di Filippo Bruschi
Il Festival di Cannes non ha più l’importanza di un tempo. La decentralizzazione degli schermi e delle piattaforme ha trasformato quello che un tempo era una pietra miliare nell’iter cinematografico annuale in una delle tante notizie trascinate dal flusso.
Anora di Sean Baker non fa eccezione. Non è dunque in quanto film laureato che merita attenzione ma perché, come il suo predecessore Triangle of sadness (Palma d’oro 2022), parla del mondo al tempo della « guerra mondiale a pezzi », tanto a livello economico quanto socio-antropologico e geopolitico.
Per la capacità di evocare queste tre realtà Anora è un capolavoro, al di là dell’ interpretazione di Mikey Madison, che riesce nel miracolo di essere allo stesso Juliette Lewis e Liv Ulmann.
E se Triangle of Sadness era la grande satira corale di un mondo sull’orlo dell’abisso, Anora ne è l’elegia della speranza dolorosa.
Prima di arrivare ai meriti del film, elencherò quelle che mi sono sembrate le sviste o cecità della critica ufficiale e ufficiosa, tanto in Francia, dove ho visto il film, come in Italia.
Si tratta in buona parte di censure mascherate, prodotto del tempo nostro.
Prima critica, il film è carino ma non meriterebbe la prestigiosa Palma d’oro. La facile critica alla critica è che si tratta di un giudizio snob, per cui un film che vince a Cannes dovrebbe andare ai due all’ora, in ogni caso non essere una commedia, ancor meno una commedia piena di corpi nudi mercificati, specie in un’ epoca tanto sensibile come la nostra – sembra che alcuni adolescenti siano usciti dalla sala di Cannes dopo venti minuti, scandalizzati. Personalmente credo ci sia più poesia in Anora che in tanti film lirici tipo le due palme d’oro Anatomie d’une chute o Winter sleep, riproposizioni più o meno riuscite dei film d’autore degli anni 50-70.
Più interessante della critica altezzosa è quela che ha limitato le proprie sinossi a metà trama, per presentarci Anora come l’ennesima versione di Cenerentola e il bel Principino, nello specifico incarnati da una spogliarelista precaria di origine russa, l’eponima Anora, e Vanya, giovane rampollo di miliardari russi. Tutto sembra andare bene ma ecco che atterrano i perfidi genitori del nostro giovane principe – e il resto lo scoprirete in sala.
Ora, Vanya è un personaggio spregevole, ben più dei suoi pragmatici genitori. E lo è dall’inizio alla fine del film. L’aria imberbe, che contrasta col potere economico e psicologico che esercita su Anora e i dipendenti/scherani del padre, non fa che renderlo ridicolo oltre che spregevole. Un lapsus quello dei critici? Hanno così rivelato che il loro sogno segreto è di essere rapiti alla loro quotidianità da un giovane miliardario fintamente anticonformista? Nel peggiore dei casi subiscono il fascino dell’adolescenza.
Nello strambo oscillare tra giovanilismo e fame di facili moralità, davvero proprio del nostro tempo, la critica ha infine evocato, soprattutto in Francia, le minoranze (les minorités). Bisognerebbe capire cosa sono le minoranze : neri, LGBT o immigrati illegali ? Nel film non ce ne sono.
Né la comunità russo-armena di New York, né i lavoratori del sesso, soggetti prediletti da Sean Baker, sono di solito considerate minoranze. Tra l’altro i protagonisti di Anora, come quelli di Red Rockett, precedente e ben meno bello film di Baker, sono quasi tutti « bianchi » e tutti etero.
Certo, in Anora ci sono delle donne, e Anora e le sue colleghe possono legittimamente considerarsi delle sfruttate. Come nel mondo reale, tuttavia, le donne occupano grosso modo, – grosso modo, perché nell’arte, come nella vita, la simmetria perfetta tra gli umani è un paradigma piuttosto demenziale – la metà dello spazio di parola, d’azione, d’influenza, ecc.. Chi eserciterà la più grande violenza nei confronti di Anora sono per altro proprio due donne : la madre di Vanya e una collega invidiosa.
Dal punto di vista socio-antropologico il film è dunque piuttosto realista, nel senso che non evoca improbabili alleanze di sessi, sfruttati o intersezionali, né si piega a un distribuzione correct degli attori. I protagonisti, come tante persone attorno a noi, sono semplicemente esseri che cercano di mordere la vita, ognuno con i propri diversissimi mezzi, ognuno frequentando la comunità o le persone a lui più affini.
Oltretutto nel film spicca il rifiuto di mostrare una virilità violenta, anche quando tutti ce la attenderemmo. Per esempio durante la splendida scena screwball in cui i dipendenti del padre di Vanya cercano di domare la furia di Anora. Anzi, sarà propio colui che più di tutti dovrebbe essere l’uomo di mano del gruppo che eserciterà il rifiuto più netto della violenza nei confronti di Anora, compreso il sopruso sociale. L’eroina, invece, frantuma preziosi soprammobili, morde orecchie e spacca nasi, nel legittimo tentativo di non farsi sfuggire un matrimonio miliardario. Ma siamo nella realtà, appunto, e i tre uomini che si occupano di calmarla sebbene un po’ truci d’aspetto, oltre a sentire la vergogna di picchiare una donna, sanno che andrebbero incontro a gravi conseguenze legali.
Come detto, è proprio il più inquietante dei tre, Igor (Yuri Borisov), a riverlarsi il più degno – e Igor e Anora finiranno per fare l’amore nella scena finale conclusa dal pianto di lei tra le braccia fraterne di lui. Una bellisisma scena, allo stesso tempo erotica e dolorosa, il più bell’amplesso visto da molti anni in qua, in cui si è assistito al proliferare di vanissimi sessi e capezzoli, didascaliche fellatio, immancabili cunnilingus – allorameglio il porno.
Come interpretare quest’ultima scena? C’è l’imbarazzo della scelta. Personalmente direi che l’America frammentata e disperata ha bisogno di un uomo vecchio stampo, per nulla maschilista (Igor non è spaventato né scandalizzato dal lavoro di Anora), ma nemmeno decostruito – non tanto da marginali eredità della french theory, quanto dall’individualismo cinico che permea in modo ben più profondo la nostra quotidianità. Poco importa, nel caso specifico, che questo uomo sia russo o polacco, messicano o indiano, quello che sembra suggerire il film è che forse l’« occidente » digregato ha bisogno di lui. Un uomo con i piedi nel XIX secolo e la testa nel XXI. Gli amici virilisti diranno che questo significa dare soddisfazione alle donne su tutta la linea. Forse non hanno torto. Se tuttavia gli uomini vogliono che sia attribuira loro una peculiare dignitas, credo possano ottenerla solo tramite tale ricerca della virtù, intensa proprio come qualità specifica del vir. Ideale irrealizzabile? Certo, come tanti altri, l’importante è che esista il modello, o che esso si scavi una nicchia nella società. Tra qualche anno le statistiche, magari analizzate dal genio di un Emmanuel Todd, ci diranno quanto grande è questa nicchia e quale influenza ha esercitato sul resto della società.
Questo desiderio di ritorno a una certa tradizione, almeno come antidoto alla progressive burgerizzazione degli spiriti, è confermato dal fatto che Igor preferisca il nome tradizionale russo di Anora all’abbreviazione americana in Any, che la ragazza si ostina invece a rivendicare durante il proprio miraggio di ascesa sociale. E Anora, guarda caso, si intitola il film.
Quanto al lato economico, nulla di nuovo sotto il sole: i ricchi schiacciano i poveri, quando e come vogliono, spesso grazie alla legge, o meglio agli avvocati. L’errore di Anora, come quello di Violetta Valery in Traviata, è di illudersi che tale realtà possa essere superata da un colpo di fulmine. Tanto più, ripetiamolo, che Vanya non arriva al calzino di Alfredo Germont, il quale, non fosse stato ingannato, la sua traviata l’avrebbe anche sposata.
Unirsi a un gentiluomo proletario per Anora, sarebbe forse un modo più sensato di arrivare a fine mese che sperare nel colpo di testa di un miliardario?
Resta l’ultimo livello, quello geopolitico. È qui che il silenzio della critica diventa più inquietante di ogni suo pregiudizio, dicendola lunga sul pericoloso rattrappimento del dibattito cuturale. Perché se era da tempo che Baker voleva girare un film sulla comunità russo-armena da cui proviene il suo attore feticcio Karren Karagulian (grandissimo), è difficile credere che un film girato dopo il 24 febbraio 2022, e concluso da un amplesso tra una statunitense e un russo, non possa contenere un messaggio al contesto politico internazionale
Un messaggio pacifista ? Osiamo crederlo.
Un messaggio di pace che viene dunque dagli Stati Uniti e non dall’Europa, continente che pure, stando nel mezzo, dovrebbe essere più interessato a un accordo tra le due grandi potenze. Sorprendente? Non tanto. Non è raro che le colonie si mostrino più realiste dal re, attente a comprenderne le minime bizze, anche a costo di non coglierne i sentimenti e desideri profondi.
Concordo su molti punti, non tutti, ma molti. Un buon film di Baker è Tangerine: atmosfere molto diverse ma stessa vitalità e tenerezza