di Antonio Francesco Perozzi

 

 

1.

Nel suo ultimo libro, Il senso della natura (Sellerio, 2024), Paolo Pecere scrive: «Questo bisogno di riconnettersi [alla natura] per stare bene rimanda a un lato negativo della vita urbana contemporanea. C’è un’altra espressione legata a questa, usata spesso da chi va a fare una passeggiata, un’escursione o un costoso soggiorno in un resort: «staccare la spina». Vuol essere liberatoria, ma è rassegnata. Significa accettare che la vita che facciamo è un processo automatico e ripetitivo». La riconnessione con la natura come nostalgia, come tentativo disilluso di superare una condizione alienata. Pecere ne parla in un saggio che si chiama Riconnettersi: meditazioni nel parco e la natura che prende in considerazione è quella di Central Park, una natura molto fisica, quindi, esperita nello spazio, ma anche conchiusa e controllata per via artificiale. Una contraddizione, insomma, tra spontaneo e indotto. Quando ho iniziato a buttare giù questi appunti non avevo ancora letto Pecere; l’ho aperto a un certo punto, quasi per caso, ma si è inserito subito nel ragionamento e mi ha aiutato a individuare alcuni passaggi: ad esempio, appunto, il fatto che questo sempre più diffuso desiderio di riconnessione non può esistere senza il suo contrario, senza cioè la frequentazione fattuale, tendenzialmente obbligata, del non-naturale, della città, della vita alienata. Credo che l’immagine della natura, oggi, non possa essere approcciata se non a partire da questa decurtazione o compromissione. Aspetto che, invece, viene spesso a sua volta decurtato, quando si parla – essenzializzandola, estetizzandola – di natura, negli ambiti più disparati, dalle politiche sull’ambiente alle rappresentazioni estetiche (e infatti qui ho provato a parlarne, per dire, anche in relazione alla poesia).

 

2.

Vista la capillarità (e anche urgenza, se in ballo c’è il nostro modo di considerare il pianeta) di questo discorso, ho pensato di partire da qui per inaugurare questa serie sulla musica. Di partire, cioè, da field e nature recordings, dalle registrazioni sul campo. Per gli articoli di questa serie non si tratterà di teorie sistematiche ma di un insieme di frammenti, tracce dell’esperienza d’ascolto di un riproducibilissimo soggetto della classe medio-bassa italiana che ha il vezzo di scrivere e di ascoltare musica. Con l’obiettivo, però, di legare l’ascolto a considerazioni più ampie sullo stare nel nostro tempo e di fronte alle sue contraddizioni. La musica, del resto, è una delle esperienze estetiche più diffuse; ma vive per gran parte sotto l’operazione ricattatoria delle piattaforme streaming, che consolidano una comfort zone uditiva, o la impongono. Attraversare obliquamente, cioè criticamente, questa audiosfera algoritmica – ho pensato – potrebbe essere l’opposto di quanto incentivato dalle piattaforme; quindi, magari, utile.

 

3.

E anche per questo ho scelto il nature recording. Perché tocca il tema oggi capitale della relazione con gli esseri inumani e perché si tratta di un genere che riesce a perforare la parete della musica tout court, una sorta di buco nero prodotto dalla frizione tra il suo contenuto e il suo contenitore, che fa vacillare e risucchia al suo interno un certo numero di aspettative che un ascoltatore medio (tipo me) proietta automaticamente sulla musica. Premessa informativa. Per nature recording intendiamo – detto in maniera generalissima – la registrazione di suoni d’ambiente. È un genere che intreccia la sua storia con la musica concreta e la musica sperimentale della metà del Novecento e, successivamente, con quella dell’ambient. Funziona quindi (in linea di massima) eliminando gli strumenti musicali e lavorando – registrandoli sul campo, manipolandoli – suoni emessi “direttamente dalla natura”. Si capisce come le possibilità di questo genere siano sterminate, soprattutto se cominciamo a problematizzare ciò che intendiamo per “natura”. Per il momento, però, prendiamo per buono il concetto così come intuitivamente ci si presenta, con le immagini che “spontaneamente” (in realtà favorite da precise costruzioni culturali) evoca in noi – sia per semplificazione sia perché proprio questa intuizione/ambiguità avrà un ruolo nel discorso. D’altronde, il nature recording è un sottogenere del field recording, inteso come registrazione sul campo in quanto tale, fonografia, che si estende, ben oltre la sfera “naturale”, alla captazione di qualsiasi emissione sonora, e finisce per mescolare in maniera praticamente inscindibile il fine artistico e quello documentaristico (sia esso di stampo etnomusicologico o bioacustico o altro ancora). Un album come Recordings of Shortwave Numbers Stations di The Conet Project (Irdial Discs, 1997), ad esempio, si può considerare field ma non nature: è un esemplare significativo delle radio broadcast recordings, ovvero registrazioni (fortemente compromesse e di scarsa qualità audio) di brandelli di trasmissioni radio. Nel caso specifico (cui hanno collaborato fra gli altri anche Boards of Canada e Wilco) si tratta di campionamenti dalle cosiddette number stations, emittenti di origine sconosciuta alle cui criptiche trasmissioni è legato un intero immaginario di messaggi cifrati e comunicazioni tra spie. Niente che assoceremmo alla “natura”, dunque. D’altra parte, lo stesso nature recording risulta sfrangiato in una serie di sottogeneri che nel tempo hanno finito per acquisire una propria, forte, riconoscibilità. Il caso più chiaro è quello degli animal sounds, registrati sia con obiettivo estetico che scientifico, a loro volta moltiplicati in sotto-sottogeneri ben individuati, come i canti di balena e di uccelli o i suoni prodotti dagli insetti (en passant, consiglio tre album pionieristici: Songs of the Humpback Whale di Roger Payne (Capitol Records, 1970), Oiseaux du Venezuela di Jean C. Roché (Edward Records, 1973) e Sounds of insects di A. T. Gaul (Folkway Records, 1960)). Anche stringendo il campo e accantonando questi sottogeneri o aree parallele, comunque, le soluzioni rimangono pressoché inesauribili. Tuttavia, ascoltando molti album, ci si accorge che alcuni elementi appaiono ricorrere con una certa frequenza. Ciò che ho provato a fare, perciò, è stato individuare tre filoni (e una manciata di dischi rappresentativi) che, se attraversati in un certo modo, possono portare acqua al nostro discorso. Ovvero tre filoni che accolgono questa tensione alla riconnessione con la natura in tre gradi differenti e svelano così una contraddizione che, a mio parere, è in realtà la parte più interessante di questa pratica artistica.

 

4.

Se di riconnessione si vuole parlare, infatti, la cosa che viene più semplice da fare è intendere il nature recording come lo sforzo di scavalcare una frattura originaria e di rientrare in contatto con la natura. Di che tipo di frattura si tratti, e se sia effettivamente una frattura (penso qui a ciò che Latour chiama «Grande Divisione»), possiamo lasciarlo in secondo piano. Nei confini ristretti di questo discorso, il dato che mi interessa di più è l’idea che la musica – forse in quanto esperienza non verbale – e in particolare il nature recording – forse per il suo mimetismo o per la sua decostruzione – possano essere intesi come antidoti armonizzanti a questa frattura x. Un caso cristallino di questa modalità l’ho rintracciato in 風のオアシス~イオンの森~ di Takashi Kokubo (Studio Ion, 1996). Nei tre lunghi brani che compongono il disco, registrazioni di suoni ambientali (prodotti ad esempio da foreste o uccelli) si intrecciano senza soluzione di continuità a strumenti musicali propriamente detti (tastiere in primis). Il risultato è un ambient particolarmente ricco, che offre un paesaggio rigoglioso e ospitale, in cui la frattura appare risolta, o almeno messa momentaneamente da parte. È comprensibile che il nature recording, per un lato, produca risultati di gusto new age: una nuova età – potremmo leggerla così – un’età di nuova armonia col mondo inumano scaturisce dalla capacità del gesto umano di rientrare nell’ethos della natura, così come il suono artificiale si intesse senza smarginature nei suoni dei boschi. Certo, il caso considerato rappresenta un punto di massima di questo tipo di entusiasmo (risultati simili li troviamo in Nova:Soundscape 2 di Yukata Hirose (Misawa, 1986) e In the forest di Takatoshi Naitoh (Eastworld, 1993)); ma possiamo facilmente accogliere in questo filone “armonizzante” anche altre operazioni che, pur senza toccare il new age, riescono a far convivere naturale e artificiale in un orizzonte di collaborazione e co-significazione. Esempi utili in questo senso potrebbero essere 鮎川のしづく di Ichiko Aoba (autoprodotto, 2019) e Autumn Is Coming, We’re All in Slow Motion di Andrea Ferraris & Matteo Uggeri con Mujika Easel e Andrea Serrapiglio (hibernate, 2010), entrambi costruiti alternando suoni naturali e suoni artificiali. Nel primo caso l’alternanza è più netta: se talvolta i due piani si intersecano, spesso compaiono tracce di solo suono acquatico (il tipo di suono più presente nell’album) oppure, per contro, di puro indie folk o spoken word. D’altronde Aoba è nota soprattutto per il suo lavoro cantautorale e questo album rappresenta, semmai, uno spin-off in cui la sua ricerca sui suoni ambientali, pure integrata anche in molta sua produzione “pop”, è spinta un passo più avanti. Il grado di mescidazione è invece maggiore nel caso di Ferraris e soci, in cui i brani sovrappongono nello stesso spazio sonoro emanazioni antropiche e non. Gli stessi titoli delle tracce, anzi, elencano oggetti e situazioni coinvolte, più o meno naturali, e si passa così da Steps on leaves, kids on skateboard, steps in the mud a Bicycles, football, volley and other sports in a public park, with birds all around, con una costante presenza di chitarre o tastiere che si amalgamano alle registrazioni naturali e co-costruiscono questa atmosfera di sospensione, di malinconica attesa che dà il titolo al disco.

 

5.

Proprio questi ultimi esempi dimostrano, però, come il confine tra naturale e artificiale sia tutt’altro che pacifico. Se in Kokubo la dissimulazione permette di creare un impasto sonoro unitario e conciliante, gli esempi di Aoba o Ferraris & Uggeri, anche solo giustapponendo le parti, rendono più sfumato il rapporto tra tipologia della fonte sonora e cornice in cui il suono si inserisce. Come dire: nello spazio della registrazione, strumenti propriamente detti e field recording finiscono per sovrapporsi armonicamente ma allo stesso tempo entrano in contrasto nel momento (più o meno immediato) in cui l’ascoltatore riconosce la loro origine. Questa contraddizione si amplifica ulteriormente in operazioni che fanno coincidere l’interesse alla registrazione d’ambiente con l’obiettivo etnomusicologico. È ciò che avviene, per dirne uno, in Tuva, Among the spirits: sound, music, and nature in Sakha and Tuva, realizzato nel 1999 da vari artisti per la Smithsonian Folkways Recordings. Le brevi tracce (spesso sotto i due minuti) che compongono il disco obbediscono tutte all’intento documentaristico: catturare il paesaggio sonoro della Siberia scomponendolo nei suoi elementi (e fonti) essenziali. Nella Reverberant valley che apre l’album compaiono gorgoglii di fiume, canti di uccelli, vento, ma anche una Fantasy on the Igil (strumento tradizionale tuvano a due corde) e varie forme di xöömej (il canto difonico tuvano che verrà poi portato alle soglie del mondo mainstream dagli Huun-Huur-Tu) in grado di evocare, addirittura, Cave spirits. Animali, elementi naturali, umani, spiriti, insomma, costituiscono il Sonic landscape che l’album mira a registrare, con gli elementi che si affiancano e mescolano, come succede al canto umano che si intesse al galoppo e all’acqua in Xöömej on horseback e Borbangnadyr with Steam Water. Più che la compresenza di fonti eterogenee, però, è il loro simularsi a vicenda l’aspetto più interessante: accanto alle registrazioni finora elencate, focalizzate ognuna su una o due fonti sonore esplicitate nel titolo e ben riconoscibili all’ascolto, si trovano esperimenti come Birds and bird imitations o Ang-Meng Mal-Magan Ottuneri (Imitation of wild and domestic animals), in cui i suoni “naturali” (come i versi animali) si mischiano a quelli “artificiali” di voci umane che li imitano. Si capisce come a questo punto il confine tra i due livelli si faccia assai più labile, e in duplice senso: c’è l’artificiale che imita il naturale ma anche il naturale che, inserito in una cornice di registrazione, in cui compaiono anche suoni artificiali, si artificializza a sua volta; o perlomeno rende impraticabile il gesto di attribuzione netta di un suono alla sfera “natura” e, di conseguenza, compromette un discorso essenzialista su cosa è natura, quale fonte sì, quale no. Questa delegittimazione ha però un vantaggio: accantonato il vizio ontologico, viene in primo piano il livello pragmatico, su cui importa ragionare a proposito di effetti, possibilità, significati culturali di questa contraddizione. Una Birds and bird imitations, del resto, si può leggere almeno in due modi: 1) in una terra a basso tasso antropico come la Siberia, in una terra “esterna” (sguardo snob-classista occidentale) dal più recente progresso tecnologico, umano e naturale si manifestano a un più profondo grado di interrelazione e ne è testimonianza la compenetrazione di questi suoni, la capacità dell’umano di ascoltare e replicare i suoni della natura; 2) la possibilità della simulazione, la giustapposizione tra simulato e simulatore, mette in crisi ogni caso di riduzione essenzialista del suono e della “natura”. Quale che sia la lettura scelta, comunque, questa stessa bipartizione interpretativa mette in chiaro come il field recording non possa pensarsi pacificamente come restituzione neutra, o addirittura celebrativa, del fatto sonoro naturale.

 

6.

Veniamo così all’ultimo punto. Considerata questa contraddizione, il field recording, e nello specifico il nature recording, appare in una luce diversa (almeno alle orecchie di un ascoltatore medio come quello che scrive). La luce, cioè, non di una restituzione estasiata e nostalgica del naturale, ma di un’intenzione più conflittuale, in grado di produrre, assieme alla meraviglia del suono naturale, anche l’inquietudine della sua irraggiungibilità da parte umana. Non ho in mente, infatti, un’inquietudine meramente “cromatica”: è chiaro che accanto a risultati che ritraggono la natura nella sua armoniosità e dolcezza (come quello di Kokubo) ce ne sono altri uguali e contrari che ne avvertono la minaccia (penso qui a Cho Oyu 8201m – Field Recordings From Tibet del 2006 (Ash International), con cui Geir Jenssen/Biosphere ripropone gli scenari sonori spogli e ventosi del Tibet, o alla desolazione subacquea di Energy field (Touch, 2011) di Jana Winderen). Per quanto affascinante, si tratta, tuttavia, solo di un cambio di colore, appunto; che non mette realmente in crisi la pratica lineare di acquisizione e restituzione del suono naturale. L’inquietudine di cui parlo, che si percepisce già in Tuva, è meno impressionista e più concettuale e trova espressione compiuta, ad esempio, nei lavori del compositore americano Micheal Pisaro, in cui la tensione verso la riconnessione e il riflusso dell’ascoltatore a un’area indeterminata e fuori controllo sono attraversati contemporaneamente, o dialetticamente. Già nel titolo, il suo Nature denatured and found again (Gravity Wave, 2019) mostra le diffrazioni interne al nature recording, la registrazione di campo come pratica auto-dialettica: la Rain at the station che apre il disco annuncia in partenza la sovrapposizione tra natura e tecnica e il lungo percorso di venti tracce da dodici minuti spaccati ognuna si srotola, sì, come un lungo e vario compendio sonoro, tra Bird Warnings ed Electricity, ma anche come un film di creazione e distruzione continua (teste la coppia contigua Building a world e The disappearence of a world che si trova, forse non a caso, a metà dell’album). Lo Small new world cui si approda nel finale, quindi, nella sua ancora ibridazione tra uccelli e suoni urbani o drone music, non sembra essere un approdo stabile e definitivo e si preannuncia come fase di passaggio per un ulteriore innesco della pratica di “denaturazione” e “rinaturazione” continua di cui consiste il nature recording. Un taglio ancora più esplicito, poi, nel precedente Continuum unbound (Gravity Wave, 2014). Fin dalla struttura, la tripartizione del disco permette di seguire un percorso ben preciso, e ben scandito: dall’apertura di Kingsnake Grey (animata da una profonda, dronica, registrazione forestale), si passa a Congaree Nomads (in cui suoni naturali e interventi strumentali tendono ad alternarsi) e si conclude con Anabasis (in cui le stratificazioni drone e field recording si accatastano al punto da saturare integralmente il quadro). È l’anabasi, appunto, l’internarsi dell’ascoltatore nel paesaggio sonoro fino al punto da non riconoscerne più i contorni, da non distinguere più le fonti.

 

7.

Ecco, dialettica interna, contraddizione. Capire cos’è che realmente viene found again alla fine del percorso, se la natura per come siamo abituati a pensarla o qualcosa di diverso, rimane il nodo irrisolto. Pecere distingue tre modi di intendere la natura: quella dell’«esperienza quotidiana», ovvero «l’ambiente sensoriale in cui viviamo», quella «di cui parlano le scienze: l’insieme dei fenomeni che avvengono secondo leggi indipendenti da noi», quella «di cui parlano mito, sapienza e metafisica: l’origine di tutti i fenomeni». Idee che chiaramente si intersecano e comunicano ma che forse, proprio nel momento in cui si isolano come uniche possibilità, rischiano di fare della natura qualcosa di limitato, e magari anche ideologicamente utilizzabile (in senso relativistico la prima, in senso sfruttante la seconda, in senso mistico la terza. Ho scelto di cominciare dal nature recording, per questa rubrica, perché mi sembra intercettare un problema che è particolarmente centrale nella cultura del nostro tempo (per la questione climatica e altre connesse ragioni), ovvero il tentativo di rispondere alla domanda “che cos’è la natura?”. Una domanda che, in base alle risposte, comporta anche azioni e prospettive, e che perciò attraversa trasversalmente tutta la coscienza collettiva. Non essendo un esperto – perché qui, come detto, vorrei propormi come ascoltatore comune, trascrittore di un’esperienza d’ascolto – non so dire che ruolo preciso possa ricoprire la musica in questo discorso. Quello che posso dire però è che questi dischi, questo genere musicale, spinge, forse anche suo malgrado, a ragionare in maniera più complessa su cosa intendiamo come natura. E che il nature recording – ad esempio quello di Pisaro – può funzionare proprio come rivelazione di una contraddizione, del fatto che, registrandola, attribuendole il carattere di “suono naturale”, suono prima della “cultura”, la “natura” ci mostra allo stesso tempo la sua confortevole vicinanza e la sua inquietante distanza e inafferrabilità. Non lo so. Ho pensato questo. Mentre ascoltavo Pisaro a un certo punto ha iniziato a piovere e il ticchettio dell’acqua sulla tettoia del buco in cui abito si è mischiato con la musica, continuum unbound.

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