di Anna Maria Carpi
Si chiamano colf. Noi ne abbiamo tre, a rotazione. Ce le ha procurate tramite agenzia un giovane amico: “Voi in casa da soli? Oh no, sarebbe un rischio”.
Soli la notte siamo comunque e a me vien freddo a pensare di organizzare da noi un nuovo letto per una persona estranea. E dove? Abbiamo sì ben cinque finestre con una bella vista su un parco, ma oltre a bagno cucina ripostiglio, solo tre stanze, studio, soggiorno e camera nostra. E quadri e libri libri libri. Dove piazzare un’aliena? E le sue robe?
Una volta ascoltavamo tanta musica. Radio, dischi. Ora non più: le emozioni ci fanno paura, non si sa dove metterle. Una volta c’erano anche gli aperitivi, le cene, le vacanze, ma con l’età le amicizie di una vita si squagliano: ognuno è preso dai suoi mali. E nella disperazione per la vita che meniamo, a me a volte viene da uccidere qualcuno. Una di loro? Iryna, o Irma o Maja?
Iryna, sui cinquanta, ucraina, ci racconta che ha fatto l’università, ha fatto biologia, ma in patria non c’era lavoro. E’ a Milano da vent’anni, ha sposato un italiano che lavora nei trasporti e ha due figli grandi. Sa l’italiano, fa pochi errori, e il suo parlare conferma che il primo scoglio dell’italiano è l’uso delle particelle, “glielo dico”, “te lo mando”, o “che ne so”. Viene da noi tutti i giorni da lunedì a venerdì, dalle 9 del mattino alle 2 del pomeriggio, pranza con noi, e a pranzo parla e parla, poi se ne va, a servire altrove fino a sera. Bassa, jeans o gonnella a metà coscia, fianchi pesanti, 40 di scarpe, frangetta e capelli biondi, dritti, che le coprono appena le orecchie. Denti sani, sopraccigli perfetti, fatti con la matita. E di stupefacente: la memoria. Sempre tesa a captare ciò che si dice in casa fra di noi, i contatti che abbiamo e chi è venuto a trovarci e chi ha portato quei fiori: chi era, chiede ogni volta, un amico, un parente?
La seconda è Irma, georgiana, 45 anni, due figli ventenni, piccola, bruna, codina di cavallo che è di fatto un ciuffetto scarduffato, uno scopino, qualche lacuna fra i molari, naso piccolo aggobbito, dice, “da una caduta nell’infanzia”. Viene nei pomeriggi feriali. Avendo poco da fare, salvo un giro a braccetto con me intorno a casa, sta perlopiù in soggiorno a leggere il giornale tenendosi la giacca a portata di mano sulla spalliera della poltrona e tutte le volta che mi ha di fronte gli occhi le ruotano in su verso il soffitto.
La terza è Maja, anche lei georgiana, alta, cicciona, zazzera corta, ossigenata. Vedova, ridanciana, figli grandi in Georgia. E’ da noi il sabato mattina e l’intera domenica. Porta una maglietta estiva con la scritta “life is good” e così corta che lascia a nudo i lombi della sua bombata schiena. Io ci scherzo: Maja, che vuol dire questa scritta? Non so, dice lei. Anche lei, sbrigato quel poco che le compete, ma bisogna sempre dirle di che si tratta, si piazza in soggiorno a leggere i giornali. So che vorrebbe guardare la TV ma, visto che da noi sta perlopiù spenta, si attacca al telefonino.
E ci sono almeno un po’ affezionate? si domanda il mio stupido amor proprio. Poi rido: e perché dovrebbero? Forse dovrebbe Iryna, che non è stupida, forse dovrebbe Maja che è una facilona, o forse Irma che secondo me è una fintona? Mi dice “cara” ogni tre parole ma guardando da un’altra parte, e di me rileva solo che mangio troppo poco. Ma giorni fa scopro che invece dei giornali si è presa un libro dalla mia scrivania. A casa però non se lo porta, quando la sera se ne va lo lascia qui su un tavolino e io posso controllare ogni giorno a che punto è: sempre quello, il segnalibro, una vecchia cartolina, non si sposta. Alle 5 già traffica per la cena e alle 7 e 30, io in cucina — mi sono appena messa a tavola — s’affaccia, già in giacca, con un garrulo “a domani, cara, stammi bene”: un buffo di vento, e così farebbe anche se io fossi moribonda.
Non ho armi, mai avute, e mai avuti pensieri omicidi. E ora invece…come uccidere almeno una delle tre?
Non ci sarebbe che farla precipitare in strada dal balcone del soggiorno. I tre piani basterebbero a farla andare in pezzi. Scelgo Irma e vado a prendere un paio di guanti: non devo lasciare impronte.
“Vieni, vieni a vedere”, le dico, “guarda che meraviglia!” Abbiamo davanti un imponente ippocastano, che sta mettendo le foglie. Lei viene, ma io vedo che gli alberi non le interessano e provo un empito d’odio. Apro la finestra del soggiorno, esco sul balcone, la spingo delicatamente avanti: “Affacciati, guarda quell’albero”. Ho messo i guanti, le dico, perché fa freddo. Lei emette un rispettoso “freddo?”ma obbedisce, appoggia i gomiti sul davanzale, si sporge e guarda giù, sulla via, dove non c’è nulla da vedere se non auto parcheggiate, un mare di tetti di auto.
E’ piccola e leggera, io l’afferro per i piedi, tutti e due, la sollevo, la capovolgo, la spingo in giù, lei non se l’aspettava e cola a picco nel vuoto, urlando, a braccia aperte. Anch’io urlo, urlo aiuto aiuto. Dei rari passanti, tre o quattro, uno si attacca al cell. Altri emergono come dal nulla. Vociano, strepitano. Arriva gente. Mi copre la vista. Poi c’è chi corre via a chiamare non sa chi e c’è chi guarda in su, a questo balcone, a me che con le mani nei capelli urlo: “Irma, che hai fatto, che hai fatto”.
L’unico indizio a mio sfavore potrebbero essere i guanti: i guanti per uscire sul balcone? Perché? Risponderò: “Perché stavo uscendo di casa, col freddo che faceva!” Poi dirò: “Lei era da noi da poco, io so solo che era in preda a una grave depressione, quella mattina spolverando mi aveva appena detto con le lacrime agli occhi ‘la mia Georgia è così lontana’, e io l’ho abbracciata. Cercavo di consolarla ma senza successo: questa mattina l’avevo invitata a fare una pausa, a prendere con me una boccata d’aria sul balcone. Lei ha aperto, è uscita per prima. Io sono freddolosa, cercavo i miei guanti. L’ho seguita, ma lei era già mezza fuori dal parapetto. Ho poche forze, l’ho afferrata per tutte e due le caviglie, ma a trattenerla non ce l’ho fatta…”
Molto simpatico questo racconto e soprattutto attuale. Ho apprezzato il punto di vista della signora.