di Mario Tronti
[E’ uscito in questi giorni Il proprio tempo appreso col pensiero (Il Saggiatore), uno scritto politico postumo di Mario Tronti a cura di Giulia Dettori. Ne pubblichiamo le prime pagine.]
L’inattuale “che fare”
Provo a bal- balbettare. Apprendere il proprio tempo col pensiero – riconoscibile citazione hegeliana – è già fare politica. È un prender parte al destino del mondo umano, così come ce l’hai di fronte, fuori di te e contro di te. Per conoscerlo, certo. Ma la conoscenza non è neutra. Chi semplicemente vuole conoscere ha già scelto da che parte stare. Che ne sia o no consapevole, ha già firmato la pace con il proprio tempo. Darà un contributo, nobile, al progresso dell’umanità e i riconoscimenti in vita, e in morte, non mancheranno. Avrà illuminato molte menti, al prezzo di aver oscurato molti problemi. Che fare della sto ria del tuo tempo, mentre la conosci, nelle sue forme di mondo, nelle sue forme di vita? Questa, per me, è la domanda. Conosco tre risposte: conservare, migliorare, rovesciare. Troppo semplice? Abbiamo, oggi, il compito etico-politico di trovare parole facili per pensieri difficili. Parlare ai più sapendo che ti ascolteranno in pochi. Perché non è l’ascolto dei pochi che ti rassicura, è la condizione dei molti che ti inquieta. Scrivi non per chi ti legge, ma per quelli che non possono leggerti. Il pensiero è a loro che pensa. È tutto qui. Essere uno di loro, non uno che parla a loro. Un esercizio entusiasmante. La chiarezza interiore è una conquista che serve a esprimere chiaramente il punto di vista di chi sta in basso. Ecco la decisione: stare giù, in basso, affinché quel discorso di fondo possa finalmente dirsi alla sua altezza.
Lo storico racconta la storia. Il filosofo la interpreta. Il politico la pensa. Pensare la storia non è raccontare e non è interpretare. È conoscere per trasformare, come imparammo una volta per tutte in gioventù e fino in vecchiaia non abbiamo fatto altro che cercare ancora di approfondire, contingenza dopo contingenza. Il politico che non pensa la storia non fa politica. Questo vale per tutti. Il grande conservatore lo fa e, dobbiamo dire, gli riesce abbastanza bene. Il riformista lo ha fatto in lontane epoche passate, ma è da tempo, da molto tempo, che ha disimparato a farlo. Il rivoluzionario, riconosciamolo, è quello che rischia di più. Può pensare la storia ideologicamente o realisticamente. Deve scegliere: sapendo che nel primo caso produce inevitabilmente illusioni di rovesciamento, e che nel secondo caso, alternativamente, può provocare guasti irreparabili oppure può accontentarsi di soluzioni al ribasso. L’unico rimedio è andare a scuola del nemico se si vuole veramente sconfiggerlo. La grande conservazione, delle cose come stanno, ha una pratica di lunga durata, sociale e istituzionale. Possederla è indispensabile, per capire le leggi di movimento dei processi. Le sue fondamenta antropologiche toccano la carne viva della storia. Ancora più indispensabile è frequentarla, armato di un punto di vista sovversivo, inattaccabile, incatturabile, autonomo, in una parola, libero.
Il realismo politico è una cosa seria. Va praticato a un livello alto di pensiero e di azione. Non è roba da faccendieri, da mestatori, da manovrieri. Nulla a che fare con pragmatismo, opportunismo, cinismo, responsabilismo: disponibilità, quest’ultima, che ben conosciamo. Non è spregiudicatezza. Al contrario, è avvedutezza. Realismo politico è lucida analisi dei rapporti di forza in campo, giudizio disincantato sugli interessi in conflitto, calcolo delle possibilità di successo di un’iniziativa, a difesa o all’attacco. Suo luogo di elezione è lo stato di eccezione, dove c’è spinta oggettiva a salire di livello. Ma vale anche per lo stato normale, dove è necessaria una sapienza soggettiva per non rimanere chiusi dentro una situazione bloccata. Può essere dunque sia la presa del Palazzo d’Inverno in uno spazio e tempo che improvvisamente la rendono possibile, sia la cura attenta di un necessario sforzo di lunga durata per far maturare gradualmente le condizioni di un salto di sistema. Per la fortuna essere sempre pronti, con la virtù essere sempre accorti. E non finisce qui. Il realismo, per essere fecondo, ha bisogno di una fedele compagna. Agisci efficacemente sul presente se hai una visione di futuro. Mentre ti sporchi le mani con la realtà, devi avere, e coltivare, una riserva di idee per un oltre, per un al di là. L’aspirazione a quello che non c’è qui è una conquista che, solo se è già dentro di te, puoi proporla a chi fuori di te ne ha assoluta necessità.
Lunga e accesa nella storia del movimento operaio è stata la disputa tra riforme e rivoluzione. Si discuteva, aspramente, di come, con quali mezzi, raggiungere un fine condiviso. Gli eredi, dimentichi, di quella storia, hanno dilapidato quell’eredità il giorno in cui hanno soppresso il fine. E il modo di questa soppressione è quanto va colto, cioè va pensato. Hanno risolto ogni finalità ulteriore in un presentismo assoluto. A questo presente stato delle cose – dicono – non c’è alternativa. E questa tesi non viene sottoposta a discussione. Il dogmatismo non è quello di ieri, è quello di oggi. Questo immanentismo politico, conseguenza di una lettura del tutto subalterna del fallimento di un esperimento di fuoriuscita, ha costretto il punto di vista antagonistico – il mio – a cercare altre vie per il recupero di una visione che accennasse almeno a un oltrepassamento di questo presente. Il realistico discorso, moderno, di autonomia del politico ha trovato una sponda nelle antiche, eterne, dimensioni trascendenti disegnate dai discorsi di profezia e utopia. La teologia politica ha funzionato come mediazione di passaggio. La secolarizzazione dei concetti politici ha svelato l’arcano della politica moderna. Di lì è diventato necessario partire per arrivare a ricomporre il rapporto spezzato “tra il già e il non ancora”.
Per mettersi in posizione di contrasto, diretto e totale, con l’attuale forma di vita individuale e collettiva, in fondo basterebbe guardarla in faccia. Guardare per vedere: dietro la maschera il volto; dietro lo spettacolo il dramma; dietro l’apparato ideologico il movimento reale. Siamo in una condizione pre-marxiana. Costretti dunque a ricominciare dalla critica di tutto ciò che è. Perché è questa che si è smarrita. Marx giovane, critico dell’alienazione indotta dai meccanismi propri dell’economia politica, critico della filosofia hegeliana del diritto statuale, critico dei sacri principi della Rivoluzione francese, è oggi più attuale del Marx maturo grande eccezionale analista del capitale. Anche se è quest’ultimo che sta avendo ora una rinnovata fortuna, grazie a un capitalismo-mondo che si dibatte tra sviluppo e crisi. Non so, lo pongo come punto di problema, se l’attuale condizione teorica della critica di sistema sia più arretrata o più avanzata rispetto a quella dei favolosi anni Sessanta. Certamente è radicalmente diversa. E di questa diversità occorre farsi carico. Resisto al far ricorso alle categorie «guerra di movimento o guerra di posizione», ai termini sia pure aggiornati di «rivoluzione passiva», allo stanco discorso sull’egemonia. Formule che, mi pare, non mordono più un contesto reale al tempo stesso innovato e conservato. E mordere nuovamente bisogna. Oggi più di ieri: con passaggi inediti, e strumenti sorprendenti, e strappi nella tradizione teorica, e ricongiungimenti con la tradizione storica. Tradizione e rivoluzione: parole del passato cariche di futuro.
Liberare il conflitto di classe dal materialismo storico che l’ha imprigionato. Salvare la prospettiva di rovesciamento dallo storicismo progressista che l’ha seppellita. Un compito di pensiero per cui varrebbe la pena di vivere un’altra vita. Sulle spalle delle generazioni future di libero spirito – se ce ne saranno! – grava questo fardello di lotta e di ricerca. Non a caso, parole di liberazione e salvezza, echi che accennano a dimensioni fin qui sconsideratamente tenute separate se non addirittura confliggenti. C’è un problema di redenzione dei vinti, che ci viene consegnato dal lungo secolare racconto di rivolte delle classi subalterne. E ci sono gli esempi degli atti di libertà, portati a successo dalle scelte personali e dalle forze organizzate nelle esperienze del tragico Novecento. Riannodare con il pensiero in un comune orizzonte il reale e l’ideale di questa storia è un faticoso appassionante impegno che solo forse può dare senso e valore a un vivere pienamente umano. Chi sceglie questa via deve adeguare la sua modesta forma di vita quotidiana alla ambiziosa vertigine di questa vocazione/professione. Se c’è un obbligo etico per l’agire politico, questo solo è. Ma deve essere così connaturato alla propria quotidiana esistenza da non avere neppure bisogno di essere proclamato e professato. Per chi vuole cambiare il mondo, come si diceva una volta, la scelta etica è incorporata nella decisione politica. Perché egli ha realizzato la consapevolezza che questo tipo di mondo, proprio per i suoi guasti umani, merita di morire. Scelta e decisione, quelle, che nello sforzo che richiedono, aspro e difficile, si rivestono, per sovrappiù, mi permetto di dire così, di una rigorosa interiore bellezza. […]
” Fallimento di un esperimento di fuoriuscita” mi pare originale come definizione, più della “rigorosa interiore bellezza” finale, di cui prima della critica del giovane Marx diceva già l'”anima bella” del vecchio Hegel.
Eccezionale. Le parole per dirlo. Partire casomai da una ridefinizione del realismo politico che altrettanti danni ha fatto. Ma la direzione nel senso operaista del termine non puo’ che essere questa, laddove immanenza e trascendenza si indistinguono nei corpi.