di Federica Gregoratto
L'amore ai tempi del neoliberalismo, rubrica a cura di Federica Gregoratto
Fin dal suo esordio, ho sempre pensato che Sally Rooney fosse più interessante come filosofa che come scrittrice. Mentre la sua poetica, mi pare, non scalfisce le convenzioni del romanzo borghese ottocentesco, i suoi ritratti intimi sono concettualmente sorprendenti. Sembrerebbe impossibile, nella nostra era post-romantica, riuscire a dire qualcosa di nuovo o almeno di diverso sull’amore e l’amicizia, eppure, le trame sentimentali non troppo ardite e i personaggi ‘normali troppo normali’ dei suoi primi tre romanzi mettono a disposizione occasioni di riflessione più ricche e astute della maggior parte della letteratura filosofica su questi temi. Fanno traballare, ci costringono, ma con gentilezza, a ridefinire i modi in cui ci siamo abituati a vivere e pensare il confine confuso tra amore romantico e amicizia, e il ruolo incerto e fragile che queste relazioni possono e devono avere nella nostra pratica, collettiva e politica, di stare al mondo.[1]
Intermezzo, l’ultimo lavoro di Rooney, con la sua trama rotonda e perfette parole (“utterly perfect”, scrive Anthony Cummins sul Guardian), fa qualcosa di diverso. O almeno l’ha fatto a me, che l’ho letto al rallentatore, contrariamente alle mie abitudini, desiderando che non finisse, come l’abbraccio di qualcunə che ti fa godere, e riposare, e costringe a pensare a partire da quel luogo in cui il pensiero non conta poi molto.
Forse, non posso dirlo con certezza, Rooney è riuscita ora a far “lavorare le parole”[2] in modo letterariamente più accorto che in precedenza. Soprattutto, ha cercato di rivendicare la sua voce di scrittrice di contro alla pretesa – che le attribuivo io – della filosofia. Senza nascondermi l’ossessività filosofica della domanda: ma in fondo il valore e la bellezza della letteratura non sta, semplicemente, nel potere di far sentire con le parole quello a cui i concetti e le teorie non arrivano? Nel doppio movimento tra un fiducioso abbandono al potere del linguaggio e la capacità di riuscire a dominarlo al punto da fargli dire quel “laddove” che si dovrebbe invece solo tacere?
Il filosofo Ludwig Wittgenstein è in effetti uno dei riferimenti espliciti del romanzo. Quel “worüber man nicht sprechen kann” è, in Intermezzo, niente meno che la vita, raccontata però dalla prospettiva del suo apparente negativo, nell’esperienza della perdita. Il fulcro drammatico e narrativo è il lutto di due fratelli, il trentenne Peter e il ventenne Ivan, per il padre appena morto di cancro. Significativamente, la personalità e incidenza nella vita dei protagonisti della figura maschile di riferimento si profila vagamente, suggerendo con delicatezza che qui forse potrebbe e dovrebbe starci il vero significato della perdita del padre, un ruolo che si è sfaldato già da tempo nelle trasformazioni delle strutture di autorità del patriarcato.
Il significato della perdita di un genitore si dipana e concretizza, in vita, nella perdita dell’amore, nelle sue molte forme: i due fratelli fanno i conti con una madre che appare, a loro due almeno, assente e poco amorevole, per poi fortunatamente realizzare che “a mother is not an endless thing” (p. 399); Margaret, il primo amore di Ivan, cerca di stare a galla nella separazione dall’ex marito alcolizzato; Peter deve affrontare le conseguenze del terribile incidente dell’amata Sylvia, che ora soffre di dolori cronici, e che, in un mix di cura, vendetta e autopunizione, non vuole più una relazione romantica con lui, senza però lasciarlo andare; Ivan è tormentato dalla paura di stare perdendo il suo genio scacchistico, e, allo stesso tempo, l’affetto del e per il fratello maggiore.
Nella dialettica tra morte e vita, ogni perdita schiude possibilità, di una nuova identità, la speranza e la promessa di un nuovo (amore). La perdita è allora davvero il problema e la contraddizione portante della modernità, come argomenta il sociologo tedesco Andreas Reckwitz in un altro grande libro appena uscito, Verlust. Ein Grundproblem der Moderne (Suhrkamp, 2024)?
È Peter che più di chiunque altro incarna e mostra ciò che la perdita dell’‘oggetto’ d’amore, per dirla psicanaliticamente, produce sul sé, e sul mondo: l’io stesso diventa “povero e vuoto”, così Freud del malinconico in Trauer und Melancholie – ma il mondo pure lo diventa, che lutto e malinconia molto spesso si intrecciano, o almeno questo è l’intreccio di Intermezzo.
Beautiful world, invochiamo ancora, where are you? La risposta, nell’ultimo come nel penultimo romanzo di Rooney, è, banalmente ma non più cosi tanto, l’amore, o meglio, ora, gli amori, al plurale. E non solo perché nel suo ultimo, più adulto lavoro, la scrittrice irlandese non è interessata solo a amicizia e amore romantico ma anche a quello famigliare, tra genitori e figlə e tra fratelli, e si delizia a indagare le intricate relazioni tra tipi diversi di relazione. Ma anche perché, dopo il primo timido tentativo di Conversations with Friends, un po’ codardamente abbandonato nei libri successivi, la possibilità e possibile bontà di amare eroticamente più di una persona allo stesso tempo viene presa qui finalmente sul serio. Lo sguardo di Rooney sul poliamore parte da una posizione conservatrice, ma è sincero, cristallino, ironico.
È Peter ad amare due donne contemporaneamente. Da una parte ha ancora Sylvia, sua coetanea e pari, che tuttavia, a differenza sua, non ha rinunciato all’amore per la filosofia e le lettere sacrificandole a una più proficua carriera come avvocato. Dall’altra, una nuova ragazza, Naomi, coetanea di Ivan, che lo eccita e spaventa a morte con la sua precarietà esistenziale oltre che materiale e saggia sfrontatezza. Tra uno sfratto, un profilo Onlyfans e qualche droga la ventenne si dimostra più centrata e stabile di lui, e, nella sua freschezza per il momento risparmiata dalla perdita, meno emotivamente ambivalente di Sylvia. (Naomi, forse per questa sua immediatezza che sfugge non è rappresentata nei flussi di coscienza joyciani attraverso cui impariamo a conoscere gli altri personaggi. Peccato.)
Sommerso nei fumi malinconici dell’odio di sé e della colpa, Peter non riesce a capire come far stare insieme le due donne, nella sua testa più che nella sua vita: “has to be one or the other, of course, that’s a given. Nobody argues about that anymore, except those unnerving moonfaced people, the polyamorous, fetishists, and so forth. People who have cashed in their erotic stake in civil society and are doomed forever after sexual irrelevance in the eyes of anyone normal, no offence.” Più risolutamente che in Normal People, quella che Erich Fromm aveva chiamato la “patologia della normalità” viene sbugiardata qui come tentativo illusorio, inefficace, un po’ ridicolo. In The Sane Society (1955), Fromm aveva descritto con apprensione la tendenza delle società tardo-capitalistiche di acquietare e disinnescare i conflitti devastanti, ma forieri di critica e trasformazione, tra un ordine di desiderio collettivo e sociale e un ordine di desiderio personale, singolare, incasinato, vibrante di libertà. Cento anni dopo Freud, con buona pace delle varie psicologie e tecniche terapeutiche orientate all’equilibrio e alla pacificazione del sé, lo stesso tipo di conflitto continua a tormentare il confine tra conscio e inconscio.
(Un motore concettuale importante del plot di Intermezzo, tra parentesi, è il progressivo e lento sfaldarsi di certe problematiche e bizzarre norme socio-culturali, presentate per buona parte come ‘naturali’: la monogamia, la dicotomia donna angelo/puttana, la differenza d’età, in una relazione sentimentale, come scandalo e vergogna, e il fatto che appena passata la soglia dei trent’anni una donna si consideri “di mezza età”.)
Alla fine, Naomi e Sylvia s’incontrano, si alleano per ripescare Peter fuori dal buco nero in cui è caduto, lo convincono che una soluzione, a tre, si può ben trovare. È divertente che proprio Wittgenstein venga invocato per ripensare radicalmente le possibilità che riusciamo a percepire quando si tratta di relazioni: “Here saying ‘There is no third possibility’ or ‘But there can’t be a third possibility!’ – expresses only your inability to turn your eyes away from this picture. Is she or isn’t she. Are they or not.”
L’amore e la vita possono essere più semplici di quanto siamo abituati a raffigurarci nelle spirali della malinconia. E la buona letteratura può anche permettersi un happy end, a patto che la gioia e lo slancio verso il futuro non distolgano lo sguardo dalla disperazione e dalla perdita, ma che accettino di immergervisi, per poi in qualche modo riemergerne.
Playlist ispirata da Intermezzo
(Adrianne Lenker, “Sadness As A Gift”, 2024, live from Greenwich Village with Nick Hakim)
(Soap&Skin, “Born to Lose”, 2024)
(Joan Shelley, “The Fading”, 2019)
(Andrea Laszlo De Simone, “Conchiglie”, 2019)
(Brunori Sas, “Il morso di Tyson”, 2024)
(Brandi Carlile, “This Time Tomorrow”, 2021)
(La rappresentante di lista, “Giorni Felici”, 2024)
Note
[1] Di questo traballare, in un tentativo di ridefinizione, ne ho scritto, anche mossa da Sally Rooney, in Love Troubles. A Philosophy of Eros.
[2] L’espressione è di Luca Illetterati in un suo bell’intervento al congresso “Filosofia tra (Auto)Critica e Trasformazione”, organizzato da Giovanna Miolli all’Università di Padova nel Dicembre 2024.