di Michele Cecchini

 

Luigi Pulci, il grande scrittore del ‘400, era solito ritirarsi ogni tanto nella sontuosa dimora di Castelpulci (appunto) nei pressi di Scandicci, sia per sfuggire ai creditori sia per organizzare grandi cene, al termine delle quali leggeva ai commensali qualcosa di quel che andava elaborando. Siamo, per intenderci, nel 1477 e in quel periodo Pulci stava lavorando al Morgante.

Così, una sera dopo cena, propone agli amici il brano in cui Astarotte, un demone serpente, disserta di questioni scientifiche tra cui l’attraversamento delle colonne d’Ercole. Ne nasce un breve dibattito in cui intervengono, tra gli altri, Lorenzo il Magnifico e il matematico Paolo Dal Pozzo Toscanelli, il quale riferisce che un certo Cristoforo Colombo aveva in mente proprio quella stessa impresa, per raggiungere le Indie.

Oggi Castelpulci è un ospedale psichiatrico. Me lo indica il farmacista Bertolani Lorenzo di Badia a Settimo, quando gli chiedo di Dino Campana.

 

“È ricoverato lì da una decina d’anni”, mi dice, “ma sta benone”. Ci sta che il Bertolani Lorenzo sia in confidenza con i degenti per via del suo mestiere di farmacista. Oppure perché Campana a Bologna si era iscritto a Chimica per diventare farmacista pure lui, come volevano il babbo Giovanni e lo zio Torquato.

Anche a me è successo come a Mario Luzi e tanti altri: mi sono aperto alla poesia attraverso Dino Campana. La possibilità di andarlo a trovare mi scaraventa dentro un’agitazione come se dovessi avere a che fare con Astarotte, il demone serpente.

“Se vuoi fargli visita, vai pure. Prima era a San Salvi ma l’hanno visto subito che aveva bisogno del cronicario. Per questo è a Castelpulci. Non è pericoloso. L’unica raccomandazione: chiedi di Ettore Barbetti. Fattelo presentare da lui, dammi retta”. Siamo, per intenderci, nel 1930 e io vado a Castelpulci.

 

Il din don lento e lontano delle campane segnala le 11 e io mi sento preannunciato in modo troppo solenne. Varco la cancellata e vengo preso in consegna una suorina taciturna, che mi invita a seguirla con il solo suo andare. Sul ghiaino, i passettini di lei non fanno rumore, io mi par di scavare ad ogni passo una voragine.

Castelpulci è un edificio pallido e labirintico, fatto di stanzoni, chiostri e corridoi. Attraversiamo quel silenzio di caserma dentro a un odore che è un misto di medicinale e verdure lesse, fino a una vetrata. Lì si svolta e di fronte si squaderna il refettorio. Forse è la stessa sala in cui il Pulci organizzava le cene con gli amici.

Mi viene subito incontro un gigante di infermiere, come a chiedere conto della mia intrusione.

 

“Siete voi Ettore Barbetti? Mi manda il farmacista”, gli faccio.

Lui ha modi spicci: “Te vuoi incontrare Dino, vero?”. Non oso dire altro e faccio di sì con la testa.

Dalla camicia bianca del Barbetti parte un braccio nudo bello lungo al termine del quale c’è il dito indice che punta una figura seduta per terra buono buono in un angolo della sala. Io di quella figura vedo solo le gambe incrociate e le dita grosse che spuntano ai lati del giornale che tiene davanti a sé, tutto assorto nella lettura. Mi avvicino lentamente e quando gli sono a tiro, mi accorgo che il giornale è a rovescio.

“Signor Dino?”

Il giornale si abbassa come un sipario all’incontrario e mi appare un faccione largo quanto un piazzale. Dalla barba rossa bella zeppa sbrilluccicano due occhi azzurrognoli liquidi e potenti. Non sembra infastidito, anche se il tono è secco quando mi fa: “Cosa avete da guardare?”

“Niente, ci tenevo a incontrarvi”.

“Non penserete anche voi che sono tedesco, vero? M’è successo un branco di volte. Una volta a Novara sono finito in carcere. Io non avevo documenti e vaglielo a spiegare che non ero una spia tedesca. Sibilla venne a trovarmi quella volta. L’ultima che ci siamo visti fu proprio lì, nel parlatorio di quel carcere”.

A un certo punto irrompe nella conversazione un vecchietto che nel frattempo si è avvicinato lemme lemme. Mi guarda e dice: “Fai ammodo, bimbo. Costui è un buon figliolo, ma bada a non farlo inalberare”.

“Fatti gli affari tuoi, Chiucchiero, e lasciami parlare!”, lo zittisce subito Campana. Così mi accorgo che considera importante la nostra conversazione.

 

Precauzionalmente, metto su un tono il più delicato possibile: “Signor Dino no, io non penso che siate tedesco. Io penso che voi siate Dino Campana, il poeta”.

Lui non desiste dall’intransigenza: “Va bene. Ma se sei qui per parlare di letteratura e di poesia, io non ti dico un bel nulla. Con quelle faccende ho chiuso da parecchio”, e mette sull’aria capricciosa del bimbetto che si porta via il pallone.

Penso che dica così perché a suo tempo aveva prestato il manoscritto della sua raccolta Il più lungo giorno a Papini, durante una delle chiacchierate alle Giubbe Rosse. Papini lo aveva passato Soffici che lo aveva perduto. Campana l’aveva richiesto indietro varie volte ma niente. Aveva anche minacciato Papini di andare a Firenze armato di coltello, per riaverlo indietro, ma quell’unica copia non ci fu verso che saltasse fuori.

Così, aiutandosi con la memoria e con i vecchi appunti, aveva riscritto di sana pianta quel libro di poesie, e gli aveva dato un titolo nuovo: Canti Orfici.

La gente di Marradi, il suo paese, fece una sottoscrizione, oggi diremmo un crowdfunding. Pagarono il tipografo Ravagli perché stampasse un po’ di copie, che Campana stesso vendeva qua e là. Quell’opera passò praticamente sotto silenzio. Credo che l’insuccesso, insieme alla scarsa cura mostrata dagli amici, siano alla base di questo rifiuto di Campana di scrivere ancora e di occuparsi in generale di letteratura.

Per rincuorarlo, ci tengo a fargli sapere una cosa importantissima: “Ma lo sapete che il Vallecchi, l’editore, un anno fa ha preso questo opuscolo e lo ha ristampato? Non vi pare una bella cosa? Secondo me è un gesto coraggioso di cui dovreste andare fiero. Oltretutto questo libro ora circola,  e voi siete stimato un poeta di talento.

 

“Sì, sì, come no, me lo hanno detto. Il Pariani me ne ha pure portata una copia tempo fa”.

“Chi è il Pariani, se non sono indiscreto?”

“Un dottore. Un psichiatra. Fa degli studi sul rapporto tra arte e matti come me”.

“Ma insomma, questo nuovo libro vi piace?”

“Ma volete scherzare? Il testo è pieno di errori, è irriconoscibile. E poi hanno aggiunto altra roba. Che pasticcio. Non avrebbero dovuto”.

A me non pare proprio. Voglio dire, non vedo chissà quali differenze tra la copia di tipografia e questa di Vallecchi. Se non l’aggiunta di poesie, in effetti. “Sì, si tratta di poesie che lei ha pubblicato su varie riviste. Ma sono bellissime anche quelle”.

“Lo so, lo so. Io sono un grande poeta. Sono stato il primo a dare colore alla poesia europea, capite? La poesia è una cosa seria. È la vita. Una volta il Direttore del Telegrafo, il quotidiano di Livorno, osò scrivere di me delle castronerie tipo: “Un coso brutto e strano, dal pelo rosso e dall‘aria sospetta”. Proprio così. Perché in quel mese che stetti a Livorno, una volta mi fermarono le guardie alla Spianata dei Cavalleggeri. Avevo osato chiedere a due tizie dov’erano i Cantieri Orlando. Domanda sospetta, evidentemente, che fece ripartire un’altra volta questa storia della spia tedesca. Ma non si può scrivere così di me. Io sono un poeta. Sapete allora che cosa ho fatto? L’ho sfidato a duello, quel Banti Direttore del Telegrafo. Anche se poi non se ne fece di nulla”.

“Meno male, mi viene da dire”.

“Ora non voglio né sono in grado di occuparmi di poesia e di vita. Per questo, ho deciso che con la poesia basta così e, quando sarà il tempo, basta anche con la vita. Quando si è detto quel che si aveva da dire, tanto meglio starsene zitti. Io ho consacrato la vita alla poesia, e non riesco a esserle fedele che con il silenzio, oramai”.

“Ma ditemi: come passate le giornate, adesso, senza più la poesia?”

“Sto in cucina. Mi hanno messo a lavorare lì. Venga pure la morte pallida, io l’aspetto in cucina. Ora non ho più bisogno di nulla e continuo a vivere normalmente. Alla fine anche lo zio Mario ha vissuto la vita in un posto come questo. Che c’è di male. Quel che avevo da dire l’ho detto, tutto e subito. Dove avevo da andare, sono andato. Ho un bel viaggiato addosso, sapete? Anche fuori d’Italia”.

“No, veramente no”.

“E sapete cosa mi hanno scritto sul passaporto alla voce: ‘mestiere’? Scrivano. A me. Pensate che beffa. Da sfidare a duello anche l’addetto ai passaporti”.

Io vorrei tanto chiedergli se è vero che in passato ha attraversato anche lui le colonne d’Ercole per andare in Uruguay e Argentina. Ungaretti sostiene che Campana in realtà non sia mai partito e si sia inventato tutto. Nel timore che si inalberi, rimango zitto. Sia mai che il demone gli si risvegli.

“Adesso, se volete scusarmi, vi saluto. Non me ne vogliate, ma oggi è domenica e vado da Ettore”.

“Ve ne andate? Di già? E chi è Ettore?”, chiedo.

“Ettore l’infermiere. Mi porta a casa sua a pranzo a Rinaldi, la domenica. La mia compagnia è molto ambita, cosa credete?”.

 

Esco da Castelpulci con una sensazione di inadeguatezza profonda. Come se fossi stato liquidato troppo in fretta di fronte a una cosa troppo grande.

Così, poco dopo mi ritrovo di nuovo nella farmacia di Badia a Settimo da Lorenzo Bertolani. Gli dico che ho bisogno di saperne ancora un po’. Allora lui chiede di essere sostituito al bancone e mi fa accomodare nel retrobottega. È una luminosissima giornata di novembre del 2024, per intenderci.

Io vorrei che Lorenzo mi raccontasse com’è andata finire. E lui volentieri mi racconta. È andata a finire che Dino Campana muore circa un anno dopo il nostro incontro. Era a Castelpulci dal 1918 e ne esce solo da morto, il 1 marzo del 1932. Ma la sua irrequietezza non gli dà pace nemmeno dopo la morte. Inizialmente lo seppelliscono al cimitero di San Colombano. Poi, ventilata la possibilità che le spoglie finissero in una fossa comune, Piero Bargellini promuove una sottoscrizione, come quella per pubblicargli il libro, grazie alla quale la salma viene spostata nella vicina Badia a Settimo, nella cappellina di San Bernardo. Gli amici raccontano di essere rimasti seduti a lungo sull’erba del cimitero, in attesa che le ossa di Campana si asciugassero per bene al sole prima di deporle in una cassetta da portare a Badia. Mi pare una bella metafora della poesia, questa: che guarda allo scheletro delle cose nude e crude, asciugate dagli orpelli e da contemplare con quella dose di malinconica nostalgia verso ciò che è perduto per sempre, eppure è lì.

 

La cerimonia è solenne e partecipata. Siamo nel 1942, 3 marzo. Dieci anni e due giorni dopo la morte di Campana. Il corteo è enorme. Partecipano, tra gli altri, Luzi, Pratolini, Alfonso Gatto, Vallecchi, Papini, Carlo Bo, Bottai, Ottone Rosai. A calare le ossa di Campana nel loculo sono le mani di Eugenio Montale.

Ma nel 1944 i tedeschi fanno saltare il campanile di Badia, strategico per il controllo del territorio. La cappellina è distrutta. Le spoglie di Dino Campana vengono tratte dalle macerie e portate dentro la chiesa nella navata sinistra, dove oggi si trovano.

Di quale patologia soffrisse esattamente Dino Campana, non lo sa nemmeno Lorenzo, che ne ha parlato pure con Tobino, secondo il quale si trattava di schizofrenia. All’epoca parlavano di demenza precoce. In ogni caso sono tutte supposizioni, nessuno ha potuto consultare la documentazione. Perché a Castelpulci di documentazione non ce n’è. Solo testimonianze di medici, infermieri, degenti. Il primo a raccoglierle fu Sergio Zavoli.

 

Lorenzo mi racconta di aver parlato con la figlia di Ettore, l’infermiere. La quale ricorda molto bene quell’uomo che suo padre portava a casa con sé a pranzo la domenica. Parlavano a lungo seduti sul muretto lungo la strada di Rinaldi.

Mi rimane una curiosità. Il manoscritto che è andato perduto. “Sì sì, è saltato fuori”, mi dice Lorenzo. “All’inizio degli anni 70, la figlia di Soffici lo trovò nella casa di Poggio a Caiano, tra le scartoffie del padre. Ma i Canti Orfici sono più densi, più profondi, più belli”.

Una volta tanto, nel peggiore dei mondi possibili, una cosa che va per il meglio.

 

*

 

Devo questo piccolo scritto alla passione e alla generosità di Lorenzo Bertolani, farmacista di Badia a Settimo e studioso di Dino Campana. Queste righe nascono soprattutto dalla rielaborazione di una chiacchierata con lui. Alcune frasi attribuite ai personaggi in questione sono frutto di immaginazione, altre sono ricavate dall’epistolario e da testimonianze.

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