa nostalgica che è anche una pietra tombale sulla stagione della militanza e dei sogni).
Romanzo, ho detto, anche se tecnicamente di tre racconti si tratta; ma più che un trittico è proprio un discorso unitario, quello del libro, che smonta e rimonta la storia recente attraverso tre vicende individuali che sono in realtà sintomi di un movimento collettivo, nel tentativo, ambiziosissimo, di rendere il quadro attraverso il dettaglio. È fondamentale, perciò, il montaggio, che parte dall’ieri, torna all’indietro verso le radici e salta in avanti verso l’oggi, di modo che i tre personaggi possano anche essere tre età della vita, non solo in successione, ma anche nella paradossale simultaneità che le caratterizza, col giovane che vuole essere grande, l’adulto perennemente immaturo e l’anziano che vuole tornare agli inizi. Tempo psicologizzato e interiorizzato, quindi, ma sullo sfondo della storia, come se l’universale (siamo tutti uguali e viviamo tutti gli stessi sentimenti) e il soggettivo (tutti diversi con sensibilità personali) non potessero più stare in antitesi (romanticismo e modernismo), ma debbano per forza finalmente incontrarsi. Pedullà abbandona la tensione adolescenziale che aveva caratterizzato la sua scrittura precedente (dalle raccolte Lo spagnolo senza sforzo e Biscotti della fortuna al romanzo Lame) per approdare a una maturità narrativa che gli consente di confrontarsi con la presa di coscienza che il mondo non è fatto per noi ed è più grande di noi, ma siamo comunque noi a ridurlo alla dimensione ravvicinata del nostro ego.
Su questa coscienza programmatica (un’idea di letteratura proiettata sul reale per metabolizzarlo e oltrepassarlo) e tematica (la dialettica tra l’io e la storia) s’innesta una sperimentazione stilistica, che porta i tre racconti a un movimento affascinante tra i linguaggi della comunicazione di massa (gli slogan, i cori, le scritte sui muri del primo racconto, fino allo spessore filosofico della frase decisiva: «i pompini sono di destra o di sinistra?»), l’affermazione dell’assurdo (l’iperprevedibilità dei colpi di scena di Pablo) e una tensione verso il grottesco (l’arrendevolezza di Carlo al vitalismo). Se il narratore è sempre lo stesso, con la sua assoluta padronanza dall’alto, le voci si distinguono, s’inseguono e si mescolano nella girandola dei punti di vista, nell’alternanza delle vicende e nel trionfo del disincanto. Incorporando pulsioni idiosincratiche, ritmi umani, flusso di coscienza, e digressività narrativa, le storie non sono ordinate e pacificate, ma ribollono di stridii, dissonanze, inquietudini e incertezze, col regista ad avvertire di star «prendendo la tangente», come se il tempo della coscienza stesse sempre a sfidare il tempo della storia.
Romanzo sentimentale della politica, dunque, in cui l’umoralità, l’impressione, la reazione occasionale ed emotiva sono più importanti di qualsiasi ideologia (e pure delle trame, che non si svelano per lasciarle al lettore). Eppure – ed ecco il “ma” di cui parlavamo all’inizio – c’è una pagina, messa in bocca proprio al personaggio più dubbio, l’eroe eponimo, un Felix Krull in salsa italiana e sessantottina, che è un vero e proprio manifesto politico, che chiunque faccia politica dovrà leggere per capire la distanza tra gestione dell’esistente e progetto per il futuro: resistere non basta, perché significa contrapporre a una pressione una forza opposta che finisce col restare conservatrice; bisogna guardare oltre, rilanciare e progettare. «I partigiani resistevano in attesa che arrivasse il momento di attaccare! Ed è questo attacco al cuore del sistema, aggiunge, la parte più importante (nuovi applausi)».
A dirlo è un impostore (prima che la sua natura sia svelata); ma non sta qui forse l’ironia della storia, che propone le verità proprio dove non ci si aspetta che stiano? Di quest’ironia, dalle radici ariostesche, nutrita di Pavese, e Calvino, e Fenoglio, Pedullà fa uno strumento sistematico per smontare le ideologie e rilanciare le passioni. La politica come «flusso» della vita (dallo stesso discorso): con metafora organicistica, un romanzo politico non può che spingere a cambiare assieme agli altri, rimettendosi sempre in gioco e cercando sempre nuove strade. È passione o ideologia? Sostanza o finzione? Se non ci fossero gli altri due racconti a incorniciare questo, il lettore resterebbe con l’impressione che la recita abbia prevalso sulla vita, per cui la pagina non è estrapolabile; ma, ecco ritorna il “ma” inesorabile, è davvero così?
Pedullà ci lascia senza risposte e con un forte disincanto: il ritorno al neorealismo guarda verso il new modernism. Invece di assolutizzare la lotta del bene contro il male, alla Saviano, o di ricorrere al gioco causidico dell’intelligenza tessile, alla Carofiglio, non sarà questa la strada del rilancio dell’intesa fra letteratura e politica? All’insegna dell’incontro tra intento e sentimento, per cui la coscienza critica si scioglie nella scrittura narrativa, ma la scrittura narrativa non rinuncia a un indirizzo progettuale. A raccontare, allora, può essere soltanto il critico, perché sa portare la visione dentro la narrazione, mentre allo scrittore che non sia critico non resta che sbraitare o gigioneggiare. Perciò il libro va letto: perché racconta una storia collettiva in cui tutti siamo immersi, in quanto premessa, tassello o esito; perché propone un’idea di letteratura, che fa i conti col reale per guardare oltre; e perché le tre storie, in fondo, sono anche divertenti, deviazioni dalla strada battuta per incontrare l’inaspettato.