Le memorie dell’ambientalismo operaio nel polo chimico di Spinetta Marengo, Alessandria

di Angelo Castellani e Vittorio Martone

 

Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

Nel settembre 2024 l’acronimo Pfas, sinora molto conosciuto nella chimica e in una parte dell’attivismo ambientalista, è entrato nel cuore del dibattito istituzionale europeo. Mario Draghi, presentando il report sulla competitività del Continente, ha detto che i Pfas servono alla produzione di tecnologie pulite, basilari per la cosiddetta transizione green; pur essendo potenzialmente nocivi, sono necessari e non vanno limitati. In un solo colpo, tanti paradossi: una transizione vista come innovazione tecnologica governata dall’alto; l’imposizione di sostanze tossiche prodotte prevalentemente in contesti socio-economici svantaggiati; la giustificazione dell’inquinamento come inevitabile contropartita del progresso. La transizione immaginata da Draghi produce e riproduce “zone di sacrificio” nel cuore del Nord Globale ricco e sano. La produzione di Pfas sposa perfettamente questa logica, in virtù dell’ubiquità di questi composti: tracciabili a bassa soglia praticamente in ogni aspetto della vita quotidiana, ma fortemente impattanti attorno ai poli industriali in cui si producono o se ne fa uso. Affermare che la transizione green necessiti di tali composti significa localizzare vecchie e nuove produzioni sgradite presso popolazioni e territori “sacrificabili”, acuendo così processi di ingiustizia ambientale distributiva. Tali territori sono spesso stretti tra le eredità dell’industrialismo tossico e la minaccia di dismissioni e disoccupazione, riproponendo così in chiave green la presunta alternativa tra lavoro e benessere materiale, da un lato, e ambiente e salute, dall’altro[1].

 

D’altronde la storia stessa dei Pfas assume una postura arrogante sin dalla sua progettazione. L’acronimo indica le migliaia di composti poli e perfluorurati che, per la resistenza alle temperature e la repellenza ad acqua e grassi, sono riconosciuti come “inquinanti universali” (altamente idrofilici e mobili, onnipresenti nei corpi umani e non umani e in tutte le matrici ambientali) e “inquinanti eterni” (cumulativi e persistenti, bioaccumulabili e capaci di resistere ai consueti metodi di disinquinamento). Già dal 2013 l’Istituto Superiore di Sanità segnalava che l’esposizione ai Pfas attraverso acqua e cibo impatta fortemente la salute umana con danni al fegato, malattie della tiroide, obesità, problemi di fertilità e cancro. L’Istituto commentava i dati del CNR-IRSA (specializzato sulle acque) che nello stesso anno avevano mostrato come il bacino idrografico del Po fosse tra le aree più contaminate da Pfas in Europa, individuando due aree interessate da scarichi industriali: la parte bassa della provincia di Vicenza, sede di un polo produttivo di perfluorurati; l’area di Spinetta Marengo, ad Alessandria, sede di un polo chimico specializzato in fluoropolimeri. Nel primo caso, una mobilitazione popolare ha condotto alla chiusura di uno stabilimento chimico e all’apertura di un processo penale nei confronti degli ex manager, in cui sindacati, associazioni ambientaliste e centinaia di vittime compaiono come parte civile. Nel secondo caso, l’azienda – rimasta unica produttrice di Pfas in Italia – prosegue l’attività in uno stabilimento ex Montedison-Ausimont, che oggi occupa circa mille dipendenti e si sviluppa su 130 ettari e 50 km di tubazioni per acque di processo, raffreddamento, fognarie e di depurazione. Qui iniziative collettive e denunce pubbliche, assemblee e manifestazioni, biomonitoraggi civici ed esposti in Procura sono alcune delle azioni che associazioni ambientaliste, comitati cittadini e altri collettivi portano avanti, con non poche difficoltà. Queste mobilitazioni si scontrano infatti con una sostanziale assuefazione al danno industriale, che vede a Spinetta Marengo e ad Alessandria bassissimi livelli di attivazione collettiva, dentro e fuori la fabbrica. Il silenzio e una certa passività sono elementi ricorrenti nella letteratura sulle contaminated communities ma, in questo caso, è possibile indagare un’ipotesi ulteriore: l’assuefazione al danno industriale a Spinetta Marengo è anche l’esito di anni di compromessi e negoziazioni che hanno normalizzato l’esposizione pluriennale alle sostanze tossiche. Basti pensare che il primo embrione dell’attuale polo chimico a Spinetta Marengo risale al 1905 e nei 120 anni successivi ha attraversato diverse specializzazioni produttive, diversi assetti proprietari, ha coinvolto quattro generazioni di lavoratori. In oltre un secolo “la fabbrica” ha contribuito alla produzione storica di territorialità: da un lato, funzionalizzazione, infrastrutturazione e professionalizzazione delle nature (acque, suolo, biodiversità) organizzate ai fini produttivi; dall’altro, produzione di paesaggio industriale, dimensione estetica e trasposizione simbolica del carattere progressivo della tecnica e dell’industria. In questi termini, siamo dunque di fronte a un caso di slow violence, una violenza ambientale graduale e accrescitiva, a lungo invisibile a chi la subisce, dalla distruttività ritardata e logorante, che conduce al generale declino delle condizioni di vita[2]. È questa un’angolatura specifica che supera il confine tra dentro e fuori la fabbrica: in un territorio profondamente segnato dallo sviluppo industriale e soggiogato alla violenza narrativa della crescita infinita, la scoperta della contaminazione è anche una perdita ecologica. In altre parole, oltre a scoprire la contaminazione dei corpi, a fare esperienza della malattia professionale o della perdita di familiari, la contaminazione coincide con la minaccia di perdita del lavoro e del paesaggio industriale, l’immagine rassicurante del proprio luogo di vita “produttivo”, simbolo di benessere e promessa tecnologica, ma anche ordine economico, politico, ecologico e morale.

 

Per indagare questa ipotesi, abbiamo approfondito la storia sociale di questo polo chimico, con particolare attenzione alle memorie operaie e alla stagione di conflittualità per l’ambientalismo operaio registratasi tra il ’68 e il ’72. Il materiale empirico che citiamo qui è raccolto nell’ambito di un programma di ricerca interdisciplinare avviato dal 2021 presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Il programma coinvolge docenti e studenti nei campi della sociologia, dell’antropologia, della storia contemporanea e della geografia politica attraverso tesi di laurea, laboratori didattici, seminari e attività ricerca. La ricerca si concentra sugli effetti sociali e politici dell’inquinamento, raccogliendo le istanze di giustizia ambientale espresse da movimenti sociali e comitati di cittadini. Adottiamo l’approccio della community-based participatory research, collaborando con le comunità contaminate per coprodurre saperi e conoscenze locali, costruire piattaforme e proposte legislative più stringenti, richiedere maggiori controlli e pretendere attività di bonifica. Nello specifico dell’analisi delle testimonianze operaie, abbiamo usato l’archivio Montedison custodito dall’ISRAL (Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria), che raccoglie una serie di interviste condotte negli anni Ottanta ai lavoratori e alle lavoratrici del polo chimico, assieme a referti medici, planimetrie, resoconti dei consigli di fabbrica e rassegne stampa. L’utilizzo delle testimonianze dell’archivio Montedison riflette un posizionamento epistemologico e politico per il quale la comprensione dell’impatto nocivo dell’organizzazione del lavoro sulla salute lavorativa è possibile solamente attraverso il recupero dell’esperienza operaia[3]. La decisione di dare ampio spazio a queste storie è frutto di tale scelta. Oltre alle fonti scritte, sono state condotte interviste con abitanti, attivisti, esperti e giornalisti, partecipazione a eventi pubblici e udienze nei processi penali. Per questo caso specifico, abbiamo inoltre collaborato con chi ha costruito l’archivio sin dalle origini[4], con un ex operaio storicamente attivo nelle lotte per la salute nel polo chimico[5], con un ex amministratore locale, profondo conoscitore della storia del polo chimico[6].

 

Nel corso della centenaria storia del polo chimico di Spinetta Marengo lavoratori e lavoratrici hanno a lungo dovuto confrontarsi con un ambiente insalubre e nocivo, essendo costretti a convivere con polveri, fumi, fughe di gas, caldo debilitante, pericoli costanti. Prima che la salute diventasse un tema centrale nelle rivendicazioni operaie, a fine degli anni ’60, le condizioni in cui operava la fabbrica li esponeva a rischi costanti per la loro incolumità. La percezione di questa condizione ricorre con lucidità e costanza nelle interviste raccolte nell’archivio Montedison. Le condizioni di lavoro imprimono nella memoria operaia un immaginario costellato di rimandi alla morte e alla nocività: “Non ce n’era uno che non avesse il naso bucato da parte a parte, gli si vuotava il cervello”[7]; “Entravano lingue di sole dal tetto, l’inferno dantesco, questo pulviscolo arancio, satura l’aria…[…] Ogni badilata volava…tutti hanno avuto il setto nasale, perfino i manutentori…”. Il riferimento al “naso bucato” riguarda uno specifico reparto di produzione, i bicromati, la cui lavorazione causava la rottura della cartilagine tra le narici.

 

Le conseguenze del rapporto quotidiano e costante con sostanze cancerogene e dannose influenzano i corpi di chi lavora in maniera diretta, tangibile, visibile, rende impossibile ignorarne gli effetti. È lecito quindi domandarsi, a fronte dell’innegabile evidenza del danno, come sia stato possibile per i lavoratori accettare una simile condizione lavorativa. Il dato che emerge maggiormente è una sensazione diffusa di rassegnazione, collegata alla percezione che le cose non potessero essere altrimenti e che non esistessero alternative. Gli operai comprendevano i rischi, ma non erano nella posizione di dire di “no, questo lavoro non lo faccio e non ci vado, dove si andava?”, nonostante “non è che non si comprendesse, lo comprendevamo e sa, i bicromati, il cromo è una cosa tremenda”.

 

Questa sproporzione nei rapporti di forza si può ritrovare anche in un altro elemento chiave alla comprensione del rapporto operaio con la nocività e la rassegnazione ai rischi: il rapporto con l’expertise medica. Fino alle agitazioni di fine anni ’60, l’unico parere medico a disposizione degli operati del polo chimico rimane quello di medici al servizio dell’azienda. Stipendiati direttamente dalla Montecatini, svolgono un ruolo chiave di messa in discussione del vissuto operaio. Nel momento in cui gli operai cercano di portare in primo piano la propria esperienza e i segnali dei propri corpi, i medici intervengono per metterli a tacere. Usando il sapere medico al proprio servizio, la dirigenza non solo costruisce un’impalcatura discorsiva ed epistemica che rende accettabile i rischi, ma riesce a intervenire sulla stessa autopercezione che i lavoratori hanno del proprio corpo e della propria malattia. La dirigenza sa che le sue produzioni sono nocive, i lavoratori sanno che le produzioni sono nocive, i medici sanno che le produzioni sono nocive. Ma l’incontro tra il potere economico della fabbrica e il potere epistemologico dei dottori, al servizio della dirigenza, è sufficiente a sminuire e invalidare il vissuto operaio. Questa negazione dell’esperienza operaia poggia sulla considerazione che i loro corpi sono corpi poveri, spendibili, sacrificabili, che valgono meno e la cui malattia è il semplice prezzo – bassissimo – da pagare per produrre.

 

Questo potere di definizione inizierà a essere messo in discussione all’inizio degli anni ’60. In quel periodo una serie di cambiamenti interni alla composizione dello stabilimento e un elevato numero di morti sul lavoro scuoteranno le coscienze operaie in modo inedito, aprendo nuovi spazi di contrattazione, definizione e controversia sui rischi. Un caso è considerato di rottura in questo percorso: il decesso di Giampiero Massa. Nell’evoluzione storica della negoziazione, questo evento è una piccola, prima crepa di una struttura solidificata e accettata nella quale i corpi operai sono semplicemente considerati spendibili e sacrificabili. Nel ’61 apre la prima linea dell’Algoflon, prodotto di punta anche dell’attuale azienda fino al 2023, per la cui preparazione si utilizzano Pfas. Massa è un addetto al laboratorio, e sta svolgendo un turno notturno: una fuoriuscita dalla rete fognaria rilascia lentamente il gas, facendo sì che Massa lo respiri gradualmente senza accorgersene. Al mattino Maestri, un altro operaio, gli dà il cambio. L’Algoflon è inodore e incolore, ma non in quantità così elevate: Maestri si accorge che la stanza è piena di gas e avverte i suoi superiori, che indentificano la perdita. Per Massa è però oramai troppo tardi: dopo un periodo di ricovero in stato di coma, muore il 22 gennaio del ’62. Aveva 19 anni. La morte di Massa rompe la marginalità del tema della salute in fabbrica nei cosiddetti “anni del silenzio”, coincidenti con il decennio ’51-’61. Da questo momento si innesca il processo che, in maniera carsica e non lineare, porterà a un’esplosione della conflittualità.

 

Due aspetti hanno pesato su questo processo: il ricambio generazionale dato dalle nuove assunzioni; la ristrutturazione produttiva. La fabbrica stava attraversando un periodo di grande espansione che si compirà nel 1966 con la fusione tra la Montecatini ed Edison. Inizia un processo di mutamento che, intrecciandosi con i diversi momenti di ristrutturazione produttiva e ricambio della manodopera, investe la soggettività e i comportamenti dei lavoratori. Se prima erano principalmente abitanti della zona, con l’avanzamento tecnologico e produttivo si comincia ad assistere a un richiamo di professionalità altamente qualificate anche dall’esterno. È da questo momento che è possibile individuare l’inizio di un percorso di presa di coscienza che esplode tra il ’68 e il ’72. Si osserva una vera e propria rottura sul terreno della salute in fabbrica: una novità per il locale movimento operaio, che dalla contestazione delle condizioni di lavoro in fabbrica investe tutta la comunità del sobborgo. Si tratta di proteste che affiancano la rivendicazione salariale con richieste di gestione dei problemi riguardanti l’ambiente di lavoro (concessioni di indennità di malattia, adozione di maschere, filtri e guanti, eccetera). Nell’agosto ’67 la FILCEP-CGIL invia a tutti gli iscritti della provincia di Alessandria un documento sul problema della salute in fabbrica. Questo documento è l’ultimo tassello necessario, alle porte del ’68, per comprendere gli eventi che seguono. C’è una classe lavoratrice sfruttata e sottopagata, che lavora in condizioni di profondissimo disagio, e per la quale la morte e l’infortunio fanno parte del quotidiano. Questa classe ha impressa nella propria memoria e nel proprio vissuto tutta una serie di immagini di questa violenza lenta, che emerge dalle molteplici testimonianze usate fino ad ora per questo lavoro. C’è una classe dirigente che cerca in tutti i modi di non affrontare il tema della salute, reprimendo il dissenso interno tramite compensazioni di denaro e referti medici ingannevoli, quando non ricorre a strumenti di mobbing vero e proprio grazie al suo apparato di sicurezza privata. C’è una nuova generazione di lavoratori, che è presente da quasi dieci anni nello stabilimento e che ha già vissuto fasi di intensa mobilitazione. C’è il primo documento che tratta esplicitamente il tema della salute, che inizia a circolare tra gli operai dello stabilimento. E infine, c’è l’occasione giusta per far detonare il tutto: il rinnovo dei contratti nazionali[8] dei chimici del ’68. Come noto, il CCNL che ne seguirà, raggiunto il 12 dicembre del ’69, presenta un articolo, il numero 23, titolato “Ambiente di lavoro”. Nell’articolo viene sancito che “non sono ammesse le lavorazioni nelle quali la concentrazione di vapori, polveri, sostanze tossiche, nocive e pericolose superi i limiti massimi (MAC) stabiliti dalle tabelle dell’American Conference of Governmental Industrial Hygienist ” e “le rappresentazioni sindacali aziendali parteciperanno alla ricerca ed alla adozione delle misure di prevenzione e sicurezza intese a eliminare le cause che determinano condizioni di pericolo, nocività o particolare gravosità di lavoro”. È soprattutto questa seconda parte a segnare un cambiamento radicale, perché aprirà definitivamente le porte all’intervento della Clinica del Lavoro dell’Università di Pavia, già menzionata in un accordo interno allo stabilimento del giugno dello stesso anno. Il nuovo contratto del ’69 consente quindi “di avviare le rilevazioni all’interno della fabbrica per il controllo delle situazioni ambientali”.

 

Per gli scopi qui discussi, la grande novità che viene introdotta dal rapporto con la Clinica del Lavoro è l’assenza di una mediazione da parte della fabbrica. Sono gli operai in prima persona a curare i rapporti con quest’ultima, sono loro a raccogliere i dati e a prelevare i campioni, e soprattutto sono loro a raccogliere i risultati delle analisi e a farseli spiegare direttamente dai medici. L’assenza di mediazione, il rapporto diretto tra i medici e gli operai, è un passaggio cruciale nel riabilitarne l’esperienza diretta e nel dare valore a quanto hanno vissuto sulla propria pelle. Dopo decenni di rapporti con medici collusi e al servizio dello stabilimento, è facile intuire la radicalità di un simile cambio. Come racconta Vazzana – dipendente Montedison – gli operai andavano “in delegazione a Pavia direttamente dal Direttore, dal Vicedirettore per farci spiegare il significato di questi dati, di questi numeri, che cosa voleva dire in termini di salute, di aggressione all’organismo umano avere un ambiente di questo genere”[9]. Le richieste sono di riportare i livelli di nocività dei reparti entro livelli ritenuti accettabili dalla Clinica, e in caso contrario di chiudere i reparti. I medici della Clinica iniziano “a fare dei rilievi e mandare giù dei referti […]; è stata riconosciuta veramente la malattia professionale, che tutta sta gente è morta di tumore e allora lì l’Istituto dell’Università di Pavia, della Clinica del lavoro non ha potuto far altro che affermare che la causa era quella lì”. La Clinica è fondamentale nel giustificare il vissuto operaio tramite la sua qualifica di sapere esperto, e quindi legittimante. Tutte le testimonianze sulla nocività che sono state usate per la costruzione di questo lavoro diventano improvvisamente più valide agli occhi della dirigenza e della sfera pubblica nel momento in cui ricevono l’avallo di un istituto collegato all’Università. Se prima l’expertise medica veniva usata per invisibilizzare tutto il vissuto operaio sul tema della nocività, ora invece è fondamentale per la sua visibilità, credibilità e rilevanza. Questa riappropriazione del sapere medico consente un momentaneo riallineamento degli squilibri di potere, mettendo gli operai nella condizione di potersi scontrare con la dirigenza sullo stesso campo che a lungo ne ha causato la subordinazione.

 

Questa ricostruzione aggiunge alcuni tasselli utili alla comprensione della situazione contemporanea, che vogliamo qui richiamare e che riguardano tre dimensioni: la violenza ambientale lenta come processo sociale, il tempo e la memoria come dimensione del potere, la perdita ecologica in comunità contaminate.

Una lunga contaminazione chimica, giustificata da negoziazioni e compensazioni, nel quadro di profonde asimmetrie di potere di conoscere e di definire danni e crimini ambientali. Sarebbe però errato ritenere che tale violenza fosse invisibile o non percepita come violenza. La ricostruzione ha mostrato come la percezione operaia della nocività fosse presente lungo tutto l’arco della storia dell’impianto, invisibilizzata attraverso forme di repressione del dissenso e di violenza narrativa effettuate anche tramite l’uso del discorso scientifico. La violenza era visibile a chi la subiva, ma imposta e resa accettabile dall’impalcatura repressiva e discorsiva. La crescente tensione che ha attraversato gli anni ’60 e ’70 ha rappresentato una stagione cruciale per l’ambientalismo operaio che, attraverso la contestazione del sapere esperto – in particolare della medicina democratica – ha ottenuto la chiusura di settori inquinanti, ma anche compensazioni e negoziazioni per i danni sopportati. La gradualità della violenza trasforma poi il tempo in una forma fondamentale di potere, confondendo le responsabilità presenti nell’irresponsabilità prolungata delle decisioni del passato, e rinviando le prospettive di riparazione e bonifica a futuri incerti. Visitando lo stabilimento e chiedendo al vice direttore che ne sia stato dei reparti tossici e nocivi che abbiamo incontrato in questo articolo, ci è stato risposto che non ne rimane nulla. La dirigenza impiega quindi tre meccanismi discorsivi collegati ai diversi livelli di temporalità: il passato viene costantemente occultato, rimosso, disconosciuto; il presente e le sue contraddizioni negate; quello che rimane è un imprecisato futuro in cui le promesse della modernità di sviluppo, progresso e benessere dovrebbero finalmente darsi, riscuotendo i sacrifici fatti finora. Il governo della memoria è dunque il mezzo attraverso il quale si traduce il tempo come forma di potere. L’attuale azienda proprietaria del polo chimico ha una esplicita strategia memoriale volta a “ripulire” la propria immagine dall’idea di tossicità ‘del passato’. Contestualmente, minaccia lo spettro della delocalizzazione per legittimare ancora il ricatto occupazionale in un’area presentata come monoindustriale; il rischio di dismissione senza bonifica e riparazione rappresenta lo spettro ‘del futuro’ incerto e minaccioso. Occultare la stagione di conflitto vuol dire indebolire anche la cultura del diritto alla salute nelle forze sindacali all’interno della fabbrica e delle mobilitazioni nel territorio circostante. Le rivendicazioni sulla salute perdono lentamente la loro presa e la loro capacità di avanzare delle rivendicazioni. Il tema della salute scivola lentamente nell’oblio da cui era venuto, per rimanere ancora oggi una questione difficilmente affrontabile, soprattutto nel territorio di Spinetta Marengo. L’oblio del conflitto alimenta un ritorno a quella che è stata definita la ‘stagione del silenzio’, in cui l’esposizione a sostanze tossiche e nocive, incidenti sul lavoro e malattie professionali si coagulano con esperienze e memorie, narrazioni e conoscenze, compromessi e negoziazioni su rischi a lungo considerati inevitabile contropartita del progresso tecnico.

 

Veniamo allora alla terza e ultima dimensione su cui vogliamo concludere, esaltando come la nostra postura indaghi il sistema di relazioni tra comunità operaia e il suo ambiente, fortemente caratterizzato dalla presenza dell’industria. In 120 anni il polo chimico ha fortemente influenzato non solo l’ordine economico, organizzativo e politico, ma anche quello ecologico e morale. Come abbiamo detto, la natura è funzionalizzata e professionalizzata per gli scopi produttivi, attraverso infrastrutture per l’organizzazione di acque, suolo, aria. Dall’altro lato, l’estensione progressiva della fabbrica e delle sue ramificazioni materiali e immateriali produce “paesaggio industriale”, dimensione estetica e trasposizione simbolica di un ordine morale collegato all’etica del lavoro operaio e al carattere progressivo del capitalismo. Discutere pubblicamente la contaminazione decostruisce questa memoria istituzionale omologata attorno ai successi progressivi del fordismo, ridiscutendo l’immagine rassicurante della fabbrica come parte integrante del proprio luogo di vita “laborioso”, simbolo di benessere e promessa tecnologica. Oltre ai timori presenti e futuri per la salute e l’ambiente, chi abita questi luoghi sperimenta anche un senso di impoverimento, insicurezza economica, impotenza e umiliazione, che ingenera (ri)definizione di elementi ritenuti costitutivi e fondativi della propria relazione identitaria con i luoghi di vita. Ciò alimenta un ingorgo socio-politico più complesso del mero occupational blackmail, che alla riorganizzazione sindacale dentro la fabbrica richiede il recupero di contro-narrazioni fuori dalla fabbrica. Nel caso che abbiamo presentato convivono invece, assieme al ricatto occupazionale, una moltitudine di resti, residui di tutte le promesse mancate che la modernità si sarebbe dovuta portare con sé. Residui fisici, nei corpi delle persone e del territorio circostante; residui politici, che rendono un’intera città succube, titubante ad agire e a schierarsi di fronte a evidenza sempre più conclusive della tossicità della fabbrica; residui culturali, che cancellano e normalizzano il presente, rendendo accettabile la tossificazione e il depauperamento ambientale. Aumentare la visibilità e l’esperienza di chi vive i processi attraverso cui l’ambiente e i corpi mutano in maniera profonda e con gravi ripercussioni, permette di rompere l’invisibilità e dare valore a una sofferenza che prima rimaneva confinata.

 

Note

 

[1] S. Lerner, Sacrifice Zones: The Front Lines of Toxic Chemical Exposure in the United States, MIT Press 2010.

[2] R. Nixon, Slow violence and the environmentalism of the poor, Harvard University Press, 2011.

[3] I. Oddone, A. Re e G. Briante, Esperienza operaia, coscienza di classe e psicologia del lavoro, Einaudi, 1977.

[4] Daniele Borioli, Franco Bove e Cesare Manganelli – che hanno raccolto una parte del loro lavoro nel libro Lavoratori in trincea: La Montedison di Spinetta Marengo 1953-1971, pubblicato nel 1983.

[5] Lino Balza, già dipendente della Montedison, delegato sindacale, giornalista e animatore di diverse campagne pubbliche sui temi dell’ambiente e del lavoro. Referente di Movimento di Lotta per la Salute Giulio Maccacaro, è autore di diverse pubblicazioni, tra le quali Ambiente delitto perfetto, con B. Tartaglione, del 2015.

[6] Claudio Lombardi è stato assessore all’ambiente di Alessandria dal 2012 al 2017. Originario di Spinetta Marengo, dopo essere tornato a vivere nel paese nel 2010 Lombardi diventa una figura chiave della attuale contestazione al polo chimico. È autore del libro Il ricatto. Storie di Spinetta Marengo e della sua Fabbrica, del 2023.

[7] Da ora in poi, i virgolettati si riferiscono a interviste estratte dal Fondo Montedison presso l’ISRAL.

[8] Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è un accordo tra le associazioni dei lavoratori e i datori di lavoro, che regolamenta i rapporti di lavoro in un specifico settore, assicurando uniformità e standard nel trattamento dei lavoratori dello stesso settore.

[9] Fondo Montedison, Scatola 13, Salute in Fabbrica, p. 7. Parole di Vezzana.

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