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di Andrea Cortellessa

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori  del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso.  È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 18 maggio 2012].

A congiungere Andrea Zanzotto a Giovanni Giudici è stato il più triste, il definitivo degli appuntamenti (24 maggio-18 ottobre 2011). Ma insieme li aveva trattati già molto tempo fa – quando le rispettive traiettorie poetiche erano al loro apice, e comunque ben lontane dal concludersi – un saggio storico che è tra i fondamenti della nostra critica di poesia (e che mi è molto caro anche per motivi personali): il capitolo sul Secondo Novecento che Giovanni Raboni stese per l’aggiornamento 1986 della grande Storia della letteratura italiana a suo tempo diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno (alle pp. 209-248 del vol. VII, tomo II; saggio poi compreso nell’edizione a mia cura di Giovanni Raboni, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano, Milano, Garzanti, 2005, pp. 190-250; le pagine dedicate ai due autori sono qui le 217-223): dove appunto Zanzotto e Giudici hanno l’appannaggio del capitolo-baricento intitolato Grande stile e ironia.

Con questa scelta strategica, infatti, Raboni faceva palese quanto significativa eccezione al rigoroso ordinamento “generazionale” col quale per il resto aveva impaginato il suo saggio di storiografia: un criterio desunto dalla leggendaria Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni di Albert Thibaudet e già fatto proprio, qualche anno prima, dall’antologia Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo (dove a far fede non è la data di nascita degli autori ma quella della loro presa di parola: e neppure la data dell’esordio a stampa ma di quello che gli alessandrini chiamavano floruit, cioè – per dirla alla maniera di Nietzsche – “quando un autore diventa quello che è”). Avvertendo in abbrivo che il «trattarli […] in un unico capitolo» aveva appunto l’intenzione di «suggerire soprattutto la loro solitudine, anzi le loro due solitudini» («figure isolate, non verosimilmente raggruppabili», le aveva definite in apertura).

A consentire l’accostamento di Giudici a Zanzotto, per Raboni, è la comune «combinazione apparentemente bizzarra formata da “grande stile” (che sta per presenza e primato di una forma alta, tragica di pronuncia e, più ancora, di interpretazione del mondo) e “ironia” (che sta, ovviamente, per tutto ciò che la parola significa e dunque, fra l’altro, per critica o abbassamento o ribaltamento dei contenuti formali espressi o implicati dal primo termine)» (p. 217). La dizione grande stile appartiene al vocabolario, e anzi all’ideario, più in voga nella critica del tempo: tre anni prima Gian Luigi Beccaria aveva curato un numero monografico della rivista «Sigma» dedicato proprio a Grande stile e poesia del Novecento (XVI, 2-3, 1983) che aveva destato un ampio dibattito; inoltre i contributi contenuti in quel fascicolo, dello stesso Beccaria e del già ricordato Mengaldo, apriranno di lì a poco le rispettive, influenti raccolte di saggi (nel 1989 Le forme della lontananza, edita da Garzanti, per il primo; nell’87, per il secondo, la «nuova serie» della Tradizione del Novecento edita da Vallecchi e nel 2003 riproposta da Einaudi).

Già leggendo di seguito questi due saggi, ci si rende conto di come la nozione di Grande stile ammettesse diverse accezioni, e accenti non meno diversi. Per Beccaria grande stile era «il rovescio dell’esibita audacia, dell’arbitrio grammaticale, di sperimentalismi. È ricerca di originalità di lingua e di separatezza senza rivoluzione formale. È unità dei “linguaggi” in atto: unità anche estremistica, ma non di rottura» (p. 26): «contro l’ineffabilità oracolare e l’asemanticità», il grande stile «si oppone all’euforia di chi ti offre poesie-omelie sull’afasia» (p. 28). Autore esemplare di questo tipo di atteggiamento da Beccaria viene individuato in Caproni. Il discorso di Mengaldo procede per contrapposizioni meno nette, e non indica esplicitamente un campione della categoria (ma si conclude sugli amati neo-dialettali – Pierro, Guerra, Marin). Decisivo crinale storico viene da lui individuato nella frattura con la quale si assiste a una rottura dell’«identificazione poesie = lirica» e alla riammissione di «una pluralità coesistente di forme e generi» (p. 15). Una rottura coincidente con l’esperienza di «Officina» e in particolare con le pratiche divergenti, ma dalle radici simili, di Pasolini e Fortini. Ma un’impresa che, in modo «evidente», pare a Mengaldo «non sia riuscita». Il vero grande stile infatti, per lui, caratterizza quegli autori che – negatisi a tale, diciamo, democratizzazione dei generi – hanno in sostanza continuato a scrivere poesia lirica. Li divide in due grandi categorie: gli orfici-sapienziali Luzi e Zanzotto e gli esistenziali-esperienziali Bertolucci, Caproni e Sereni. Sebbene confessi che «il suo cuore batte per questi secondi», è in effetti dei primi che parla soprattutto: cercando di «capire le ragioni» di chi insista nell’«estrema difesa di una forma cui la storia ha forse sottratto definitivamente la sua ragion d’essere» (p. 20).

Né nel discorso di Mengaldo né in quello di Beccaria, insomma, la figura di Zanzotto  risulta a ben vedere centrale. È significativo che il primo indichi nelle «prove recenti» di Zanzotto (dopo l’Ipersonetto del Galateo in Bosco, si capisce) un «carattere sostanzialmente manieristico» (perché appunto «lo stilus sublimis non può che passare per il manierismo quando manchino sempre più le ragioni storiche che lo necessitano, e quello stile sia dunque il prodotto di un’eroica sfida individuale», p. 21), mentre l’ammissione al grande stile di Zanzotto, per Beccaria, debba di contro passare per la sua difesa d’ufficio dal «labirinto del manierismo, ingolfato nella esasperazione della tecnica, nel feticismo del significante» cui il critico condanna «l’avanguardia»: mentre «la tecnica può essere anche non manieristica. Leggo così, poniamo, l’atonalismo di Zanzotto» (p. 20).

La figura di Zanzotto è insomma da entrambi ammessa nel campo del grande stile, ancorché in posizione più o meno defilata. Mentre, mai citato, Giudici non trova posto nel disegno di nessuno dei due. Va peraltro notato come entrambi descrivano il grande stile proprio in contrapposizione a ogni ipotesi di corruttela ironica. Beccaria lo dice esplicitamente («Grande stile non è consapevolezza ironica della precarietà della forma», p. 26) mentre secondo Mengaldo, al solito più sfumato, la posizione “difensiva” e “altolocata” dei poeti che «stanno eroicamente fermi nella rocca assediata e mantengono alto il tiro» – Luzi e appunto Zanzotto, per esempio – non consentirebbe loro quegli «effetti di doppiofondo e di chiaroscuro» che derivano «dal contrasto fra la non-perentorietà della comunicazione» e «il carattere perentorio che è naturalmente connesso all’enunciazione lirica in quanto tale»: un’ambiguità che si confà decisamente di più, invece, a quelli che (come gli amati Bertolucci, Sereni e Caproni) scendono dalla torre più alta, «escono per le strade, si mescolano ai nemici e sparano rasoterra» (p. 20).

L’idea davvero nuova di Raboni, e a mio modo di vedere molto più rispondente alla concreta postura tanto di Giudici (in maniera certo più esibita, tale da giustificare la sua esclusione dal ragionamento degli altri due critici) che di Zanzotto, è appunto che grande stile e ironia non solo non necessariamente sono in contraddizione l’uno con l’altro, ma anzi possono a vicenda spalleggiarsi e correggersi: facendo della poesia, insomma, quella che è a tutti gli effetti una formazione di compromesso tra le due attitudini. Lo dice esplicitamente, Raboni, dello Zanzotto da IX Ecloghe in avanti: «l’ironia s’è fatta lacerante; il linguaggio è diventato progetto, radiografia e, soprattutto, critica di se stesso. Ciò non toglie che ci sia ancora, e con esso la poesia. La poesia sta lì, ora, come dimensione ironica dell’ironia, come ironia della distruzione di se stessa tramite l’ironia» (p. 218). Che la sostanza prima della poesia di Giudici, poi, consistesse in quella che lo stesso diretto interessato, in un saggio uscito nel ’64 su «Quaderni Piacentini» (e poi compreso nella sua prima raccolta saggistica, La letteratura verso Hiroshima e altri scritti, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 207-217), definiva La gestione ironica, Raboni lo aveva già spiegato nei saggi più penetranti fra quelli compresi in Poesia italiana degli anni Sessanta (una successione che va forse indicata – insieme ai contributi sul “maestro” Sereni – come il vertice della produzione critica di Raboni è quella che da La vita in versi del ’65, passando per Giudici sosia di se stesso del ’72, conduce a Il verso del prigioniero del ’90). Nel saggio storico dell’86, sintetizza così Raboni la sua posizione: «C’è, nella poesia di Giovanni Giudici, una svolta, una scoperta che ne segna il vero principio» e che «consiste nell’abbandono dell’io lirico-autobiografico a favore di un io-personaggio, un intellettuale di estrazione e destino emblematicamente piccolo-borghesi che assume su di sé – ma deformandole, distanziandole, ironizzandole – vicende, aspirazione e amarezze dell’autore» (p. 220): sino a momenti in cui «lo scambio delle parti arriva a punte di quasi inafferrabile e ineffabile (e poeticamente assai produttiva) ambiguità», come nella raccolta Il male dei creditori del 1977 (p. 221).

L’ironia di Giudici, insomma, consiste per Raboni propriamente di quegli effetti di chiaroscuro, e anche di quel mescolarsi ai nemici, di cui parlava Mengaldo: come del resto dice con sufficiente chiarezza un titolo quale L’intelligenza col nemico, appunto, dato da Giudici alla sua terza pubblicazione, la plaquette pubblicata da All’Insegna del Pesce d’Oro nel ’57 (la cui poesia eponima figura in seconda sede nella Vita in versi, concludendosi con parole memorabili: «[…] tra le sponde / straniere vado e vengo, portatore / delle parole d’ordine; trattengo / fra due maschere avverse un volto solo, […] / […] C’è / chi mi crede un mercante intento ai traffici: / tu sai soltanto che è ambiguo il mio cuore, / ma non mente, Resistere è difficile»).

Che a congiungerli e in qualche modo a opporli, come in una figura a chiasmo, fosse proprio la iunctura paradossale che di lì a qualche anno metterà in luce Raboni lo sapevano bene per primi – mi pare – i due diretti interessati. Almeno a leggere con una certa malizia e diciamo tra le righe – come non si può non fare in questi casi di «ping pong» (o «corrispondenze e combattimenti») fra «autori-critici» – gli scritti che i due poeti si dedicarono a vicenda negli anni. Soprattutto in quello che fu un tempo-chiave nell’evolversi delle poetiche di entrambi: gli anni Settanta.

Il primo scritto di Giudici su Zanzotto, che si sappia, è la recensione alla Beltà apparsa su «l’Espresso», al quale il primo collaborava regolarmente, il 18 agosto 1968 col titolo La cantata del sior Bontempo. Ma è nel secondo, intitolato Petrarca scampa all’esplosione e uscito sulla medesima testata l’8 luglio 1973 (in recensione all’Oscar Mondadori curato da Stefano Agosti), che si fa strada – sotto la descrizione “esterna” del «più aristocratico e arduo (e peraltro autentico, appassionato, compromettente) fra i poeti della seconda metà del secolo», e della sua capacità di far brillare «Petrarca filtrato dai getti del napalm» (la persistenza dei riferimenti ai classici in quanto «idillio sconvolto dalla tragedia», «beltà profanata dall’orrore», «armonia devastata dalla violenza», tornerà al centro del discorso di Giudici su Zanzotto nel quarto e ultimo suo scritto che, col titolo eloquente L’Eneide, di Andrea Zanzotto, uscirà sempre su «l’Espresso», il 12 giugno 1983, in occasione della pubblicazione di Fosfeni) – un risvolto più personale, da Giudici significativamente riservato alle ultime righe del suo pezzo. Detto della necessità di quanto nella poesia zanzottiana appare oscuro, specie a partire dalla Beltà («dove Zanzotto ha centrato in pieno e impavidamente il detonatore psicolinguistico della sua “atomica” poetica»), aggiunge Giudici appunto in clausola: «né manca l’ironia alla pur tragica musa di Zanzotto, che “pro domo sua” non disdegna il ricorso al divertito esorcismo contro il demone della chiarezza a tutti i costi: a insistervi troppo si corre infatti il rischio di assomigliare alla “Signorina Morchet” che, giustamente ma invano, diceva a mia zia “Le poesie di suo nipote si capiscono poco”».

Passano quattro anni e giunge la “risposta” di Zanzotto. È l’unico testo critico che egli abbia mai licenziato su Giudici, ma di tale impressionante densità (come quasi sempre i suoi, peraltro) da svettare con agio nella relativa bibliografia e risultare da subito decisivo per ogni futura lettura dell’autore cui si riferisce. L’uomo impiegatizio esce dunque sul «Corriere della Sera» il 28 aprile 1977 (prima di figurare, col titolo L’uomo impiegatizio e Giudici, nella raccolta Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, pp. 130-4). L’occasione è data dalla pubblicazione della raccolta di Giudici Il male dei creditori: quello che qualche anno dopo, come abbiamo visto, verrà da Raboni indicato come libro-chiave del suo autore. E proprio dalla lettura raboniana, mi pare, Zanzotto trae l’idea di partenza, che però com’è suo costume sviluppa estremizzandola: Giudici ha «creato una specie di suo doppio, un personaggio che, si nasconda nell’io o nel tu, è una caricatura del sé in quanto tipo, generalità» (appunto l’«uomo impiegatizio» del titolo, dove la vecchia macchietta del Travet si colora di Kafka e magari Kracauer per diventare «una marionetta», «insieme elettronica, surreale e vecchissima», p. 131). Ma se questo vale per il versante più in luce della personalità di Giudici, appunto l’ironia (colorita sempre di un che d’ambiguamente furtivo e obliquo: «egli ha saputo spiare e filtrare il linguaggio medio», dice Zanzotto con sintomatica scelta lessicale nel mio corsivo: p. 130), il contributo in seguito provvede a cogliere altresì quello – all’epoca in ombra ma sempre più, negli anni seguenti, destinato a uscire allo scoperto – opposto e correlato del grande stile o, come preferisce dire Zanzotto, del (da altri innominabile) sublime: «un’altra e definitiva identità, morsa da una religiosa volontà di mutamento […] e, su questa linea, tesa anche a ricercare perfino nella peggiore banalità le tracce del pur detestato sublime» (p. 133).

Di quel titolo, Il male dei creditori, si finisce così per adombrare un versante metafisico: «Credito/debito verso chi? Verso la soglia in cui muoiono e da cui vengono tutti i discorsi».Una spia, un vero e proprio clic stilistico – di non poco momento – viene colto in un aspetto grafico sino ad allora trascurato da tutti i lettori di Giudici, quasi un messaggio in cifra la cui decodifica a sorpresa Zanzotto riserva per la conclusione a effetto del suo tour de force critico: «Ogni verso in questo libro comincia con la lettera maiuscola, sempre. Così si è spinti di continuo a leggere queste iniziali come in un acrostico. Nessuna lettura è possibile. L’acrostico è la propria assenza come la Beatrice: o è riducibile alla minutaglia di ciarpami linguistici che si vietano ad ogni pronuncia, ma tra i quali forse si nasconde l’alef» (p. 134).

Passano due anni ancora, ed ecco la replica di Giudici: all’uscita del Galateo in Bosco (Il poeta tra arcadia e avanguardia, in «l’Unità», 10 marzo 1979). Se gli altri suoi articoli sul collega s’erano potuti mantenere sul piano d’una dignitosa, diciamo, velocità di crociera, il precedente costituito dall’Uomo impiegatizio impone evidentemente a Giudici una ben diversa attenzione – e un ulteriore impegno retorico (non è un caso che, dei quattro pezzi censiti, sia questo l’unico che egli abbia poi voluto “salvare” in una propria raccolta saggistica: col titolo In questa lingua che passerà figura infatti in Per forza e per amore. Critica e letteratura (1966-1995), Garzanti 1996, pp. 150-154). Che almeno un piano del discorso sia di tipo allusivo e cifrato lo indica – mi pare – l’attacco stesso dell’articolo, «Andrea Zanzotto è il poeta che gode oggi in Italia del massimo credito»: dove l’espressione che ho segnalato in corsivo rinvia da un lato al titolo del proprio libro recensito dal collega, Il male dei creditori appunto, e dunque al debito nel quale con lui ci si sente. Ma rinvia pure, forse, ai temi che – speculando appunto sulla figura del credito/debito – Zanzotto aveva toccato nell’ultima parte del suo pezzo.

È un fatto che, mentre nei precedenti e meno impegnati articoli su di lui non aveva fatto altro che descrivere la maestria e la brillantezza del collega, in questo pezzo abbondino nei suoi confronti, da parte di Giudici, non dirò le riserve ma senz’altro i caveat: «È un poeta difficile sul quale si può scrivere facilmente e anche troppo talvolta […]. C’è persino il rischio, paradossale per uno scrittore di tanta passione e purezza, che possa diventare un poeta à la mode: il che darebbe luogo», aggiunge Giudici con lucidità persino antiveggente (se precisamente è questo, trent’anni dopo, il rischio che corriamo), «a un rischio antitetico, ferma restando (s’intende) la misura effettiva del suo contributo». In modo assai allusivo, dice insomma Giudici che le sorprendenti fortune di Zanzotto – in quei tardi anni Settanta in cui il suo «nome» (ma, aggiunge malizioso, «se non, altrettanto, la sua opera») «si diffonde con insistenza oltre la cerchia degli iniziati» – si devono alla consonanza delle sue scelte espressive con un clima culturale segnato da «correnti critiche particolarmente sensibili ai fenomeni del cosiddetto “significante”» (p. 150). Passato quel clima culturale (come di lì a poco sarebbe cominciato in effetti a passare) il rischio è che a farne le spese finisse per essere un’opera – quella di Zanzotto, appunto – che a quel clima preesisteva e che da esso s’era sviluppata indipendentemente. Il che è quanto, mi pare, con puntualità s’è verificato.

Al di là dei fuochi d’artificio del significante, però, è un altro e più profondo il punto sul quale Giudici esprime i punti di vista più originali e penetranti. La strumentazione stilistico-retorica esibita da Zanzotto non è infatti che un portato della «coscienza critico-intellettuale che obbligava il poeta» – sin dal punto di svolta, da Giudici giustamente indicato in IX Ecloghe (come più avanti farà anche Raboni, infatti) – «a mettere decisamente in crisi non soltanto i materiali consueti dell’espressione, ma anche, e specialmente, la dimensione convenzionale dei riferimenti». Lo sfondamento operato dalla Beltà (sfondamento esemplare «ma» – aggiunge Giudici in un inciso eloquente – «di una esemplarità non imitanda»), è principalmente in «modi del linguaggio che stanno al di qua o al di sotto della lingua di convenzione» (il livello insomma «pregrammaticale», per dirla col Contini pascolista): che giungono sino a «squarciare la scorza della cultura di convenzione» (p. 152).

Questa insistenza di Giudici sul termine convenzione mi pare alluda – e davvero in maniera cifrata, rivolta cioè al solo diretto interessato – a un versante della ricerca di Zanzotto che ben può ascriversi al polo dell’ironia (intesa, come dirà Raboni, quale critica del proprio linguaggio proprio mentre lo si adopera) –  appunto in rapporto al polo opposto della grande tradizione, del «sublime» o appunto del grande stile. Proprio negli anni di IX Ecloghe, in alcuni rari scritti sui quali opportunamente ha richiamato l’attenzione Francesco Carbognin (cfr. L’«altro spazio». Scienza, paesaggio, corpo nella poesia di Andrea Zanzotto, Nuova Editrice Magenta 2007, pp. 22-34), lo Zanzotto «atomico» (così definito proprio da Giudici, si ricorderà, già nel ’73) riprendeva il termine, nella pubblicistica di quegli anni d’uso comune, di armi convenzionali (contrapposte, s’intende, appunto a quelle nucleari) per definire il cosiddetto equilibrio del terrore nei termini (psichici) del doppio legame: «se la vera arma, quella che decide tutto, era l’arma atomica, essa era pure falsa, non potendosi adoperare. Ne risultava, così, una sorta di chiasmo: ciò che è vero, è falso, perché non si può adoperare, proprio perché vero» (così ha ricordato quegli anni in un’intervista rilasciata allo stesso Carbognin e a Glenn Mott, «Poetiche», n.s. 3, 2004, p. 447). Da questa circostanza storica, e anzi psico-storica, Zanzotto in quegli anni traeva un corollario, in sede di poetica, cui per un momento fu tentato di dare il nome di convenzionismo (e che andrebbe forse citato come primissimo, brancolante incunabolo italiano d’una coscienza critica della condizione quasi vent’anni dopo detta postmoderna…): nell’aprile del 1960, sulla rivista «La Situazione», esce un suo testo dal titolo Un neo-tenter de vivre (ora in appendice al saggio di Carbognin citato, alle pp. 231-235) dove si legge fra l’altro: «anche i generali si servono di armi “convenzionali” perché delle vere non possono far uso, e dunque esse non ci sono, “sono” unicamente nelle altre, attraverso le altre. Sentirsi convenzionali anche quando si brucia, sentirsi convenzionali rispetto ad un altro bruciare che non può più, non serve più, non merita più di essere detto: ma che c’è». E poi: «può anche esser vero che la convenzione sia un omaggio del caos alla “norma”» (p. 233). C’è già, in filigrana, come si vede, la riflessione che quasi dieci anni dopo – in un paesaggio apocalittico, lampeggiante delle corrusche luci del napalm – metterà capo a La Beltà in nome appunto della «madre norma» (e infatti, all’inizio del testo del ’60, fa altresì la sua prima comparsa l’immagine – ripresa dai Minima moralia adorniani e destinata com’è noto a siglare appunto La Beltà col più memorabile dei suoi emblemi, in Al mondo – del paradosso per cui certo, si sa, è «vano ingegnarsi a uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli», ma ciò malgrado è «“quasi” vero che l’uomo è sempre costretto a tentar di trarsi d’impaccio proprio in questo modo, e costretto a chiamare novità quanto si sarebbe potuto verificare per vecchio solo con una certa attenzione. Dobbiamo dunque sempre essere un po’ Münchhausen: ma sarà altrettanto legittimo rifiutarsi ad esserlo del tutto», p. 231).

Non è un caso che Giudici insista sul richiamo di Zanzotto a quanto di inevitabilmente convenzionale abita il linguaggio poetico – cita infatti (più avanti traendone anche il titolo del proprio intervento) il primo passo, nell’opera in versi zanzottiana, in cui si appalesi tale consapevolezza: «Io parlo in questa / lingua che passerà» (Caso vocativo in Vocativo, 1957) – e al modo in cui lo stesso Zanzotto stava tentando di salvarsene. Anziché evadere dalla convenzione “verso il basso”, cioè, sfuggendone verso l’alto: accentuando i termini di quella convenzione sino al suo irrigidimento manieristico (se necessario, cioè, tirandosi per il codino). Un esercizio di parodia e una gestione ironica, dunque. Anche se il luogo dell’opera di Zanzotto in cui quest’acrobazia viene tentata in maniera esplicita, l’Ipersonetto incastonato al centro del Galateo appunto, Giudici giustamente lo definisce «non del tutto ironico omaggio» alle «sublimi maniere della tradizione letteraria» (p. 153). L’orrore della «storia come macello» spinge infatti Zanzotto, nel Galateo, a quella che Giudici definisce «la superstite e originaria aspirazione a un sublime poetico, raggiungibile “solo per sconnessioni” appunto “per salti”» (p. 154). Il destino di Münchhausen, nella Beltà, era stato definito non a caso, insieme, «“sublime” e ridicolo».

Ma il tentativo convenzionista di Zanzotto non era affatto dissimile, nella sostanza, da quello che – proprio a partire dallo stesso torno di tempo – aveva operato lo stesso Giudici. Nel già ricordato saggio del ’64 dal titolo La gestione ironica aveva scritto con grande lucidità, infatti, che «nell’impossibilità di innovare» resta la possibilità di «esercitare l’atto innovatore in altra direzione, rovesciandolo: a innovare cioè non la forma istituzionale, ma il suo proprio atteggiamento nei riguardi della medesima, attribuendogli un ossequio, un riconoscimento, tanto chiaramente formale da apparir menzognero, ossia ironico, equivalente insomma a una sospensione o negazione di riconoscimento» (p. 213). Esplicita era stata in Giudici la connotazione politica di un simile atteggiamento: «Quando la rivoluzione non è possibile e l’intervento riformatore si prospetta inefficace, la gestione ironica è un tipo di approccio che non compromette la volontà organizzante, differenziante, del soggetto, non la isola dalla realtà del suo tema» (p. 214). È appena il caso di aggiungere come proprio questa fosse stata l’ulteriore piega del discorso su cui si annodò il dialogo, assai più problematico, che entrambi i protagonisti del nostro incontro di oggi, negli anni, intrattennero con un terzo e decisivo interlocutore: Franco Fortini (per il solo Zanzotto rinvio al mio Fortini-Zanzotto: Il sangue, il clone, la madre norma, in Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Le Lettere 2008, pp. 133-164: che comprende anche una selezione dal carteggio inedito fra i due).

Tentazione “ridicola” del sublime e consapevolezza profonda della sua inattingibilità se non per convenzione erano insomma – tanto per Giudici che per Zanzotto – i poli d’una tensione mai risolta. Grande stile e ironia erano, per loro, davvero le facce d’una stessa medaglia: che, nella sua unicità e integrità, nessuno dei due avrebbe mai ipotizzato fosse possibile appuntarsi al petto. Entrambi insomma – sia pure in forme diverse e con accenti diversi – condividevano la credenza in qualcosa che non può più, non serve più, non merita più di essere detto: ma che c’è.

 [Questo saggio è uscito in Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto, atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, sezione monografica a cura di Giulio Ferroni de «l’immaginazione», XXVIII, 268, marzo-aprile 2012]

[Immagine: Jessica Backhaus, I wanted to see the world (and other projects) (gm)].

3 thoughts on “Qualcosa che c’è. Giudici e Zanzotto

  1. Saggio davvero interessante.
    Visto che Cortellessa cita anche il suo” Fortini-Zanzotto: Il sangue, il clone, la madre norma, in Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Le Lettere 2008, pp. 133-164: che comprende anche una selezione dal carteggio inedito fra i due)”, non potrebbe fare un post su LPLC anche di questo?

  2. Molto, molto stimolante. Lo inserirò nella mia bibliografia personale/mentale al capitolo “Giudici, l’amatissimo”.

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