di Marco Zonch

 

Alla fine del settembre scorso è uscito Due (2024) di Enrico Brizzi, seguito di uno dei più noti bestseller degli anni Novanta, Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994). Pubblicato da HarperCollins assieme al falso secondo numero di Stagione elettrica. La fanzine ufficiale delle Anatre di Central Park, il libro riprende la storia d’amore tra Alex e Aidi esattamente là dove si era interrotta nel 1994: Aidi è partita per gli USA, Alex è rimasto a Bologna, ed entrambi sono in preda a dubbi e struggimenti d’amore tipicamente tardo adolescenziali. Li affronteranno ciascuno per conto suo, e a modo suo, per forse riunirsi nel finale sorprendentemente metanarrativo del libro. Dietro, in altre parole, all’apparente continuità della trama si nasconde la considerevolissima distanza che separa Jack Frusciante e Due, e che – ma ce ne si accorge solo a posteriori – la confezione editoriale aveva già in qualche modo indicato: Stagione elettrica non è semplicemente la fanzine pubblicata dalla band di Alex ma una sorta di pastiche, di collage in cui il richiamo al Giovane Holden (le anatre del titolo) si accompagna a «ZNÓRT» di ranxeroxiana memoria e a QR code – una playlist su Spotify – decisamente fuori posto in un testo che si vorrebbe pubblicato a metà anni Novanta. Due è, insomma, un’esibita e imperfetta imitazione di quella giovane narrativa degli anni Novanta di cui Jack Frusciante è esempio: un risultato che può forse venir spiegato – ma lo si vedrà solo alla fine – dalla presenza in Due di quei motivi spirituali che caratterizzano larga parte della letteratura contemporanea.

 

Proprio per questo mi pare utile, per dire qualcosa su Due, cominciare misurando la distanza che separa i due romanzi, chiara fin dal posizionamento del narratore rispetto al testo e alla veridicità del racconto. Come in Jack Frusciante, il narratore si assume il compito di ricostruire la storia d’amore di Alex e Aidi a partire da registrazioni, lettere e altro ancora. In Due, però, lo statuto di realtà di questi materiali è completamente differente, ed è perlomeno incerto («…Come sarebbe, se questa traccia audio esisteva veramente? Qui sfuggono le basi non dico del rock’n’roll, ma proprio della teologia: se ci si crede insieme esiste qualsiasi cosa!» p.20). Anzi, l’esibizione e il richiamo a “documenti” e all’inconfutabilità delle prove su cui pur ironicamente si continua a fondare il racconto (pp. 8-9) deve qui venir compreso come gioco autoconsapevole («il dubbio vale più della certezza, […] il labirinto più dello specchio» p. 169).[1] Non guasta allora ricordare che Brizzi, a Bologna, ha frequentato i corsi di Umberto Eco.

 

A dispetto di queste premesse il risultato dell’operazione non è un postmodernismo tardivo, consapevole ed elegante; l’ironica non-fondazione su registrazioni e affini non moltiplica le possibilità di lettura del testo ma, più prosaicamente, ne pregiudica la coerenza interna. Per capire come questo avvenga è necessario dedicare un po’ di tempo al finale del libro e al suo impianto metanarrativo, dicendo prima di tutto che i narratori di Jack Frusciante e di Due vengono qui identificati in un’unica individualità. A scrivere i due romanzi sarebbe cioè stato lo stesso Alex («Caratteri New York 10, spaziatura singola, testo allineato a sinistra, senza giustificazioni né compromessi.» p. 269; cfr. anche pp. 295-299) che comincia a digitare per far ordine tra pensieri ed emozioni. Quello che il ragazzo produce e che noi leggiamo non è però un semplice resoconto dei fatti ma un romanzo («Non serviva inventare niente, e a forza di scrivere e aggiustare, tagliare e ricomporre, si sentiva già in pieno romanzo.» p. 270), che a un certo punto supera il presente diegetico e si proietta nel futuro: Alex scrive prima del ritorno di Aidi dagli Stati Uniti ma Due si conclude con l’incontro tra i due, smaccatamente cinematografico, fuori da scuola e subito dopo l’orale di maturità di Alex. Nella pagina successiva, l’ultima davvero, troviamo poi le bozze del bacio che il narratore vorrebbe i due si scambiassero, e che non riesce a raccontare compiutamente. Va infine sottolineato che il finale del libro non è metanarrativo solo perché è scopertamente scritto ma anche, e in misura non secondaria, perché è una messa in pratica dell’idea di scrittura proposta nel libro stesso, e intesa come un «canto di speranza» (p. 254) capace di riportare assieme le persone nonostante la distanza o la morte (pp. 223-224). Non mi pare ci si possa poi dimenticare neppure del fatto che il ragazzo legge le bozze del libro al suo professore di lettere, Manuel Del Rio, a cui dice di non sapere bene come concluderlo. Quest’ultimo risponde al dubbio ponendo il ragazzo di fronte a un’alternativa: scrivere l’ultimo capitolo o provare a vivere il finale della sua storia fuori dal libro (p. 299).[2] Il contenuto dell’ultima pagina del libro, frammenti e bozze, dovrebbe allora spingerci a pensare che Alex abbia preferito la seconda opzione; e lo faremmo, se non fosse per il fatto che non esistono prove dell’esistenza di qualcosa, fuori dal libro.

 

Dati gli estremi della struttura testuale, sembra difficile capire perché l’Alex narratore di Due e di Jack Frusciante, ammesso l’identificazione sia corretta, si ponga in modo diverso nei confronti di nastri e registrazioni. Queste ultime esistono nel racconto della prima parte della storia d’amore (in Jack Frusciante), e non esistono mentre racconta di star scrivendo proprio questa storia (in Due), non mentre ne racconta gli sviluppi post partenza di Aidi per gli USA. Sembra poi impossibile spiegare perché il narratore dica, a chiusura dell’incontro tra Alex e Aidi e rivolgendosi ai lettori, di star scrivendo «dopo tutti questi anni» (p. 309): Alex non può scrivere mentre aspetta Aidi e trent’anni dopo, almeno non contemporaneamente. E che dire della presenza nel testo di estratti del diario che Aidi tiene mentre è negli Stati Uniti? Alex non può averlo letto, dato che scrive prima del ritorno della ragazza; il narratore, chiunque esso sia, o lo conosce perché scrive davvero molti anni dopo e ne è in qualche modo entrato in possesso – ma non si capisce allora come faccia a non sapere nulla di ciò che accade nel mondo dopo il 1993 – o la voce di Aidi esiste su un diverso piano della narrazione, con tutti i problemi che questo potrebbe comportare.

 

Sulle contraddizioni, e su quello che la ragazza scrive nel proprio diario, sarà necessario tornare dopo aver in qualche modo completato il quadro delle differenze tra Jack Frusciante e Due. Lascio tuttavia da parte quelle riguardanti la lingua, quasi un catalogo dei vizi e delle virtù di quella dei giovani narratori degli anni Novanta, e lo faccio per dedicare attenzione a elementi più semplicemente maneggiabili nello spazio di una recensione. Tra questi il diverso trattamento riservato al mondo degli adulti e della famiglia, che non sono più quelli deludenti, ostili e incapaci di cui parlava il Brizzi di trent’anni fa; o di cui parlava, con un esempio evocato dallo stesso Due («Capodanno destroy» p. 232),[3] l’Isabella Santacroce della Trilogia dello spavento. Al contrario padri e madri, e più in generale gli adulti, vengono raccontati come uomini e donne che davvero cercano di sostenere i propri figli al meglio delle loro possibilità; questo a dispetto di una visione a dir poco reazionaria della genitorialità, del fatto che il padre di Alex per costringerlo a impegnarsi nello studio gli faccia perdere il lavoro come cameriere, con l’inganno e le minacce.

 

La giovane (meta)narrativa di Due si distingue da quella “classica” anche per la costante presenza in sottofondo della storia e della politica (di sfuggita si parla di Craxi, di Mani Pulite ecc.), per il fatto di lasciare molto più spazio ai conflitti ideologici (si mettono in ridicolo dei trotzkisti e si racconta la violenza neonazista) e per la presenza di una ben precisa declinazione del tema del viaggio, tutt’altro che postmodernista. È cioè vero che di viaggi parla abbondantemente già la narrativa degli anni Ottanta – bastano il Tondelli di Altri libertini (1980) o il De Carlo di Treno di panna (1981) – ma lo è anche che quelli di cui questa narrativa parla sono, secondo Giulio Ferroni, viaggi «giunti a mostrare l’esaurirsi della stessa esperienza del viaggio, l’annullarsi di ogni sua possibile meta, il perdersi della vitalità conoscitiva dell’inoltrarsi tanto entro le mappe del già dato quanto alla ricerca del nuovo» (Dopo la fine, 1996, p. 104). L’interrail di Due, e più in generale i viaggi di cui Brizzi scrive da ormai vent’anni (si comincia con Nessuno lo saprà, 2005), sono molto diversi da quelli di cui parla Ferroni. Si tratta di viaggi in senso lato iniziatici, in cui cioè al movimento nello spazio viene fatta corrisponde una qualche forma di trasformazione personale. La cosa, oltre a collocare il Brizzi fondatore de Gli psicoatleti accanto all’Antonio Moresco fondatore di Repubblica nomade, ancora una volta sembra problematizzare il senso dell’operazione tecnicamente postmodernista di Due. Non è infatti chiaro come il richiamo a una dimensione superiore dell’esistenza, a una verità spirituale si tenga assieme all’ironica non-fondazione del racconto su prove e affini, anche se forse ben si aggancia all’opposizione tra vita e scrittura evocata da Manuel.

 

Entrando allora più in profondità nei viaggi raccontati in Due, quello di Aidi negli USA e quello in interrail di Alex, ci si accorge che il più importante è il primo. Infatti, benché l’interrail di Alex venga caratterizzato in termini iniziatici («Nelle presenti pagine da cinquantacinque grammi al metro quadro, si narra di un viaggio a suo modo iniziatico.» p. 79), la possibilità di scoprire delle verità sembra venir soltanto evocata dal suo viaggio («Quella collina pietrosa rappresentava il punto più remoto dell’intero viaggio, e sentiva confusamente che, una volta in cima, gli sarebbe apparsa una qualche verità.» p. 108), o anzi riservata a viaggiatori di là da venire («Nell’ultimo tratto pianeggiante, in mezzo ai fanghi della brughiera, erano stati superati da un drappello di escursionisti seri, con gli scarponi a carrarmato; ormai quelli si stagliavano contro il cielo bigio di Scozia, vicinissimi alla vetta.» p. 107). Detto altrimenti, il viaggio di Alex sembra collocarsi a metà strada tra quelli “vuoti” di cui parla Ferroni e gli altri, iniziatici davvero, e di cui non è difficile trovare esempio nella narrativa contemporanea. Questa ambiguità viene riflessa sul piano delle scelte linguistiche, e infatti per raccontare l’interrail a Brizzi non bastano forme e stilemi contenuti nel catalogo della lingua dei giovani narratori degli anni Novanta. È necessario ricorrere anche a quella da cinegiornale («Il convoglio prese l’abbrivio lungo la strada ferrata, e la famiglia sbiadirono in fretta nelle ombre della serata estiva.» p. 71) di cui si serve con regolarità il Brizzi di in libri come Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro (2007) o Il diavolo in Terrasanta (2019); ma più ci si allontana dalle parti del libro dedicate all’interrail meno è presente.

 

A essere davvero altro rispetto al pastiche postmodernista del libro è però davvero soltanto il (diario di) viaggio di Aidi. Lo è perché, come detto, la struttura metanarrativa del testo non riesce a spiegarne la presenza; perché il narratore, Alex o chicchessia, non interagisce mai direttamente con la voce della ragazza, non con commenti, glosse o altro. Diversa è poi la lingua, che non viene più usata per imitare i giovani narratori di allora ma per rappresentare realisticamente – vi riesce ma solo fino a un certo punto – il mondo interiore di un’adolescente. Mancano dunque non solo “abbrivi” di convogli e affini, ma anche titoli e versi di canzoni, film ecc., pur presenti, non vengono usati in sostituzione del lessico dell’italiano («Si sentiva condannato a vagare senza fine nell’oscurità, […] lost in a forest all alone. Uh.» p. 12; «le dodici settimane si erano consumate con l’urgenza a orologeria del final countdown.» p. 16) ma appunto come titoli («gli amish che vivono per conto loro, in costume tradizionale come in Witness con Harrison Ford» p. 73). Si giunge così a una sorta di poetichese («Tutto vorrei raccontarti, Alex, sotto questa prima falce di luna estiva.» p. 43) che ben si adatta al diario di una diciassettenne; e peccato allora per l’eccessiva maturità emotiva che da un certo momento in poi il personaggio (lo stesso vale per Alex) comincia ad avere. Comunque sia, il punto è che alla fine del libro a legare insieme diario della ragazza e romanzo rimangono soltanto il montaggio e la corrispondenza tra il contenuto del diario e quello delle lettere che la ragazza spedisce ad Alex. Molto poco, forse, al punto che sarebbe probabilmente possibile estrarre questa parte dal libro (sono molte pagine) senza renderlo illeggibile.

 

L’estraneità, o almeno il peculiare posizionamento del diario di viaggio di Aidi rispetto al romanzo si può spiegare cercando di capire quale sia l’orizzonte ontologico del testo. Ci si accorge così del fatto che la ragazza dagli «occhi castani e zen» (p. 16; «sguardo zen» p. 83; «panteista e zen» p. 251) vive in un mondo differente da quello in cui si muovono gli altri personaggi, e a cui Alex soltanto si avvicina. È un mondo in cui l’esperienza della trasformazione spirituale non è solo evocata, come nel caso del viaggio di Alex, ma presentata per certa. Aidi si dedica infatti alla meditazione, e parla di sé come di una persona attivamente impegnata in un percorso di ricerca spirituale.

 

Da queste parti, comunque, sono devoti da far paura. Fra presbiteriani, luterani e mennoniti non si capisce granché, senza contare gli amish che vivono per conto loro, in costume tradizionale come in Witness con Harrison Ford. Ogni chiesa ha la sua radio che trasmette prediche e gospel, ma ci sono anche stazioni che passano rock ventiquattro ore al giorno.

Mi è andata bene che qui a casa sono di mentalità aperta. Tom e Sharon si limitano alla preghiera prima dei pasti, e la domenica non mi costringono a seguirli in chiesa come fanno gli host parents di altri ragazzi. Davano per scontato che, essendo italiana, fossi cattolica. Sono rimasti abbastanza meravigliati quando ho spiegato che non credo in una religione precisa, ma mi interessano molto il buddhismo e le filosofie orientali. (corsivo in originale, p. 73)

 

Aidi si racconta come una cercatrice – il corsivo separa tipograficamente il diario dal resto del romanzo – come uno dei tanti individui contemporanei che vivono la propria vita spirituale al di fuori dei confini tracciati dalle religioni tradizionali (cfr. p.es. Ulrich Beck, Il dio personale, 2009) e con un occhio rivolto a Est (cfr. Colin Campbell, The Easternalization of the West, 2007). Insomma, Aidi si fa portavoce all’interno del romanzo di un’idea di mondo non materialista, e in buona parte diversa da quella che occupa il resto del libro. Basta pensare che quando a meditare è Helios, uno dei compagni di viaggio di Alex, la pratica viene presentata come un esercizio fisico («La stitichezza lo perseguitava, ma confidava che la meditazione profonda, studiata su un Millelire, l’avrebbe aiutato a ristabilire l’equilibrio.» p. 89) che non manca di diventare oggetto delle prese in giro degli amici (p. 90). Si può poi notare la presenza nel libro di numerose figure provenienti dalla tradizione cattolica, usate però come metafore o similitudini («rinnegava spigliato come Simon Pietro quanto aveva di più caro» p. 251), e trattate non diversamente da quelle provenienti dalla cultura pop.

 

Si deve tuttavia evitare di contrapporre nettamente, sotto questo profilo e a dispetto degli esempi appena forniti, diario e resto del libro. Neppure nel secondo manca la fede: è quella tradizionale incarnata da un frate, padre Loris, che lavora in una mensa per poveri (p. 212); la si ritrova nei dubbi che Alex non manca di porsi («Sarà poi vero che se non c’è futuro non può esserci peccato? E cosa s’intende, fuori dai confessionali, per peccato? Spreco? Caduta di stile? Autolesionismo?» p. 122). Detto altrimenti, benché nel romanzo sia solo il diario di Aidi a incarnare un’idea di mondo compiutamente spirituale, nel resto del romanzo alla fede (cattolica) viene riservato un trattamento “di favore”. La sua presenza si può però motivare, forse, con il desiderio di fare ammenda per le critiche al cattolicesimo presenti in Jack Frusciante, e di cui Brizzi si diceva pentito già alla fine degli anni Novanta (E. Brizzi, Il mondo secondo Frusciante Jack, 1999, p. 20). Ancora una volta va precisato che il pentimento si concretizza sì in un riavvicinamento dell’autore agli ambienti cattolici – qui alcuni articoli per «Famiglia Cristiana» – e alla fede (Il mondo secondo Frusciante Jack, 1999, pp. 20-24), ma non nell’adesione a un cattolicesimo tradizionale. Valga come esempio questo scambio:

 

«Non ti consideri ateo.»

«Be’, non proprio.»

«Nel senso?»

«Nel senso che lo senti, l’invito a cercare qualcosa che tiene insieme tutto questo, e però non riesco a credere ai gironi delle penitenze e premi che proprio ci aspetterebbero nella presunta Vita Eterna.» (p. 21)

 

Utili sono però anche queste parole:

 

Sto diventando animista, in realtà, come spiego in questo terzo romanzo [Tre ragazzi immaginari, 1998] che uscirà in autunno. Non lo so, ma queste coincidenze sono proprio dei momenti di spiritualità che provo, e sono molto intensi. Non so cosa evochino. Né chi le manda. Generalmente mi basta sapere se sono cose benevole o malevole. Tanto, se mi devono dare qualche segno, a posteriori lo capirei e lo direi, “Quello era un segno.” (pp. 128 – 129).

 

La fede a cui giunge Brizzi è, come quella di Aidi, una fede personale e sincretica, che somiglia soltanto a quella pur meritevole di rispetto, stando a quanto si legge nel romanzo, di padre Loris. In breve, riprendendo il problema della posizione del diario rispetto al resto del romanzo, non si può pensare a una contrapposizione netta perché nel romanzo non va in scena uno scontro tra due visioni opposte dell’esistenza, una atea e una religiosa. Al suo posto troviamo un mondo a scelta multipla, in cui cioè il (se) credere è scelta individuale (Cfr. Charles Taylor, A Secular Age, 2007). Del resto questa stessa presa di posizione si ritrovava già nei libri precedenti di Brizzi, dove a viaggiare insieme sono sempre gruppi eterogenei, composti da credenti, non credenti e da chi crede a modo suo («Un ateo, un ebreo e un pagano», Il diavolo in Terrasanta, p. 392), posizione quest’ultima a cui viene forse riservato un trattamento di favore; non mancano i fanatici, verso cui si tiene un atteggiamento che andrebbe meglio discusso (Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro).

 

Proprio la presenza di questo sfondo postsecolare, l’idea di un mondo aperto al trascendente e non di sola materia spiega, mi pare, il malfunzionamento di Due e del suo postmodernismo tecnico. Pastiche, ironia e metanarratività rimandano infatti a concezioni ontologiche molto diverse da quelle presenti nel libro, e fanno anzi riflettere sull’impossibilità di rispondere a domande circa la natura del nostro mondo; sul fatto che ogni organizzazione dei dati in nostro possesso altro non è che congettura, labirinto (cfr. Umberto Eco, Postille al Nome della rosa). Stando a Brian McHale la Postmodernist Fiction (1987) avrebbe, più precisamente, al suo centro proprio il problema della perdita del mondo, a cui cercherebbe di far fronte adottando soluzioni playful. Rovesciando l’equazione, potremmo anche dire che playfulness, ironia e via dicendo mal si adattino a parlare di mondi di non sola materia. Così non perché “incantati” ma perché a essa mal si adatta la certezza delle convinzioni dei credenti, o l’incertezza di chi sceglie di intraprendere un percorso di ricerca personale analogo a quello di Aidi o di Brizzi; come quelli di cui parlano Moresco, Saviano, Nove e molti altri. L’ipotesi in ballo è anzi – a carte scoperte – quella secondo cui il postmodernismo finisce quando una nuova forma di stabilità, benché debole o parziale, diventa disponibile ancorando il mondo a principi e verità di ordine spirituale (ipotesi della stabilità debole). Come fa Brizzi, appunto, che fallisce in Due anche perché cerca di parlare di questo “nuovo mondo”, di scrittura come speranza, di zen e fede servendosi delle tecniche del postmodernismo.

 

Note

 

[1] Il «labirinto dei vicoli» è presentato anche come luogo sicuro, o meglio via di fuga: è qui che si nascondono Alex e compagni dopo aver imbrattato un’auto della Municipale (p. 174).

[2] Non entro qui nel merito di una serie di passaggi in cui si sostiene che la storia tra i due ragazzi esiste fuori dal libro («L’unica dimensione che ci spettava in esclusiva era fuori dal libro. Esiste ancora quel posto, o siamo prigionieri di due trame scontate, tu perso nel tuo film lento e cerebrale […], io nella replica di una sitcom […]?» p. 246; «Fuori dal libro. Così si erano sentiti. E ora lui, per farli vivere ancora, poteva soltanto scrivere di loro; rinchiuderli, se non dentro un libro, in un blocco di fogli caldi di stampante.» p. 272). Lo faccio per evitare di entrare ancora una volta nel dettaglio della natura metaletteraria e ironica della costruzione testuale. Segnalo tuttavia la differenza tra l’uso del concetto da parte di Aidi (in corsivo) e di Alex: nel primo caso il “dentro/fuori dal libro” sta per l’eccezionalità dell’amore; nel secondo l’eccezionalità finisce per venir ridotta a prodotto della stessa scrittura: noi leggiamo il racconto di Alex.

[3] Di passaggio, si noti che si tratta di una citazione “sbagliata”: Destroy di Santacroce esce nel 1996, e dunque dopo il capodanno che Alex, in una delle sue registrazioni, descrive in questo modo. Il ragazzo non avrebbe potuto conoscere il libro.

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