di Peter Bichsel

 

[E’ appena uscito per Casagrande La poiana. Di ubriaconi, poliziotti e della bella Maghelona (trad. di Gabriella de’Grandi), dello scrittore svizzero Peter Bichsel. Ne pubblichiamo un estratto].

 

Aspettare a Baden-Baden

 

Era venuto da Vilbel, a quanto si diceva, aveva vissuto là per anni, un industriale svizzero, un uomo ricco, e non rifiutava un giro agli ubriaconi della Oberpforte. Non era certo l’unico a pagare qualche giro di tanto in tanto, né il più generoso, proprio no, ma il gesto con cui tirava fuori il portafogli pieno di banconote sciolte tradiva un ricco, e gli ubriaconi gongolavano all’idea di farsi una birra pagata da un ricco. A quanto si diceva, aveva vissuto in una villa. Ma nessuno era pronto a figurarselo in qualche forma, come immagine o anche solo come situazione. Bad Vilbel era troppo vicina, una mezz’ora a piedi, e Bad Vilbel era troppo piccola per azzardarsi a immaginare la villa situata in quella località. Né a qualcuno veniva in mente d’immaginare se viveva con una moglie o un maggiordomo o una Mercedes. Finalmente c’era qualcuno che veniva da lontano, e finché non aveva un’origine né un mestiere, né una famiglia né un’entrata, era uno straniero, e agli ubriaconi della Oberpforte interessava avere uno straniero a casa loro. In un modo o nell’altro ognuno dava a intendere di saperne di più e di tacere, ma quando poi uno disse che era stato a Vilbel e aveva preso informazioni, nessuno volle stare a sentirlo, perché Vilbel non era davvero lontana, e anche tutti gli altri conoscevano Vilbel, avrebbero potuto andarci e prendere informazioni.

 

Alcuni giorni fa, nel momento in cui arrivò qui, spinse a fatica con la schiena la porta della bettola e mise giù una pesante valigia al centro del corridoio, tornò a uscire e prese altri bagagli e salutò o non salutò – nel momento in cui mise piede alla Oberpforte, calpestando per dir così il suolo del borgo, divenne proprietà della Oberpforte. Lo avevano scoperto, lo avevano visto per primi e da quel momento in poi, ovunque andasse, appartenne a loro più che agli altri.

L’oste – che era stato nel mondo pure lui e in certe occasioni sottolineava le sue buone maniere, e all’ingresso del gran signore vide subito la sua squallida bettola rivalutata e sé stesso elevato al rango di un capocameriere viennese – ora mise il braccio sinistro dietro la schiena, cosa che di solito non faceva mai, lo premette sull’osso sacro, uscì da dietro il banco con un triangolo di pancia in vista sopra la cintura, e senza fare l’impressione che forse aveva immaginato esordì con un «Caro signore», per far notare che erano entrambi della stessa razza, ma che probabilmente il signore aveva sbagliato porta, l’hotel che forse cercava era l’edificio accanto.
All’hotel non c’era nessuno e la porta era chiusa, disse l’altro, e non è che per caso i bagagli, e non è che per caso un Martini bianco, e non è che per caso sapevano se c’era qualcuno e a che ora si poteva entrare, e aveva anche prenotato.
I giocatori di dadi avevano interrotto la partita al banco, e quando uno sollecitò l’oste a riprendere il gioco – avanti, tocca a te –, né l’oste né i compagni dovettero richiamarlo all’ordine. La sua richiesta rimase sospesa nel fumo della bettola e sottolineò il silenzio che avvolse le parole scelte dell’oste – semplice supposizione da parte mia, perché questa parte della storia non l’ho vissuta in prima persona. Ma è facile immaginarlo se si conoscono l’Oberpforte e l’oste o altri locali e altri osti, è anche facile immaginare che lo straniero non si muoveva come uno che conosce osti di quel tipo, il che dava a sua volta all’oste la sensazione di essere un altro oste.

 

Lo straniero non aveva una camera prenotata all’hotel, ma c’erano ancora camere libere. Avevano mandato di là Django, che adesso berciava dalla strada verso camera mia. Mandavano sempre Django, lo stalliere della scuderia e membro del Western Club locale.

Ma per il momento lasciatemi fuori dal gioco. Verrà il momento di spiegare come sono arrivato qui. Non sarà tanto facile. Perché è qui, perché era qui? Immagino sempre che la polizia mi chieda qualcosa del genere, e la domanda è pericolosa perché ogni risposta – non so per quale motivo – sembra una sfida. Con un semplice «Così» ci si può giocare la simpatia di chi fa la domanda.

Così fu Django che con un bercio mi tirò dentro questa storia. Mi alzai, presi i pantaloni, mi chiesi se per un tratto così breve servissero le mutande, per ogni indumento mi chiesi se fosse necessario, rinunciai all’intenzione provocatoria di aprire a piedi nudi, misi anche il gilet nero da cameriere sulla camicia bianca, rinunciai al farfallino, nel frattempo aprii la porta due volte e gridai per le scale: «Arrivo!», infine uscii e girai la chiave giù da basso.

 

Da qui in poi la storia la conosco, il che non facilita assolutamente il racconto. Ci sono persone che hanno la capacità di entrare nella tua vita, e quando i clienti della Oberpforte si misero subito a chiedere se eravamo parenti, fratelli per esempio, o cugini, mi diede anche molto fastidio.
Il fastidio che gli svizzeri provano all’estero quando incontrano altri svizzeri ha un nome, gelosia. La presenza di un altro straniero, di un altro svizzero, attenua il fascino di essere straniero. Se finora nella bettola ero stato lo svizzero, adesso eravamo gli svizzeri. Mi dava fastidio che si sforzasse di parlare tedesco,[1] questa imitazione non senza accento, ma priva di accento, mi dava fastidio il suo atteggiamento, l’atteggiamento di uno che beve un bicchierino ogni tanto, così per caso, un alcolista come lo sono tutti qui, ma non come loro – tra l’altro un uomo impegnato e che andava a vedere i cavalli alla scuderia come se volesse comprarli, e Django raccontava pure che quello sapeva come s’ispeziona la dentatura.

 

Dunque era commerciante di cavalli. E ci si dimenticò subito che avrebbe potuto essere un industriale, o addirittura un inventore che ha a che fare con la NASA. Forse era biologo perché conversava con il dottor Amstel, e nei giorni di sole sedeva con lui nel giardino dietro casa, e quel dottor Amstel era un biologo e l’unico dottore del paese che non fosse un medico o un farmacista, ma qualcosa di simile a un professore. Si occupava anche del piccolo museo di storia e cultura locale e ogni tanto pubblicava nel bollettino un articolo sull’ultimo albero di sorbo che cresceva sul pendio e altri problemi ecologici.

Intanto io cercavo alleati contro il signore di Vilbel, qualcuno in grado di confermarmi che quello era un tipo sgradevole. Se ne avessi trovato anche uno solo, almeno Anita mi avrebbe sorriso da dietro il banco quando lui parlava, io sarei stato soddisfatto e lo avrei considerato uno qualunque e dimenticato.
Detestavo il suo modo di pagare il mio sidro, di pagarne altri due per me prima di andarsene, di battermi sulla spalla dicendo: «Ce ne sono altri due per lei».
Tra noi non parlavamo svizzero-tedesco. A poco a poco cominciai anche a dubitare che quello fosse svizzero, e mi chiedevo se il suo accento non fosse più un’imitazione dello svizzero-tedesco che del tedesco. Anche il suo nome, Charles Bönzchen, ad altri potrà pure suonare svizzero, io comunque un nome simile in Svizzera non lo avevo mai sentito. Pronunciato da un tedesco, con la ö chiusa e il ch tendente allo sch, aveva perfino una certa nobiltà che si sarebbe sposata bene con un «von» o «conte».

 

Alla Oberpforte rimase per sempre il signore di Vilbel, e forse fu il capocameriere viennese che per primo si rivolse a lui chiamandolo Monsieur Charles, nome che gli altri adottarono subito, e ora che ci penso mi sorprende sempre che i tedeschi riescano ad accentare sull’ultima sillaba perfino i monosillabi francesi.

Per farla breve, Monsieur Charles non mi piaceva. In seguito mi parve anche di ricordare che già quando girai la chiave della porta da basso ebbi la sensazione che nella mia vita si fosse insinuato un tipo della stessa nazionalità. Mi vanto sempre di riconoscere gli svizzeri. E li riconosco al più tardi quando salta fuori che lo sono. Finalmente mi ero lasciato quel paese alle spalle. Finché non era arrivato quell’altro, ero io lo svizzero qui, e non dovevo più preoccuparmi di niente. Quando parlavo della Svizzera dicevo «noi», è vero, ma fino a quel momento «noi svizzeri» ero sempre stato solo io. Consideravo la mia fuga definitiva. Il lavoro del cameriere offre il vantaggio che si rimane a distanza, stranieri, che il servilismo del mestiere ti rende superiore. Nessun’altra professione conferisce tanto potere con responsabilità così scarse, tempo libero così limitato, personalità così ridotta. Quando ero nella bettola accanto, ero anche il cameriere dell’hotel Zum Oberen Tor e nessuno mi chiedeva chi altri mai fossi. Scrivendo io stesso queste righe, non ho ragione di rivelare della mia persona più di quanto gli altri già non sappiano. Per la prima volta mi trovavo da qualche parte senza passato, quindi non volevo nemmeno un’origine. Perciò non mi dava fastidio essere lo svizzero qui, perché qui non avevo un paese – qui Lucerna è un posto qualunque che alcuni conoscono, ma che nessuno collega se non con impressioni visive.

 

Fu Django che con un bercio mi tirò dentro questa storia. Ora sprecavo il mio tempo a dimostrare che quella non era la mia storia e che non si trattava di me e che non dovevo dimostrare per quale ragione sono qui. Non è successo niente, niente. La sola cosa che mi dava fastidio era Monsieur Charles, e non sapevo nemmeno cos’era che m’infastidiva di lui. Comunque domani dovrò procurarmi una macchina da scrivere perché, al contrario di quanto pensavo all’inizio, dovrò scrivere di più e parlare di meno. Stamattina ho raccolto anche i miei appunti, perché li avevo scritti senza l’intenzione di conservarli.

Ormai Bönzchen viveva qui da settimane, il pomeriggio andava dal dottor Amstel, la mattina beveva il suo bianchino alla Oberpforte e la sera cenava al ristorante dell’albergo. Diciamo piuttosto che banchettava. Non che mangiasse molto, ma ordinava à la carte come se fosse stato all’Hilton, si faceva spiegare la più modesta cotoletta, faceva portare altre verdure e poi ordinava come per una tavolata intera. Tutto questo non faceva pensare che fosse un villeggiante perché – proprio per i gesti misurati che ne lasciavano intuire l’importanza, proprio per il fatto di prendersi tempo per tutto – pareva una persona che metteva a frutto il suo tempo e che si trovava in paese per motivi specifici, e non per caso come me – comunque io lavoravo lì.
Affittò subito anche una casella postale all’ufficio di fronte. Ogni mattina, e di solito anche verso sera, faceva la sua importante passeggiata fin lì e ritirava i giornali ai quali evidentemente si era abbonato al solo scopo di ricevere posta nella sua casella. Tuttavia a colazione chiedeva se ci fosse posta per lui, e uscendo diceva che aspettava una telefonata urgente alla quale bisognava rispondere che sarebbe tornato subito e avrebbe richiamato.

 

Quando una volta feci un commento con mastro Albert – come si faceva chiamare lui, forse perché in realtà era carpentiere, e in quanto tale non un operaio ma un vero mastro che aveva acquisito l’hotel Zum Oberen Tor con la dote della moglie e con sega, pialla e saldatore lo aveva trasformato in qualcosa che evocava lo stile rustico – quando una volta, dicevo, feci un commento con mastro Albert sulle telefonate urgenti che non arrivavano mai, mi riprese con severità: di telefonate ne arrivavano continuamente, anche dalla Francia e dall’Italia, dichiarò, Monsieur Bönzchen non era di quelli che dovevano fare le interurbane dall’ufficio postale dove costavano molto meno, e comunque non erano affari miei.

Ovunque cercassi, non trovavo alleati contro Charles, e desideravo sempre più che partisse e mi lasciasse finalmente in pace. In seguito, quando nella bettola dello jugoslavo sentii di nuovo uno straniero dall’accento meridionale, supposi che si trattasse di un altro svizzero. Ma infine risultò che era solo di Costanza, e io mi tranquillizzai. La stanchezza provoca quello strano fenomeno che ti fa prendere l’inglese o, mettiamo, il malese per svizzero-tedesco, all’improvviso ti sembra di sentire chiaramente una frase in svizzero-tedesco provenire dal tavolo accanto e ti volti con un sussulto: miraggi linguistici, fantasmi spaventosi più che dolci chimere.

 

Bönzchen mette radici. Abbandono la speranza che prima o poi ripartirà. Ieri si è fatto portare dal giardiniere tre piante in vaso. Ho rinunciato a fargli notare che non immagino come mastro Albert possa accettare una cosa simile, cioè consentire agli ospiti di procurarsi piante da interno. Ho rinunciato perché non vedevo l’ora di assistere alla sfuriata di Albert. Sentivo già la sua voce per le scale. Invece niente. E quando, spillando una birra, accennai al fatto che adesso lo svizzero aveva anche delle piante in camera, Albert mi diede una strigliata, non erano fatti miei. In ogni caso mi spaventai quando lo chiamai «lo svizzero» – nella speranza di denigrarlo o almeno di mettere una distanza tra noi. Finché Bönzchen sarà il cliente capitato per caso, io gli sarò superiore, perché abito qui. Denominare un connazionale secondo la sua nazionalità, significa prendere le distanze. Ma nessuno potrà biasimarmi, visto che sono svizzero anch’io. In ogni caso avrà la vita più difficile come «lo svizzero» che non come «Monsieur Charles».

 

La sera successiva, quando dovetti servirlo, e non per esempio mentre versavo il vino e passavo il cibo dal vassoio al piatto – nessuno può lamentarsi se lo si fa con particolare eleganza e gesti ampi, ma con particolare eleganza si può anche esprimere disprezzo –, quindi non mentre lo servivo, ma di sfuggita, passando davanti al suo tavolo, dissi: «Lo sa che le dieffenbachie sono velenose». Davo per scontato che non conoscesse il nome delle sue piante, davo per scontato che mi chiedesse cosa sono le dieffenbachie. Ero andato davvero in una libreria di Francoforte e mi ero comprato un tascabile sulle piante verdi da interno. Non so perché. Passai anche diverse volte, e senza alcuna necessità, davanti al suo tavolo e, con aria indaffarata, raccolsi portacenere puliti e li sostituii con portacenere puliti, sistemai le sedie accanto ai tavoli vuoti con occhiate di rimprovero come se fosse lui – l’unico cliente della giornata – il responsabile di quel disordine.
Mi lasciò passare più volte avanti e indietro e infine disse: «Cos’ha detto?». Misi il braccio sinistro dietro la schiena e gli spiegai che dalla dieffenbachia maculata, originaria delle zone tropicali del Brasile, si estrae il veleno per le frecce, e che la linfa può causare ustioni alle persone sensibili, che bisogna evitare particolarmente il contatto con gli occhi e con la bocca, che la palma da dattero – phoenix canariensis – predilige ambienti luminosi, soleggiati e che la dracena deremensis apprezza l’aria molto umida.

Lui ascoltò e fece la domanda che aspettavo: «Era giardiniere?». «No» risposi mentre mi allontanavo, e mi diressi al banco riordinando le sedie. Volevo dargli l’impressione che cose del genere si sanno.

 

M’immersi sempre più nella lettura del libro sulle piante – detto tra parentesi, ero anche stupito da quanto spesso conoscenze così casuali e inutili si potessero sfruttare –, seguendo attentamente le conversazioni alla Oberpforte e anche alla bettola dello jugoslavo di fronte, e cercando quegli spunti che contribuivano ad ampliare en passant questo mio nuovo campo del sapere. Se Bönzchen si era chiuso nel suo silenzio carico di significato, io cercavo di batterlo parlando e speravo anche di attirare su di me l’attenzione del dottor Amstel, di convincerlo in qualche modo che alla fin fine le conversazioni con il mio connazionale erano piuttosto infruttuose. Ma anche quando osservavo che a poco a poco mi ero fatto un’idea di quale fosse l’attività dello svizzero, non riuscivo più a disorientare nessuno. Frattanto il mestiere di Bönzchen non era altro che essere Monsieur Charles. Aveva il suo posto nel piccolo villaggio, come se ci fosse sempre stato, e anche se io c’ero da più tempo di lui, tutt’al più facevo parte dell’inventario, mentre lui era qualcuno.
Devo ammettere che mi domandavo se fosse il caso d’indagare su di lui, di tenerlo d’occhio diversi giorni per dimostrargli che io lo so che bazzica la Kaiserstrasse ed è implicato nel traffico di armi o droga. Ma allora perché non andare subito a dichiararlo alla Oberpforte. Le mie affermazioni non avrebbero più avuto nemmeno la possibilità di trasformarsi in dicerie, e se anche fosse stato un delinquente, qui da noi non lo era di sicuro. Qui è Monsieur Charles e tale rimarrà qui in paese, e che ogni tanto desse da mangiare alle anatre davanti al palazzo del governo lo si raccontava così: «Dà perfino da mangiare alle anatre», un modo per far notare il suo abbigliamento curato più che la sua gentilezza.
Un giorno, immagino, sarà così ubriaco che non riuscirà più a salire le scale. Lo sosterrò e lo porterò e avrò un buon motivo per essere disgustato di lui. Allora sarà fatta, allora non sarò io a raccontarlo in giro, allora potrà andare in giro lui ad accennare con un sorriso che il giorno prima era ubriaco fradicio. Io non lo confermerò, non gli darò la soddisfazione di credere che sia tutto a posto, e se non lo confermo, vorrà dire che sarà stato ancor più ubriaco. Non mi ricorderò, non mi ricorderò, tutto qui. Sarò quello che tutti i giorni ha a che fare con tipi del genere. Sarò quello che conosce i ricchi. Farebbe bene a essere gentile con me. «Sai, ti avevo raccontato» mi dirà alla Oberpforte, e io non lo confermerò. Farò sì con la testa o mi limiterò a un lungo sguardo, continuerò a dargli del Lei. La discrezione di un cameriere sarà il suo fallimento. In me non avrà un amico che accetta le sue sbronze, non lo consolerò dicendogli che ieri ha bevuto un bicchierino di troppo. Non ho niente a che fare con lui.

 

Quando infine riuscii a portarlo di sopra in camera sua, cercai di scaricarlo dalle spalle sul letto come mi ero immaginato, e mi seccò che il rumore non fosse quello che ci si aspetta da un corpo pesante buttato su un materasso. Si limitò a mettersi seduto e disse: «Questo maledetto Oppenheimer, questo bianco tedesco, abboccato, non posso più sentirla la parola “secco”».
E propose di bere ancora un whisky, e mi chiese di andare di sotto a prendere una bottiglia. «In fin dei conti siamo svizzeri» disse, questa volta in svizzero-tedesco. Decisi di nuovo di non esserlo, scesi e portai su la bottiglia, non senza aver fatto notare ad Albert l’ubriachezza e la stupidità dell’ospite, e ancora una volta attesi invano un segno di consenso. Così, pensai, se nessun altro me lo vuole confermare, sarà lui stesso a confermare di essere una nullità, e decisi di trattarlo con gentilezza e di versargli il whisky e, se necessario, di andare a prendere una seconda bottiglia.

E io saprò che è un signor nessuno, un individuo senza alcuna storia particolare, venuto con il solo scopo di darsi delle arie in questo piccolo villaggio, bighellonando qui per settimane, facendosi passare per un’eminenza grigia.

 

Quando tornai, mi ricevette come un ospite e riuscì quasi a sembrare sobrio. Spostò una sedia accanto alla dracena, disse: «Si accomodi» nel tono in cui per esempio ci si può rivolgere a qualcuno che si è candidato per un ruolo di middle manager, prese posto davanti alla dieffenbachia e poi si scusò per non avermi chiesto se volevo del ghiaccio nel whisky. Sul tavolino c’erano già due bicchieri e disse perfino che sarebbe andato lui a prendere il ghiaccio giù al ristorante. Lui non aggiungeva mai il ghiaccio, disse, e l’acqua c’è già dentro, dicono gli scozzesi. «Permette che mi tolga la giacca?» disse. «Si metta pure a suo agio».

Il tipo si era alzato in piedi e si calò nel suo ruolo. Ero seccato di non averlo costretto a togliersi le scarpe e i pantaloni, di non averlo aiutato in modo brusco e deciso, di non essermi rifiutato di andare a prendere il whisky, di non avergli detto: «Domani quando vuole, per oggi ha già bevuto abbastanza».
Ma sapevo che se non fossi riuscito a farlo ubriacare del tutto, il perdente sarei stato io.
Aprì la bottiglia, riempì i bicchieri quasi fino all’orlo, li confrontò con un’occhiata, mi guardò e con un gesto della mano m’invitò a prenderne uno. Ebbi come l’impressione di dover scegliere l’arma, come se i due bicchieri fossero diversi e la scelta sbagliata significasse la fine.
Io ero qui prima di lui. Lui è l’inseguitore, i ruoli non si possono invertire, mi ha messo alle strette. La fuga è vana, lo sa bene chi fugge. Decisi di assicurarmi una buona dose di whisky e mi preparai a bere, nient’altro che a bere. Ma ben presto dimenticai che era ubriaco. Ancora incapace di riconoscere la mia ubriachezza, non vedevo più la sua.

 

Capita di frequente che mi passi per la testa la frase: «Forse alla fine mi ucciderò», con dolcezza e senza alcun senso di minaccia, come se avessi deciso in anticipo di non farlo. Non c’era il minimo motivo di non andarsene in quel momento. Non ero affatto obbligato a rimanere lì, e rimasi. Lui era seduto davanti alla dieffenbachia, la camera era diventata una serra. Nel frattempo si era riempita di piante, e in base alle conoscenze acquisite di recente a poche di loro diedi una possibilità di sopravvivenza, perché la camera aveva un’unica finestra e non era abbastanza luminosa. Il letto era sotto le palme.

«Lei è sorpreso, e lo sono anch’io» disse. «Le piante non hanno alcuna importanza per me. Non so perché siano qui, ma ricordo che me l’ero immaginato così».

 

Mi ostinai a non partecipare alla conversazione, ad attenermi alle frasi fatte di un cameriere, a non togliermi il farfallino e il gilet. Se la camera fosse stata anche solo un po’ più grande, non mi sarei seduto, ma le piante mi costrinsero a farlo.
Mi aspettavo pure che mi chiedesse cosa ci facevo lì, come ci ero arrivato. Mi aspettavo che dicesse: «Non sembra un cameriere, chi è, cosa fa, sarebbe tagliato per –». Non lo disse.
«Come in una serra, ecco come me l’immaginavo» disse. «Un giardino d’inverno con poltrone di vimini, tavolini per fumatori, signore anziane e profumate che camminano su e giù, signori in frac che si sussurrano cose importanti. A Lucerna, quando ero bambino, ho visto un vero sultano con il suo seguito scendere allo Schweizerhof, proprio così. Signore velate di bianco. E automobili nere. Credo di averle sognate, quelle signore. Mi chiedo come facevo a sapere che dovevano essere belle. Comunque mi sembra di non avere mai incontrato in vita mia una donna di cui non mi sia innamorato. La mia prima insegnante portava un abito a righe bianco e nero. Mi chiederà perché le sto dicendo tutto questo. Avevo una storia con la mia insegnante, e lei non ne sapeva nulla. Se solo fosse possibile raccontare. Le dico che soffro, chi non soffre, mi guardo le mani, la vita mi è scivolata via tra queste dita. Lei dirà che è kitsch – già, e ciò che resta è il ricordo di un abito a righe bianco e nero. Dica pure che le do ai nervi. Non vorrei trattenerla, finisca di bere il suo whisky oppure no, si alzi, può andare. Non c’è bisogno che badi a me, posso raccontare tutto anche a me stesso.

 

«Ho fatto le mie esperienze, naturalmente. Ho fatto il servizio attivo – nel 1944 in Engadina. Dov’ero rimasto? Sono stato un marito fedele, mi creda – no, non lo ero, ma non come gli altri. Mi davano fastidio i colleghi d’ufficio che non avevano difficoltà a rimorchiare le ragazze. Non sono un donnaiolo. Cercavo di fare colpo sulle donne mostrando di non essere come gli uomini, e le donne perdevano la mia stima solo se si perdevano dietro a uomini che erano come gli uomini, cioè gli altri».
Questa frase fu troppo per lui. Rimase a lungo in silenzio, come per soppesarla, come per averne una visione d’insieme. Doveva avere l’impressione di aver detto una frase importante, che poi era sparita.
«Sono qui» disse «per riflettere ancora su tutto questo. No, dormo bene e mi sveglio più sereno di prima. Cosa dicevo degli uomini? Forse questo». Tirò fuori il portafoglio, ci frugò dentro, lo rimise in tasca.
«Probabilmente gli uomini commettono il grave errore di credere che le donne si facciano belle per loro» disse. «Lo fanno per sé stesse e si limitano a prenderci con sé. Mi sembra che le vediamo sempre e solo da dietro, e così cominciano a somigliarsi, e noi non ce le ricordiamo più. Ma non creda che non abbia avuto altro da fare nella mia vita. Sono un uomo di successo, in un certo senso. Ho la mia casa, non sono povero, posso dire di avere ottenuto qualcosa nella mia professione».

 

Mi chiese se avevo una ragazza, ma senza aspettarsi una risposta. I suoi figli erano adulti, disse, come per rispondere alla domanda che aveva rivolto a me. Finì anche per dire che ero ancora giovane: «A quarantacinque anni non si è vecchi, non creda». E aggiunse: «Ma come va in fretta, maledizione, eppure è passato tanto tempo». Io rimasi seduto, rimasi seduto e basta. Quel dannato whisky appiccicoso mi fece rimanere seduto. E lì c’era un tizio grassoccio che si cimentava in frasi del tipo: «Non è stata la sfortuna a perseguitarmi, solo l’infelicità».

E mi ricordai come sfoglia il menu, come si appoggia all’indietro quando ordina, come mi relega al ruolo di cameriere, come sa che l’arrosto si chiama «rôti» e come fa una pausa dopo averlo detto per darmi il tempo di fare domande, come infine chiede: «Ce l’avete?»

 

Ora avrà il suo cameriere, ora non uscirò dal personaggio. Ho imparato a non ascoltare. Ho imparato ad annuire al momento giusto e a sorridere sempre e comunque. Ho imparato a sentirmi parlare quando parlo.
La discrezione di un cameriere sarà il suo fallimento. Ma un cameriere resta in piedi, e un cameriere tiene la mano sulla schiena, e un cameriere si china in avanti quando non ascolta, e io ero seduto. Sono seduto su una sedia troppo bassa, impossibile alzarsi o piegarsi in avanti, e sopra di me la dracena e dietro di lui la dieffenbachia, e piano piano mettiamo radici nella serra e soccombiamo più alla dieffenbachia che al whisky, e a poco a poco la sua voce esce dalla foresta, non più parole, solo una voce. Non è il momento di addormentarsi.
«Baden-Baden» disse «è così che me la immaginavo, una località termale con palme in vaso, una passeggiata, un’orchestra nel padiglione della musica e un tempo quasi fermo. Fin da bambino desideravo essere un vecchio, non volevo diventarlo, no, volevo esserlo. Avere tutto alle spalle, avere tutto questo alle spalle con gli abiti a righe bianchi e neri, ricevere il sorriso delle signore con espressione grata e serena. Volevo solo questo, solo questo… – è chiedere troppo? Avevo la sua età, giovanotto, quando ho rinunciato ad aspettare, aspettare Baden-Baden. Lei non capisce, non può capire. Io stesso non me n’ero mai accorto. Solo ora che lo dico: all’epoca ho rinunciato ad aspettare. Ho scambiato l’attesa con l’impazienza della noia» disse, e subito alzò gli occhi al soffitto, sorpreso dalla sua stessa frase, poi mi rivolse uno sguardo interrogativo, chiedendosi se lasciare la frase così com’era.

 

«A proposito» disse «mi rendo conto per la prima volta che le piante sono esseri viventi. Per me è importante che crescano. Cerco di parlare con loro. Ho comprato anche dei fertilizzanti e un libro sulle piante da interno. So che la dieffenbachia è velenosa e viene dalle regioni tropicali del Sudamerica, è originaria del Brasile, appartiene alla famiglia delle aracee. Mi sono comprato un libro sulle piante da interno».
Si alzò e mi aspettavo che dicesse: «Si alzi!». Ma mi lasciò seduto. Mi occupai del mio whisky. Ora non volevo ascoltarlo e parve che avesse notato la mia decisione. Si volse a metà e sussurrò: «In realtà dovrebbe darle fastidio che abbia comprato il suo stesso libro sulle piante da interno». Mi alzai, mi avvicinai a lui, mi resi pure conto di essere uscito dal mio personaggio, lo toccai sul braccio e gli dissi: «Cos’ha detto?»
Tornammo a sederci e lui disse: «Dubito fortemente che questa pianta simile a una palma sia la dracena deremensis, come lei sostiene. Non assomiglia all’illustrazione del suo libro, del mio libro. Tuttavia è curioso che proprio in merito alla dracena il signor Gugenhahn non si pronunci sulle possibili varietà. Lo ammetta, lei non è interessato alle piante. Come fa a sapere che io non ne capisco nulla? Beh, queste sono le prime piante della mia vita, forse le prime che abbia mai guardato. Mi dà fastidio quando una foglia del ficus piangente – ficus benjamina – si arriccia, cambia colore e il giorno dopo cade. Forse perché qui la pianta ha poca luce. Per di più all’inizio la innaffiavo troppo. Ho tagliato due talee di punta, vede, qui, e per il momento le ho messe in acqua. Gugenhahn dubita che sia possibile farle radicare in questo modo. Guardi questi puntini bianchi nell’acqua, potrebbero essere radici? Comunque ci sto mettendo tutta la mia ambizione. Devono crescere, devono crescere per me. Voglio essere io a farle crescere. Dubito fortemente di amarle – capisce cosa intendo? Considero la loro crescita una prova d’amore e io non le amo. Già vivo con loro. Quando entro in camera me ne occupo per ore, ormai conosco ogni germoglio e osservo la crescita con la lente. Ma so che tutto questo è solo un tentativo di amarle, di scoprire cosa accade quando le si ama.
«Sì, è così che lo immaginavo. La hall di un hotel a Baden-Baden con tante piante verdi, con palme, palme in vaso. È l’unica ragione per cui si trovano qui; una scenografia, per così dire, una squallida scenografia. Baden-Baden a Bergen-Enkheim. Conosce la paura di aspettare là dove sarebbe possibile incontrarsi, eppure si aspetta, da qualche altra parte si aspetta?».

 

 

Da: © Peter Bichsel, La poiana. Di ubriaconi, poliziotti e della bella Maghelona, traduzione di Gabriella de’Grandi, Edizioni Casagrande, 2024

 

[1] Hochdeutsch, in contrapposizione ai dialetti parlati in Svizzera. (Tutte le note sono della traduttrice).

1 thought on “La poiana. Di ubriaconi, poliziotti e della bella Maghelona

  1. Ho appena letto l’intero libro (e il 23 dicembre uscirà sul settimanale per cui lavoro “Azione” una mia recensione), trovandolo di estrema attualità letteraria, se così si può dire. Molto bello.

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